LA PANIFICAZIONE IN SARDEGNA, UN RITO SACRO CHE RAPPRESENTA L’IDENTITA’ DI UN POPOLO

La panificazione in Sardegna è un rito sacro. Come nel resto del Mediterraneo, secondo l’espressione di Fernand Braudel (storico francese) il grano è re. Lo sanno bene le signore anziane, custodi di antichissime tradizioni ereditate oralmente da nonne, madri e zie. E se le prime testimonianze di pane lievitato risalgono agli antichi Egizi, come racconta lo storico Erodoto, in cui un pezzo di pasta era aggiunto alle farine di frumento per produrre una nuova pasta lievitata, la Sardegna ha mantenuto nel corso dei secoli questo filo invisibile con il passato e ha conservato immutato questo procedimento. Alberto Mario Cirese, illustre antropologo, nel suo saggio degli anni settanta ha definito l’arte della panificazione ‘un’arte plastica effimera’ e uno dei tratti culturali più intrinseci e rappresentativi della tradizione sarda. Il pane in Sardegna ha rappresentato e continua a rappresentare l’identità di un popolo.
Le tipologie di pane presenti sull’Isola sono molteplici ed è facile capire che questo sia dipeso in prevalenza dalla cultura locale e dalle esigenze della comunità: differenze dovute alla geografia dei luoghi dove si sono radicate. In una realtà prevalentemente pastorale il pane più diffuso (specie in montagna) era su pistoccu, su pane carasau, per garantire agli allevatori lontani da casa l’autonomia alimentare (insieme al formaggio stagionato) durante i lunghi periodi di transumanza. Nelle località più vicine alle coste o alle pianure, come Paulilatino per esempio, situato nella parte centro occidentale dell’isola i pani più diffusi erano e sono su crivazu e su tzichi.
Le sorelle Piredda (Mariangela 89 anni, Sofia 79) citate in alcuni importanti testi di panificazione sarda conservano utensili e ferri del mestiere insieme ai ricordi di una vita. Mariangela racconta di aver iniziato a mettere le mani in pasta all’età di 15 anni, Sofia all’età di 20 anni. ’Nostra madre faceva il pane per dodici persone -raccontano – le famiglie a quei tempi erano numerose e in casa si impastavano fino a 30 kg di farina, poiché il pane- proseguono – era il protagonista della tavola di ricchi e dei più poveri, se c’era il pane c’era già tutto’.
All’epoca (parliamo infatti di settant’anni fa) fare il pane significava mettersi al lavoro dal giorno precedente, perché l’atto della panificazione aveva inizio con la preparazione delle farine. E i luoghi dove si preparava il pane erano i luoghi più puliti della casa, a cominciare dal tavolo (sa mesa de faede su pane) e dai suoi recipienti. Il lievito (su fremmentazu) era un pezzo di pasta di pane conservato dalla precedente panificazione, riposto all’interno di un recipiente di terracotta e coperto da panni di lana. Questo è uno dei processi biotecnologici più antichi della tradizione sarda, strettamente legato anche all’abilità della massaia. Da un semplice impasto di acqua e farina, si otteneva una pasta madre acida da rinnovare settimanalmente di panificazione in panificazione. Gesti ripetuti che diventavano una liturgia laica, per radunare intorno al forno a legna una famiglia, il vicinato e le tradizioni di una piccola comunità.
Anche l’etnologo tedesco Max Lepold Wagner studiando la cultura e la lingua sarda è giunto alla conclusione che esiste un lessico del pane: questo trova dimora nei vecchi adagi (biada sa domo si b’hat tzoccu e sedattu!- felice la casa dove c’è battere di setaccio!) in cui grano, farina e soprattutto il pane sono il simbolo di prosperità, fortuna e ricchezza. Socialmente diventa un collante in grado di riunire la comunità. Infatti in occasione di un matrimonio (ieri più di oggi) tutti i parenti si riunivano per la creazione di un pane unico.
“Accadeva che – raccontano le sorelle Piredda – i più giovani e annoiati spesso passassero questi momenti di festa in giro per il paese e capitava si combinassero vere e proprie marachelle: se qualcuno del gruppo era a conoscenza di una frequentazione clandestina tra giovani compaesani, la mattina seguente con sa carrela e sa páza (una stradina fatta di paglia che univa le abitazioni dei due innamorati) la relazione diventava di dominio pubblico, sconfessando la volontà dei protagonisti di rimanere nell’ombra”. Il pane non era solo un alimento, ma un momento di festa, un amuleto, un portafortuna nella fattispecie. “Su pane froriau (o pintau) era una vera e propria opera d’arte – racconta Mariangela – spesso decorato con fiori, frutti e uccelli era il simbolo abbondanza e prosperità per la nuova coppia”. Ma il pane degli sposi non era un’arte per tutte. Soltanto le donne con una grande manualità avevano il compito di creare questi capolavori con gli arnesi appositi: su pinta pane (piccola lama di ferro piatta), s’urteddu (il coltello) e sos serros (le forbici). Oggi il pane resta uno dei tratti identitari più distintivi: non è solo sinonimo di cibo, ne rappresenta i luoghi per antonomasia.

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