Luca Palmas
di DENISE VACCA
Luca Palmas, classe 1974, persona poliedrica con importante preparazione in cultura sportiva, che vive nel ruolo di allenatore di basket (di una squadra cagliaritana di Under 19 della Società sportiva Astro Basket) ma anche con le profonde conoscenze acquisite con studi in responsabilità sociale soprattutto nel settore sportivo. Laureatosi in Marketing si è poi dedicato al settore non profit, sviluppando competenze in Fund Raising.
Tottus in pari condivide coi suoi lettori visioni allargatee profonde dello sport.
Luca Palmas si definisce un idealista razionale. Insomma: “uno coi piedi ben piantati sulla terra e testa tra le nuvole, o? ” Non so se le nuvole c’entrino, non penso di arrivare così in alto, più semplicemente, più terra terra, sono uno abituato al concetto di “fattibilità” che deve essere sempre abbinato all’ideale quando si concretizza in servizi operativi.
Il tuo alibi esistenziale è condurre la Direzione e gestire delle residenze sanitarie assistite, ma da quasi 25 anni ti dedichi alla responsabilità sociale delle imprese soprattutto nel settore sportivo e del fund raising. Spiegaci qualcosa. Mica semplice, diciamo che dopo il mio periodo da fundraiser professionista a Bologna, sono stato richiamato in Sardegna per lavorare nel settore Sanità. Man mano ho aumentato le mie conoscenze che successivamente sono diventate competenze e l’esperienza mi ha portato al mio attuale ruolo. Chissà se quello “definitivo”. Diciamo che ora mi divido tra tre S che non sono le famose S dei libri hard boiled (che leggo!), ma quelli di Salute, Sport e Sociale.
Dal 2022 porti avanti il progetto “Più che atleti”, mettendo a punto percorsi filantropici per sportivi professionisti. In concreto? In concreto colleghiamo la buona volontà di alcuni sportivi professionisti, le loro risorse, alle necessità di alcune comunità, progetti, associazioni, persone in moda da avere un impatto sociale che non disperda energie che non sia solo forma, ma sostanza e che si basi su un percorso di accompagnamento articolato e non sia solo un evento spot di una sera per fare beneficienza. Ormai il “bene” deve essere sostenuto da infrastrutture professionali, canali rodati, expertise nel settore. D’altronde come lo sportivo di alto livello si contorna di altri professionisti quali il fisioterapista, il preparatore, il nutrizionista, il mental coach, perché non dovrebbe poter avere un advisor filantropico.
Ma c’è un profit del non profit? Bella domanda, si, ci deve essere sempre un profit nel non profit altrimenti si tratterebbe di distruzione economica che potrebbe durare ben poco. Certo poi il filantropo può decidere di operare “in perdita”, ma questa scelta non la può fare un’organizzazione non profit che ha degli obblighi etici con i suoi sostenitori e con i beneficiari dei suoi progetti.
Nel tuo curriculum si legge che hai conseguito un master in fund raising e management etico. Pensando alle aziende ed al principio ispiratore, la semplificazione potrebbe portare a vedere l’unico obiettivo aziendale quello della massimizzazione dei profitti. Invece leggendo i tuoi articoli ed avvicinandomi ad i tuoi interessi percepisco che anche nei ring sociali delle organizzazioni aziendali possano contemplare valori morali collegati all’etica. Per “rispondere” o almeno seguire il filo rosso del tuo ragionamento ci vorrebbe una tesi di laurea, che parte alla preistoria economica di Milton Friedman fino d arrivare oggi a Patagonia, per fare un esempio, che ha un forte Brand Purpose che più o meno recita che la creazione di valore umano, sociale ed ambientale non è più strumentale al business, ma è parte del suo scopo stesso.Siccome però la tesi l’ho già scritta, in estrema sintesi, oggi il settore profit non può prescindere dall’etica e dai valori tradizionalmente portati avanti dal terzo settore o come dice Zamagni dal settore Sociale.
Qual è la linea di demarcazione tra l’essere tifoso e l’essere sportivo? Questa tra tutte le domande è la più difficile, quasi impossibile, anche perché non sempre esiste una demarcazione e di sicuro spesso non è netta.Ci provo, ma siccome normalmente maneggio con cura le categorie giusto è sbagliato, non riesco a scrivere che l’essere sportivo è giusto e l’essere tifoso è sbagliato… Probabilmente machiavellicamente parlando il fine dello sportivo è il percorso, lo sforzo, l’impegno e questo dovrebbe bastare per essere soddisfatto; per il tifoso tipo invece conta quasi esclusivamente il risultato, non solo, c’è una visione acritica del rapporto con la proprio squadra che porta il tifoso a essere feroce verso alcuni aspetti della sua società a seconda della convenienza. Non solo, se vogliamo proprio scadere nello stereotipo, per arrivare al risultato non conta, appunto la sportività, valgono le simulazioni, le perdite di tempo, il gioco un po’ sporco, il non gioco al fine utilitaristico che se forse può essere tollerato a stento nel calcio professionistico, dove gli interessi non sempre sono puri come l’acqua di fonte, gli stessi atteggiamenti di sicuro non possono essere accettati nello sport dilettantistico e nello sport giovanile dove il fine ultimo dovrebbe comunque essere il divertimento, la socializzazione e l’apprendimento ludico e dove quindi le due categorie sportivo e tifoso non dovrebbero non poter coincidere. Poi siccome rispondo alla fine di Cagliari – Napoli funestato dal comportamento di alcuni “tifosi” quelli sono definibili come tifosi?
Lo sport come responsabilità sociale come si concilia con le ambizioni dello sportivo contemporaneo ma soprattutto dell’industria dello sport? Mi verrebbe da dire che si conciliano in una parola: il futuro, se non fosse che già svariati anni fa alcuni sportivi, ai massimi livelli, intersecavano in maniera importante la responsabilità sociale e le loro traiettorie nell’industria sportiva. Penso, solo per fare un esempio, a Cassius Clay poi Muhammad Alì. Pochi hanno pagato come lui il conto per le loro idee, forse solo Colin Kaepernick in tempi moderni. Poi ovviamente adesso i social hanno cambiato tutto, gli sportivi devono stare molto più attenti a ogni loro comportamento, nei confronti di opinione pubblica, sponsor, leghe professionistiche, ma per contro hanno una enormemente maggiore possibilità di incidere a livello di esempio per milioni (miliardi?) di persone.Sostanzialmente la differenza può essere sintetizzata al massimo livello con un esempio.Cristiano Ronaldo, fa beneficenza, paga questo o quel progetto, ha milioni di seguaci, ma difficilmente prenderà mai posizione in un modo divisivo su una causa sociale discutibile, questo per il suo substrato non tanto valoriale, ma di comportamento. Di pari livello, anzi superiore, c’è LeBron James che è un miliardario che non solo ha le sue attività, ma prende posizione in maniera divisiva a favore di una causa “difficile” anche contro i massimi livelli politici del suo paese.Nel mezzo c’è un altro peso massimo dello sport/star system mondiale come Mbappé che durante gli ultimi europei ha preso posizione contro la destra per le elezioni che ci sarebbero state in Francia dopo poco.A prescindere dal fatto che abbia fatto bene o male, non compete a me dirlo, ha scelto una posizione terza, non ha delle sue attività di beneficienza, ma funge da catalizzatore di posizioni anti qualcosa.Sono tre modi diversi di inserirsi in un discorso di responsabilità sociale all’interno dell’industria dello sport che però al topo, come sono loro, difficilmente precluderò il loro futuro economico e neanche quello dei loro figli. Sarebbe interessante affrontare le stesse problematiche per un nome minore che potrebbe essere abbandonato da un giorno all’altro dalla propria società, dagli sponsor, dall’opinione pubblica.Il discorso è lungo, in sintesi, andremo sempre più verso due posizioni polarizzanti, lo sportivo sociale parlante e agente in maniera concreta per la sua comunità o per le sue buone cause e lo sportivo asettico, che vince, produce per lo spettacolo, ma sta ben attento a occuparsi di qualcosa di diverso dal suo campo di gioco. Inutile dire da che parte sto.