LE IMPRESE SARDE SI UNISCONO PER COSTRUITR UN’ECONOMIA DI PACE: WARFREE – LIBERU DAE SA GHERRA

La Sardegna ha una lunga storia di presenza e servitù militari. Per la sua posizione strategica, al centro del Mar Mediterraneo, è stata sfruttata dalle potenze dominanti come uno snodo bellico e nel contesto attuale la nostra isola ospita diverse basi militari: le più note includono la base aerea di Decimomannu e il poligono di Teulada. Le servitù militari sull’isola hanno sollevato questioni legate all’ambiente, alla salute pubblica e alla coesistenza tra le esigenze militari esterne e quelle delle comunità locali. E la consapevolezza riguardo gli effetti delle armi sulla pace e sull’ambiente ha contribuito a far nascere l’esigenza di un’economia etica e sostenibile.

In questo panorama, un numero sempre maggiore di persone, gruppi e organizzazioni si batte per chiedere una riconversione della cosiddetta “fabbrica di bombe” RWM di Domusnovas, da produttore di armamenti a centro di innovazione tecnologica e sostenibile. Ed è qui che nasce WarFree – Liberu dae sa Gherra. Si tratta un’associazione di categoria che dimostra come un’economia non intrisa di sangue è possibile, insieme a uno sguardo sulla Sardegna non come punto di partenza per la guerra, ma come ponte di pace. Cinzia Guaita, portavoce dell’associazione, ne racconta la storia e il punto di vista sulla riconversione e su quanto le singole persone possano incidere su un tema ampio e complesso come la pace.

WarFree nasce ufficialmente nel 2021, ma è Cinzia Guaita a precisare che c’è un inciso che fa da incipit alla storia: «Siamo nati come comitato per la riconversione della RWM, la fabbrica di bombe, sita nel nostro territorio, un sussulto etico rispetto all’idea di contribuire alla morte; noi vogliamo contribuire alla vita non vogliamo che il lavoro umano sia macchiato di sangue».

Mentre gli occhi del mondo erano puntati su conflitti lontani, la consapevolezza che il proprio territorio, apparentemente sicuro, contribuiva in modo diretto e tangibile alla morte di coloro che si trovavano dall’altro capo del mondo, ha scatenato un conflitto interiore. «Non importa se le popolazioni coinvolte siano geograficamente distanti: la sofferenza umana è universale e ogni individuo, in un modo o nell’altro, è connesso all’umanità».

Da questa consapevolezza nasce prima un comitato per la riconversione dei posti di lavoro dell’RWM, con l’obiettivo di riqualificare le risorse e le competenze di coloro che lavoravano in quell’impianto, per costruire un futuro in cui il diritto al lavoro non fosse macchiato di sangue, ma garantito anche attraverso esperienze positive e costruttive per le comunità. Il progetto trovò sostegno in altre organizzazioni unite dalla stessa missione, che mettendo insieme risorse e competenze, diedero vita a una rete internazionale per far sentire la loro voce in merito a una questione cruciale: il commercio di armi.

Il loro impegno collettivo portò a un risultato significativo durante il Governo Conte II. «Fu presa in considerazione la legge 185/90 – spiega Guaita –, un provvedimento che, scaturito da un intenso percorso partecipativo, impediva l’esportazione di armi verso paesi in guerra o in violazione dei diritti umani. Noi abbiamo sostenuto con fervore che l’Arabia Saudita fosse coinvolta in un conflitto e stesse violando i diritti umani, il che significava che continuare a esportare armi verso quel paese sarebbe stato in contrasto con la legge italiana».

La questione sollevata dal comitato non passò inosservata. In un importante passo avanti, venne imposto un divieto all’esportazione di armi costruite dalla RWM: la maggior parte della sua produzione era destinata a conflitti e solo una minima parte per scopi difensivi. Questo divieto rappresentò non solo una vittoria per il comitato e le associazioni coinvolte, ma anche un passo significativo verso una maggiore responsabilità nel commercio di armi.

«Ci si aspettava, con una certa dose di fiducia, una presa di posizione da parte della politica regionale; in fondo si trattava di una questione che riguardava non solo il lavoro, ma anche la dignità e i valori della comunità. Ma la risposta non arrivò. I rappresentanti politici sembravano più preoccupati del mantenimento dell’industria, delle poltrone e del consenso, piuttosto che del futuro che avrebbero potuto costruire insieme ai cittadini».

In mezzo a questa apatia, il gruppo di cittadini capì che non avrebbe potuto contare su soluzioni giunte dall’alto. Serviva un’azione che partisse dal basso, una risposta lenta e faticosa, ma assolutamente necessaria. Nel corso degli anni quell’idea si trasformò in un progetto concreto e nel 2021 nacque ufficialmente WarFree – Rete imprenditori, Commercianti e Professionisti per la Pace e la Transizione Ecologica. Si tratta di un’associazione di categoria, unita dal forte desiderio di costruire un futuro migliore attraverso il lavoro di pace, dove imprenditori, professionisti, commercianti e cittadini si riuniscono attorno a un manifesto etico che dimostra come un’altra economia è possibile, a promozione della vita e del benessere collettivo.

La mission di WarFree è chiara e potente: escludere qualsiasi contatto con la guerra, vivere e prosperare attraverso un lavoro che respira pace. Non è facile, ma le storie che arrivano da parte di chi fa rete nel movimento, mostrano come l’etica possa vincere sul profitto. «Tra i membri – racconta sempre Cinzia Guaita – c’era una piccola azienda di traduzione, il cui proprietario si trovò di fronte a un’offerta che avrebbe potuto fruttargli una somma considerevole: tradurre un brevetto per un carro armato. La coscienza però parla più forte del denaro e rifiutò l’incarico, non per paura o per mancanza di opportunità, ma perché sapeva che quel gesto avrebbe violato i principi etici in cui credeva fermamente».

L’idea alla base della presa di posizione è che il lavoro debba essere un contributo alle comunità, non un mezzo per alimentarne i conflitti. In una società in cui la corsa al profitto spesso sembra cancellare i valori etici e morali, vivere di pace è possibile, anche attraverso le scelte quotidiane dell’individuo. Cinzia Guaita suggerisce: «Per prima cosa è necessario porsi delle domande. Ad esempio domandarsi a quale banca ci appoggiamo e se questa banca è coinvolta nel finanziamento di armi; oppure affidarsi a filiere corte, in modo da ridurre l’impatto ambientale e supportare le aziende locali, ma anche da essere certi che ciò che si acquista non sostiene l’industria bellica».

Warfree oggi è un progetto che raduna imprese con un chiaro rifiuto della guerra e mette in contatto le realtà sarde che si impegnano a rispettare un’etica civile e sostenibile con tutte le persone interessate ad acquistare i loro prodotti. Le aziende non solo devono sottoscrivere un “patto di pace”, ma devono anche iniziare a interrogarsi su scelte quotidiane. L’idea è di creare maggiore consapevolezza, un tassello che può fare la differenza. Tra corsi di inglese e di sommelier del miele, la formazione continua diventa inoltre uno strumento di innovazione che unisce i diversi membri della comunità.

I prodotti e i servizi delle imprese facenti parte di WarFree sono certificati da un marchio unico, che danno la garanzia al consumatore di acquistare solo beni che non hanno contribuito alla guerra. Grazie a questo marchio, i consumatori possono fare scelte consapevoli, favorendo un’economia di pace che colleghi il prodotto ai valori di responsabilità sociale. «Ogni acquisto diventa un gesto etico».

Tuttavia non tutto è semplice. La convinzione che l’industria bellica contribuisca alla creazione di posti di lavoro ha permeato parte della società, ma per Guaita «è un mito, la vera ricchezza risiede in un futuro sostenibile». E tra incontri e discussioni, immaginare domini economici alternativi, prosperi e rispettosi dell’ambiente, diventa possibile. «È vero che cambiare mentalità richiede impegno, ma le idee di pace e sostenibilità sono un’alternativa da perseguire».

Così, mentre le servitù militari continuano a esistere, WarFree continua a crescere. I gesti quotidiani, le piccole scelte e le decisioni consapevoli di ciascuno si accumulano, creando un impatto che va oltre il singolo e si irradia in tutta la comunità. Un futuro senza guerra è possibile e il cambiamento parte sempre da noi.

https://www.italiachecambia.org/sardegna/

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