Claudia Aru
di ANTONIO PAOLINI
“Se non fai la brava ti tolgo la radio”. È cominciata così, in una casa borghese come tante, gente perbene che per i figli sogna la laurea e il posto fisso, e non (almeno non subito, e per convincerli a cambiare idea ci vuole un tot, e anche un po’ di vento in poppa) le prove col gruppo, le tournée, i concerti e le sale d’incisioni.
“Io al radione con dentro tutto, avevo tipo 5 anni, ci stavo appiccicata, e guai a staccarmi. Prima le cassette (erano gli anni Ottanta), poi i cd. E il meglio di quel che andava in onda, ovviamente. Nessuno in famiglia aveva mai manifestato vocazioni artistiche. Zero precedenti. Da chi ho ereditato passione e propensione, che poi è diventata lavoro e vita, non lo so”.
Claudia Aru, “cantantessa” multitasking (ma jazz in prima fila e sottopelle, e tutto-tutto-tutto cantato, per scelta, quando non è inglese obbligatorio, in sardo), originalissima e incisiva autrice in proprio, luogo di nascita Villacidro, madre insegnante e padre impiegato comunale, ha iniziato così. Ascoltando. Per ore ed ore.
Poi, le scelte. Bologna e il Dams, una laurea e un impiego negli enti museali come finto obiettivo, pomata per le eventuali scottature genitoriali. Ci ha messo su anche un master. E un posto lo ha pure trovato: “A ‘Sa Corona Rubia‘, museo fallito, pensa tu, giusto quando ero là, e la paga per inciso non l’ho mai presa. Quando dici le certezze della normalità…”. E quando, però, dici il destino…
“Ho avuto una settimana di depressione totale. Poi ho capito che quello era un regalo della vita. E che non avevo più scuse per non mettermi a cantare. E lì ho scoperto una cosa magica: che per farlo mi pagavano. Capirai, dopo il museo insolvente…”.
Da lì, non più un dietrofront. Un diploma in canto jazz a Cagliari, in Conservatorio, e via in giro a imparare ancora e ad esibirsi. Approdando (altro pezzo di destino, altro emolliente per le apprensioni familiari) anche al salto da allieva a maestra. “Insegno a Cagliari, dove ho un corso stabile, e a Roma. Al Roma Voice Studio, dove è successa una cosa straordinaria: Cheryl Porter, una grandissima, la mia insegnante, ha deciso di tornare in America. E mi ha lasciato la cattedra”.
E così, eccoci arrivati a oggi. Dall’ascolto del radione a starci dentro (Aru è tra le voci di Rai 3 Sardegna, dove è autrice e conduttrice). E dal debutto quasi casuale alle esibizioni e ai circuiti odierni. Un rosario di “live”, insomma, un po’ ovunque. Tra i quali uno assolutamente memorabile?
“Difficile scegliere: ma forse, tra tutte le performance, ne ricordo in modo speciale una perché fatta in condizioni irripetibili. A Villanova. Mi fecero cantare da un balcone, i miei musicisti erano a un’altra finestra, tecnicamente una roba drammatica, ma c’era una marea di gente, e non si poteva far casino. Ho cantato l’Angelus, poi ‘Don’t ’cry for me Argentina‘e infine ho attaccato un mio pezzo. E tutti, non so, comunque tanti, si sono messi a cantarlo con me. Uno shock. Non ho pianto, non potevo, ma quasi come se…”.
La scelta della lingua madre? “Io scrivo in sardo come atto politico: a casa, figurati, si parlava solo italiano. Incidentalmente poi, secondo me nessuno sa cos’è il sardo tranne i ‘lontani’, quelli che abitano in giro nel mondo, gli andati via, che s’iscrivono caparbi ai circoli sardi: tipo il circolo di Shanghai dove ho cantato, mangiato i malloreddus, perfetti, e la gente vestiva orgogliosa in abiti tradizionali sentendosi figlia di una sola patria. Quello che spesso non succede qua, dove ancora un po’ con la testa si è rimasti ai tempi dei “Giudicati”, alle aree di pertinenza. E così capita che Ghilarza e Santu Lussurgiu, per dire, parlino lingue diverse, soprattutto nella testa, e fatichino a comunicare tra loro”.
Da 15 anni Claudia Aru scrive dunque i suoi testi solo in sardo. Ma storia e formazione sono totalmente cosmopolite. “Ho vissuto, studiato (catalano e jazz alla ‘Taller de Musics’) e cantato per tre anni a Barcellona. A New York ho vissuto circa un anno e questo mi ha permesso di perfezionare l’inglese, studiare ancora canto e partecipare a diverse jam session. Poi ho vinto una borsa di studio per un master sull’organizzazione di eventi culturali alla “Sapienza” di Roma (anche lì cantando e studiando, mai smesso). Ma nel 2008 ho deciso di tornare a vivere in Sardegna, ho capito l’immenso patrimonio che c’è, e le possibilità per chi vede in quest’isola una terra vergine. La Sardegna offre una qualità della vita incredibile, fatta di cose semplici ma per me indispensabili. Non ho mai smesso di viaggiare, ovvio, ma ho capito che è qui che voglio vivere”.
Dei suoi pezzi (tanti) le fa particolarmente piace citare ‘Aici’ “la prima canzone, scritta guardando il Poetto: racconta una cosa vera, una separazione d’inverno, poi il freddo si scioglie, torna il tepore di primavera e si capisce che era la scelta giusta”, ‘Burdu’, storia di un amore travagliato, e soprattutto ‘T’agattu’. “L’ho scritta dopo la morte di mio padre. Qui, quando non si sa se uno vive ancora o morto, si domanda ‘ancora s’agattada?”’ ci ho messo un anno a scriverla e a cantarla senza panico. E un anno a lasciare andare via papà. Per ritrovarlo nel pezzo. Messo su con Bebo Ferra, il chitarrista e Paolo Fresu“.
Com’è la musica di Aru? “Ah, un super mix. Tango blues swing elettronica jazz, c’è tutto dentro. Ma il jazz è jazz, a me piace improvvisare. E mi piace ricordare che il primo nella storia a usare la parola jazz è stato un emigrato italiano, Nick La Rocca. I miei musicisti sono tutti jazzisti. Però contaminiamo culture”. Spiazzanti i nomi dei suoi musicisti di riferimento: Giorgio Gaber (“c’è molto di teatrale, molti parlati e monologhi nei miei show, e lui era un grande” e Serena Brancale, la barese che canta in barese (“affinità elettiva, anche se il successo lo ha centrato con la cosa più semplice che ha fatto, ‘Baccalà’, ma anche lei canta jazz e lavora ad attualizzare il suo idioma locale: e la sento sorella”).
L’ultimo pensiero è ancora per l’isola. Fosse “giudichessa” per un giorno, che farebbe? “Quello che vorrei da chi la guida: investire, e tanto, su infrastrutture, collegamenti col mondo, e sull’entroterra, perché non ci siano più due Sardegne. E lavorare per riportare a casa i cervelli – con borse di studio, attrattive, occasioni di ricerca e lavoro qualificate – i costretti ad andar via, alzando intanto il più possibile il livello della formazione (che nelle nostre università già parte alto). Innestando così un circuito virtuoso in cui crescano insieme il livello dei rappresentati, dei residenti e cittadini, e quello della rappresentanza, gli amministratori, i politici. Per dare a questa terra quel che le serve, ma soprattutto quello che stramerita”.
Bravissima
… ma senza “orgoglio” sardo
Interessante 😉 chissà quando magari si potrà parlare con lei che nemmeno se la saluti ricambia il saluto.
La paladina della libertà e dell’uguaglianza.
Di cosa sia artisticamente mi interessa poco, come giornalista mi aspetto che almeno sia un poco equa.
Sabrina Sanna Scusa, nessuno mi ha mai detto che non ricambio il saluto, non mi è mai capitato. Normalmente saluto tutti, anche gli sconosciuti come te che ti stai permettendo di giudicarmi senza conoscermi affatto. La prossima volta, ti aspetto per un confronto vero faccia a faccia. Anche questo non l’ho mai negato a nessuno. Mai.
Saludus
Claudia Aru questa è la vera claudia lo certifico, il tuocommento e chiaro e molto vero.
Non mi gusti per niente.
brava
Faididdu un disegnu
Bellissima
Po’ caridari!!
Brava Claudia
Pagu cunvinta puru
Ma per favore !
Capirai
Su Mellusu!!!
Bella e brava.
Non è orgogliosa di essere sarda quindi xchè canta in sardo?
pessima
Senza simboli..discreta 😂😂😂
Simpatica
Brava Claudia 👏