UNO SCAMBIO STRETTISSIMO FRA UOMO E ARTE: A OLIENA IN MOSTRA IL COSTUME TRADIZIONALE, METAFORA DELLA STORIA E DELLA CULTURA

Foto Galaveras: da sinistra Giovanna Congiu, Gianfranca Salis e Gianfranca Congiu

Ad Oliena, nell’ex Collegio dei Gesuiti, la mostra “Ilos de seda e de oro”, inaugurata l’11 settembre, rimarrà aperta fino al 3 novembre. Ideata e organizzata dal Presidio Turistico Galaveras, associazione fondata da oltre 20 anni da Gianfranca Salis e Giovanna Congiu, entrambe laureate in relazioni pubbliche e comunicazione allo IULM di Milano e da Gianfranca Congiu, laurea in geologia. Il team, tutto al femminile, si occupa di turismo, servizi, accoglienza e organizzazione eventi, ha al suo attivo numerose manifestazioni. Circa 10 anni fa, la stessa location aveva ospitato un’esposizione di scialli (sos muncadores), concessi in prestito per l’occasione dall’ISRE, dalla Fondazione Banco di Sardegna e dalla Regione Sardegna Cagliari.

“Abbiamo partecipato a un bando del PNRL del Ministero della Cultura – spiega Gianfransa Salis – finalizzato alla digitalizzazione in 3D dei beni culturali e storici dei vari paesi, per evitare che un’arte così preziosa e identitaria, col passare del tempo, rischiasse di essere perduta o perlomeno di perderne i pezzi più antichi, per mancanza di un archivio storico documentato attraverso immagini e testimonianze dirette”.

Nella mostra, che ospita oltre 200 capi, si è voluto riproporre ogni tipologia del costume, dal più antico (fine 700) al più attuale per poi mettere il tutto nel sito, compresa la parte testuale che racconta la storia di ogni singolo capo. Un lavoro molto molto complesso, ma di grande importanza storica e culturale. Partecipare a questo bando è stato per Galaveras quasi una scommessa ma i risultati sono andati oltre ogni aspettativa perché non era facile e neppure scontato che Oliena se lo aggiudicasse.

Curatore e direttore artistico dell’evento l’esperto d’arte Stefano Resmini di Bergamo ma residente ad Alghero della cui collaborazione il team si era avvalso in altri contesti artistici, designer Guido Beltrami di Alghero che, ispirandosi all’artista statunitense Alexander Calder, (1898-1976) ideatore del “mobile” (arte cinetica), ha realizzato installazioni girevoli dove poesia e bellezza si offrono al visitatore e non viceversa.

Il cerchio in movimento, che mostra il costume femminile intero, assurge a simbolo di un matriarcato che ha sempre caratterizzato le nostre comunità, così riproposto anche per evocare il crocicchio delle donne vestite di questi abiti meravigliosi, in particolare su muncadore e sa tunica, dai colori sgargianti, bianco e azzurro tradizionale, simbolo della sacralità quando, finita la messa si attardavano a chiacchierare nel sagrato della chiesa rendendo vitale e altamente socializzante quel momento d’incontro.

In una duplice installazione circolare sono state collocate tre tipologie di tuniche privilegiando quelle meno sfarzose. Al centro l’abito per le occasioni di festa e poi quelle tristi del lutto a rappresentare il ciclo vitale che governa l’umanità. La balza blu e la balza verde delle tuniche sono indicative di un lutto per un familiare più o meno stretto.

Un’altra creazione girevole è stata pensata come un giardino fiorito quando le donne si ritrovavano nei cortili di casa, nei frutteti, negli orti. Una visione d’insieme che sottende un valore comunicativo e di aggregazione sociale, ma anche sensoriale e olfattivo, nel momento in cui le neuro associazioni, proiettate in una dimensione onirica ripropongono momenti trascorsi del nostro vissuto, riprendono a pulsare in noi con grande intensità emotiva. Dal suo canto, il visitatore, avvolto dai tessuti ricamati e sgargianti, si lascia trasportare da tanta bellezza di fiori, colori, ricami e merletti riproposti in tutte le varietà di un’arte antica dove l’estro, la perfezione e la passione di ogni singola ricamatrice, fiera della propria appartenenza, seppur con le singole peculiarità, si fondono con l’orgoglio di poter rappresentare un paese intero, sentimento che ancora oggi muove tutta la comunità olianese.

D’obbligo la sala dedicata alla camicia, maschile e femminile. Un capo molto importante questo, perché il primo indumento che ricopre la nuda pelle, quindi a stretto contatto col corpo e le pulsazioni del cuore. La camicia maschile si presenta sobria ed essenziale, quella femminile più elaborata e preziosa, spesso tinta d’azzurro cielo. Privilegiare su ‘olore de ‘elu è un vezzo tutto olianese, questo azzurro Oliena lo ritroviamo sia nell’abito che nella tinteggiatura delle case. La raffinatezza nella realizzazione della camicia, capo unico perché mai una uguale all’altra, ha sempre richiesto una vista perfetta e la perfezione assoluta perfino nell’essere inamidata prima di essere indossata. La camicia ulteriormente impreziosita con sa pulanica, polsino a ventaglio interamente ricamato a mano, su cui si applicava una striscia di tessuto finemente ricamato, veniva confezionata unicamente per le dame, per le nobili e in epoca successiva pro sa veste, attualmente in possesso solo di qualche famiglia. E ancora su pettus o su pettorale, una striscia lavorata col filo rocchetto da applicare nella parte anteriore dove i due lembi della camicia si chiudono. Troviamo sas palas, alcune di epoca molto antica, i cui tessuti oggi sono pressoché introvabili, qualcosa arriva da Padova, dalla Lombardia e da Brescia. Questa installazione realizzata con le canne un tempo venivano usate dalle donne di Oliena per stendere le camicie ad asciugare, ma anche per estrarre le gonne dei paioli dove venivano immerse nell’acqua per prendere il colore ottenuto dal guscio delle noci e dall’alloro, mentre per fissare le pieghe de sa tunica venivano utilizzate delle grosse pietre legate allo spago che tendevano al basso per forza di gravità.

La stanza dedicata a sos muncadores ha in sé qualcosa di straordinario in quanto riesce a catturare l’anima in una danza cadenzata da una musica interiore. Disposti di spalla in rigorosa sequenza, gli scialli mostrano tutto il loro fascino e la loro bellezza. Immersi nella penombra e nel silenzio, si caricano di diversi significati e suggeriscono momenti di meditazione e di preghiera. Il bianco della parete illumina e avvolge la dimensione sacra e artistica delle croci che le donne portano in processione a Corpus Domini, a San Lussorio e tutte le feste religiose, a loro volta invitano al raccoglimento. Semplici e sfarzosi, delicati e raffinati, sos muncadores sono tanti e diversi: da ragazza, da sposa, da cerimonia ma anche di uso quotidiano. “Faccio su muncadore in base a come io vedo colei che lo deve indossare – era solita sostenere una rinomata ricamatrice” CHI ***. I colori rispecchiano il carattere di chi li indossa in uno scambio di simbiosi fra uomo e arte dove l’io lirico si sposta dal paesaggio interiore a quello esteriore.

Una sala è stata riservata alle interviste delle ricamatrici e sono tante, ciascuna si esprime rigorosamente in sardo, vendono riportati i sottotitoli per chi non conosce la nostra lingua. Fatta eccezione per Francesca Puggioni, la più giovane che parla italiano. Tutto questo per non dimenticare il nostro patrimonio linguistico.

“E’ importante tenerla viva la lingua – puntualizza Gianfranca -, perché molti termini usati dalle ricamatrici nel descrivere il loro lavoro non sono traducibili e rischiamo di perderli”.

In tutte l’orgoglio di raccontarsi e di raccontare come e da chi hanno appreso l’arte del ricamo e che cosa hanno realizzato negli anni.

Nella stanza dedicata al costume maschile, si può ammirare un antico e prezioso abito fine 800, il colore del velluto fra il blu e il grigio, oggi introvabile, si differenzia nettamente dal velluto moderno. Ci sono sas peddes, una sorta di gilet in pelle ma anche in pilo’ realizzato con la lana degli agnellini nati già morti, double face con la fodera di velluto. C’è su carcione che come tutti gli altri capi del costume maschile viene realizzato da sole donne. Come da tradizione gli uomini confezionano solamente l’abito in civile di velluto.

“La stanza della vedova”, indicativo di quanta e quale importanza avesse l’abito, specchio della condizione sociale e dello stato emotivo del momento, è stata allestita nella cella femminile dell’antica prigione. L’ex Collegio dei Gesuiti, aveva ospitato a lungo la Caserma dei carabinieri dismessa negli anni settanta. Trattasi di una stanzetta molto molto angusta che prende luce da una piccola grata posizionata nella parte superiore di una parete, col pavimento in terra battuta dove sono rimasti intatti i graffiti disegnati sui muri, espressioni di mestizia e tristezza della vedova. Si può ammirare la gonna di colore scuro con la balza nera e sa vranda con sos nigheggiolos, sottili perline nere e tubolari. “Unico vezzo che la vedova si poteva concedere era la brillantezza di sa vranda” chiosa la Salis.

L’ultima installazione, “su ballu tundu”, chiude in modo festoso questo straordinario viaggio nel tempo. I gipponi maschili e femminili, stretti e allineati nell’istallazione girevole evocano l’idea il ballo tondo, travolgente e propiziatorio, espressione di vita comunitaria per antonomasia. Sotto, un cerchio delimitato da piccoli sassi, richiama il forte legame con la madre terra, il ballo tondo, ma anche la circolarità della vita. 

In questa sala troviamo sa veste, abito delle dame fine 700 primi 800 col fazzoletto di seta, su vardeglinu e su camusciu, molto antico con una sobrietà di colori, meno sgargianti rispetto agli altri costumi, indossato esclusivamente dalle cosiddette “dame”, donne appartenenti a famiglie di estrazione nobiliare o comunque aristocratica che per distinguersi nettamente dalle altre indossavano un abito completamente diverso sia nel tessuto che nella fattura. E’ il pezzo più antico, perfettamente conservato e appartenente a una famiglia che lo ha ereditato da generazioni. Il grembiule, sa vranda, è realizzato in filet, lavorazione che esula dalla tradizione di Oliena, non si sa se la maestra artigiana fosse del luogo o giungesse da lontano. Il prezioso materiale è delicatissimo e tende a usurarsi, tuttavia si è conservato integro e sprigiona uno straordinario fascino. Molti archivi fotografici ripropongono donne di quell’epoca con indossano questo raro e nobile costume. A colpire tanta raffinatezza, per la scelta delle sete e per il modello, non usuale tanto da far supporre che non appartenessero neppure alla tradizione olianese.

Accanto a sa veste si possono ammirare le antiche scarpe del costume, con sa pupusa de broccadu e il tacco appena accennato che via via prende forma, risalgono al 700 e al primo 900, queste ultime realizzate dal mitico maestro ciu Juvannaghelu Colli. Dal punto di vista antropologico è interessante sottolineare la misura 34/35 per evidenziare lo sviluppo fisico delle donne di ieri a fronte di quelle di oggi.  

“Noi abbiamo esposto tutte le tipologie per ragioni di spazio e tempo – spiega la Salis -, spero che sia un campionario il più rappresentativo possibile e che il nostro costume tradizionale assurga a bandiera identitaria del nostro popolo in tutto il mondo”.

A Gianfranca Salis che ci ha accompagnato in questo lungo cammino dell’arte, chiediamo com’è nata l’idea di questo straordinario evento. “Tutto nasce dal desiderio di fare un omaggio alle ricamatrici, pilastri della storia, della cultura, dell’artigianato di Oliena, un bene prezioso per la nostra comunità. Siamo particolarmente affezionate al loro lavoro perché con le loro creazioni hanno, in qualche modo, forgiato non solo il modo di vestire ma anche il nostro sentire. L’abito tradizionale è qualcosa che ci rappresenta, la prima cosa che si coglie di noi, il nostro primo biglietto da visita, pecchio di tutta la nostra essenza. I colori sgargianti, la raffinatezza dei disegni ripresi coi fili di seta e d’oro che danno il titolo all’evento “Ilos de seda e de oro”, sono qualcosa che esprime il senso di accoglienza che ci ha sempre contraddistinto”.

Una produzione rigorosamente artigianale che ha in comune la bellezza, la varietà dei tessuti, la perfezione e il rigore nella manifattura realizzata sempre nel rispetto della tradizione. L’estrosità nella scelta del broccato, adoperato dal ceto più alto, quello medio usava su bigludu, del panno, del raso, delle sete, è tutta all’insegna di un gusto estetico che si è tramandato nei secoli, da generazione in generazione.

Da dove arrivavano i tessuti? “In particolare da Venezia, dalle vie della seta. Dall’oriente arrivava tutta la varietà di broccati, tessuti damascati dai colori bellissimi, ma anche da Firenze dove c’era tutto un comparto artigianale che li realizzava, come la lana TIBET, così viene chiamata la stoffa del fazzoletto (su muncadore), mentre le frange giungevano da Brescia. Tutte le famiglie che ne sono in possesso, lo custodiscono con orgoglio. Molte persone conservano ancora la bellissima scatola a sfondo verde con una donnina che indossa con eleganza lo scialle. Oggi solo poche donne non più giovani, lo portano ancora, tuttavia le nuove generazioni lo indossano, marron o nero, in qualche occasione particolare per la sua eleganza. Mentre il costume viene portato nelle varie ricorrenze, sacre e profane, da tutti i giovani che con molto orgoglio vogliono riappropriarsi della loro identità. Un ritorno alle origini, un omaggio ai loro padri”.

Chi erano le ricamatrici? “Artigiane che appartenevano per lo più ai ceti medi, perlomeno quelle di epoca remota. Molto molto presto imparavano l’arte del cucito e del ricamo dalle ricamatrici più anziane per realizzare il proprio abito tradizionale, prima per passione poi riscoprendo in sé un talento riconosciuto dalla sua stessa maestra, molte di loro ne hanno fatto un mestiere. Anche perché nei tempi più lontani c’era una vera e propria richiesta del costume che veniva indossato quotidianamente. Tuttavia c’era alla base di tutto una forte passione, come ogni cosa altrimenti ci si impadronisce solo della tecnica”.

Da dove provengono tutti questi costumi esposti? “Appartengono alla nostra comunità. Sono abiti prestati per l’occasione di cui ne dobbiamo garantire la restituzione. Ci emoziona tanto il fatto che ogni volta che organizziamo un evento, c’è una partecipazione corale da parte di tutte le famiglie di Oliena che spontaneamente ci offrono le testimonianze perché ci tengono a mostrare il proprio costume di famiglia. Anche la presenza del pubblico è stata molto partecipata, i visitatori sono rimasti colpiti da tanta bellezza e molti di loro, nel vederli esposti in questo particolare allestimento riscoprono nuove emozioni che a casa non colgono perché i loro occhi sono assuefatti a tanta preziosità”.

Qual è il vostro intento? “Tenere viva l’arte del ricamo e tracciare un percorso per il futuro guidando i visitatori in un viaggio che dal passato li trasporta al presente, attraverso la produzione artistica e gli artigiani che in qualche modo hanno segnato la storia del nostro paese”.

Quale pubblico si è avvicinato alla mostra? “Soprattutto i giovani, solitamente queste cose interessano per lo più un pubblico adulto, non più giovanissimo. Questa volta abbiamo registrato la presenza di tantissimi ragazzi che si sono sentiti attratti da tanta bellezza. Oggi sappiamo che i social predominano su tutto, ma per quanto belle possano essere le immagini, vedere le cose dal vivo è straordinario.

All’interno del nostro progetto abbiamo programmato le interviste alle ricamatrici, dando priorità alle più anziane.  Cia Ciccia Biscu – racconta Gianfranca Salis -, ci ha lasciato esattamente meno di un anno fa. Siamo state a casa sua a febbraio, pochi giorni dopo che lei avesse compiuto 100 anni, ci ha accolto con gioia, felice di raccontare in che modo realizzava le camicie, lei si occupava di una parte del ricamo, la sorella di un’altra. Era appagata nel fare questo lavoro, era già un mestiere da allora, perché poi metteva a frutto il guadagno, viaggiava dappertutto. Abbiamo anche la testimonianza di mia zia, Mariedda Congiu di 96 anni. Aveva iniziato a ricamare a 15 e dopo aver visto al lavoro una vicina di casa, ne era rimasta così attratta da pregarla di insegnarle l’arte del ricamo. La donna colpita dal suo talento “Sei bravissima – le aveva detto -, devi coltivare questa passione non solo per fare bene il tuo costume ma anche quelli delle altre”. E così, lei è diventata a sua volta una maestra. Mia zia Mariedda Congiu come tante altre, ha lavorato per l’ISOLA e nell’intervista racconta di prof Sulas e di Ciusa Romagna, che dopo averla vista lavorare, le avevano commissionato tantissimi lavori per abbellire le vetrine di tutto il mondo.

Abbiamo anche raccolto la testimonianza di Mariedda Caggiari di 84 anni, una barbaricina d’oc, una maestra che realizzava sa tunica e su gippone, due pezzi del costume che ormai solo pochissime sanno fare. Oggi lamenta un deficit visivo. “Il ricamo l’ho fatto – confessa -, finché la vista mi ha sorretto alla perfezione, ora non posso fare pasticci”. Tuttavia ha saputo incanalare la sua arte nel disegno e nella pittura. Carattere molto estroso e sorretta da una curiosità creativa, ha anche un account instagram, dove segue tutte le feste tradizionali sarde, vede le foto su sant’Efisio e sulla Cavalcata, legge Rakam, Mani di Fata cioè tutte quelle pagine che hanno a che fare col ricamo, col disegno e con l’immagine.

Fra le altre testimonianze, quella di Maria Assunta Loi, ma l’elenco sarebbe lungo perché di tante altre non abbiamo fatto in tempo a raccogliere le testimonianze.

Tuttavia, tra le ricamatrici è doveroso ricordare cia Juvanna Lostia, una vera eccellenza scomparsa da anni è rimasta nell’immaginario di tutti noi, soprattutto delle ricamatrici che hanno frequentato i suoi corsi”.

Come intendete mettere a frutto questo progetto? “Tutte queste ricamatrici storiche verranno chiamate a tenere dei corsi per realizzare i singoli pezzi del costume. Ai corsi potranno accedere tutti, senza preclusione di età e di genere, compresi i maschi anche se mai ad Oliena si sono occupati di ricamo perché tutte le parti del costume sia maschile che femminile son sempre state realizzate dalle donne. Mentre gli accessori in pelle venivano fatti da su mastru husidore ciu Juvannaghelu Colli, così come i gioielli che impreziosiscono il costume venivano lavorati da Badore Mastrone e dopo la sua scomparsa dei figlia Maria e Franceschino, bravissimi ma ora non più in attività. Oggi vengono realizzati dall’orafo Nino Fenu, studi all’istituto d’arte che attualmente sta insegnando l’arte orafa alla giovane nipote Giovanna Cattide”.

Lungo tutto il percorso si possono ammirare 25 dipinti di Liliana Cano che rappresentano la Passione secondo Matteo, realizzati dall’artista nel 2002 e donati al comune di Oliena senza alcun compenso con la promessa che venissero esposte in un edificio religioso o in qualsiasi location che avesse a che fare con il sacro, con l’impegno di costruire due pozzi d’acqua nel Burkina Faso. Impegno a cui il Comune di Oliena ha tenuto fede già da 10 anni orsono. Sono opere straordinarie che sprigionano un profondo senso religioso dagli sguardi, dalla gestualità, dai colori e dai luoghi di ambientazione. Accanto a quelle di Liliana Cano, alla quale nel 2004 l’Amministrazione Comunale di Oliena le aveva conferito “Le chiavi della Città” vale a dire la cittadinanza onoraria mentre in questi giorni il paese celebra il centenario della sua nascita con l’inaugurazione del “Museo Diffuso”, si possono ammirare anche le opere del giovane artista di Ghilarza, Cenzo Cocca, che con le sue tele cucite, tra fili e cicatrici nasconde voci e pensieri che sottendono un dialogo intimo volto alla ricerca della propria libertà identitaria contro un modello di omologazione culturale.

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15 commenti

  1. 👏👏👏 Bravissime.

  2. Piera Maricosu

    Bellissime

  3. Giovanna Congiu

    Grazie ❤️

  4. Complimenti per organizzazione e impostazione colori e costumi 👍👍👍

  5. Gianfranca Salis

    Grazie di cuore 🙏❤️

  6. Siamo felici che il racconto della mostra “Ilos de seda e de oro”, di questa bellissima esperienza che coinvolge non solo noi, ma tutta la comunità di Oliena, le nostre tradizioni e la nostra cultura, arrivi anche ai sardi residenti all’estero.
    Grazie al sito Tottus in Pari, luogo virtuale che unisce le due “Sardegne”, quella dei residenti e quella degli emigrati.
    Un grazie speciale a Lucia Becchere per questo bellissimo e dettagliato articolo nel quale lei, come sempre, ci mette il cuore e l’anima e tutto l’amore che la lega a Oliena, sinceramente ricambiato ❤️🌺

  7. Noemi Olivieri

    Siete splendide ❤️

  8. Che meraviglia , 😍😍

  9. Wow !!!!

  10. Maria Ignazia Congiu

    Bravissime complimenti

  11. Fatima Becchere

    Che meraviglia ❤️

  12. Giovanni Fancello

    Fate cose meravigliose, ma quando sono raccontate con tanta eloquenza, lo si apprezza ancor di più. Brave le ragazze Galaveras ❤️

  13. Francesca Murru

    Super brave le ragazze di Galaveras ❤️

  14. C’è una sola parola che possa racchiudere tutte le emozioni che Giovanna e Gianfranca con grande stile ci regalano… “Amore”
    Amore per l’arte, per la cultura, per le tradizioni, amore per il proprio paese e per tutta la Sardegna.
    Grazie.

  15. Congratulazioni!!! Avete realizzato qualcosa di stupendo! Difficile da dimenticare. Brave!

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