di LUCA ANGELINI
Nel Paese i salari reali sono scesi del 6,9% rispetto al pre-pandemia. Giovani e giovanissimi vanno in cerca di futuro all’estero
«Il lento procedere dei salari determina un altro fenomeno in via di intensificazione: la tendenza dei giovani a lasciare l’Italia in cerca di retribuzioni più soddisfacenti», ha scritto sul Foglio Dario Di Vico, commentando i dati Ocse che vedono l’Italia «maglia nera» sul fronte dei salari reali (-6,9% rispetto ai livelli pre pandemia). Una tendenza certificata, pochi giorni fa, da un’indagine Ipsos- Fondazione Raffaelel Barletta sui giovani italiani fra 18 e 30 anni, sulla quale ritorna Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, in un editoriale su Avvenire dal titolo all’apparenza provocatorio, in un Paese in cui non cessa la retorica dell’«invasione»: «L’emergenza è l’emigrazione».
«Tra le motivazioni che spingerebbero tanti giovani a trasferirsi all’estero — sottolinea Impagliazzo — ci sono i “salari più alti” (45 su 100) e le “opportunità di lavoro migliori” (44 su 100), ma non vanno trascurati segnali differenti, meno direttamente legati a un percorso professionale o a una certa idea di qualità di vita, e più rapportabili a un travaglio esistenziale, a un desiderio di scenari differenti, alla scarsa attrattività del Paese nel quale si è nati. In 14 su 100 sognano di vivere “in un Paese con una diversa cultura e un diverso stile di vita”, ovvero (11 su 100) “in un Paese con un diverso clima e diversi paesaggi naturali”. Colpisce il contrasto tra una certa retorica della “Nazione” e il concreto “rifiuto” dell’Italia che tenta i giovanissimi (secondo Eva Sacchi, ricercatrice Ipsos, chi intende lasciare la penisola è in maggioranza tra i 18 e i 22 anni). Impressiona che il Paese che abbiamo costruito non piaccia appunto a coloro per cui lo abbiamo fatto, a chi vi si affaccia all’inizio dell’età adulta. Abbiamo sbagliato qualcosa nel prenderci cura di questa Italia?».
Non è, però, soltanto una questione di paesaggio. Per fare un esempio non italiano ma francese, lo scrittore Laurent Petitmangin ha detto, ad Alessandra Coppola, inviata in Francia dal Corriere: «Io ora abito nell’Oise, in un paesino bellissimo, dove non c’è più nulla. Il sabato è morto. Resta un ristorante di kebab aperto e per il resto ci sono solo cartelli “vendesi” sui negozi. Vivere lì genera un sentimento terribile di allontanamento. Una vita alternativa si finisce per costruirla sul telefono, online, in isolamento. La sfida è questa, allora: creare legami, animazione, collegamenti in questi angoli lontani del Paese». La decana dei geografi francesi, Béatrice Giblin, sempre intervistata da Alessandra Coppola, aveva rincarato la dose: «Regna un sentimento di abbandono terribile: la sensazione che di questa gente rimasta nel nulla non interessi più a nessuno. (…) Fuori dai principali centri urbani la Francia è vasta e non sempre densamente popolata, in alcune zone le cifre sono di 10-40 abitanti per chilometro quadrato. Mantenere i servizi pubblici, l’assistenza medica, l’istruzione in queste circostanze è difficile. Ed è costoso».
L’abbandono dei giovani, che colpisce soprattutto le periferie geografiche e sociali (le «province invisibili dell’Europa», come le chiamano, in un intervento su Foreign Affairs, Marie Hyland, Massimiliano Mascherini e Michèle Lamont) non fa che aggravare il problema, con una spirale perversa che bisognerebbe cercare di fermare al più presto. Come? Per Impagliazzo, «le dinamiche psicologiche, emozionali e umorali giocano un ruolo di primo piano nel plasmare le aspettative di classi d’età che soffrono per la crescente marginalità e irrilevanza cui si sentono condannate e che non si riconoscono più di tanto in una comunità nazionale sempre più vecchia, spaesata, instabile.
Purtroppo, i nostri «giovani incerti sul domani», come ha scritto Andrea Riccardi su questo stesso giornale, vivono una «collera silenziosa, ma profonda». Grande è la nostra responsabilità di padri, madri, fratelli e sorelle maggiori. È tempo di cessare il lamento sterile, come pure di ricominciare a trasmettere entusiasmo e speranza. Del resto, lo abbiamo fatto in altri momenti difficili — ben più difficili — della nostra storia. La fuga dei giovani non si arresterà solo con un posto di lavoro meno precario, bensì con un’iniezione di corresponsabilità e di speranza». Da cattolico, Impagliazzo aggiunge di augurarsi che «il clima dell’imminente Giubileo — posto da papa Francesco proprio sotto il segno della speranza — potrà contribuire a modificare quella malattia del profondo che ci tocca tutti, quella passione triste e rancorosa che diventa rigetto e rassegnazione».
Ognuno è libero di condividere o meno l’ottimismo di Impagliazzo sul punto. Quel che è certo è che, per tornare al titolo all’apparenza provocatorio del suo editoriale, l’emigrazione dei giovani rischia di aggravare problemi che l’immigrazione, pur con tutte le difficoltà di integrazione, può invece contribuire a risolvere. A partire da quello dello squilibrio demografico e dei sui contraccolpi su mercato del lavoro e pensioni.
«Il numero degli ultraottantenni in Italia — ha ricordato di recente Federico Fubini nella sua newsletter Whatever it takes — è destinato a crescere di circa il 18% nei prossimi dieci anni e del 40% nei prossimi venti, per poi accelerare ancora. In parallelo la struttura demografica farà sì che nel Paese, in base agli equilibri e alle leggi di oggi, la popolazione in età di lavoro si ridurrà di un milione di teste ogni tre anni». E l’economista Francesco Seghezzi, presidente di Adapt ha scritto in un editoriale su Domani: «Un primo elemento, che potrebbe sembrare banale senza esserlo, è considerare quanto la componente migratoria possa contribuire non solo alla crescita demografica ma anche ai contributi versati, e qui appare ancora più grave l’incidenza enorme di lavoro irregolare tra gli stranieri, oltre che tra i lavoratori italiani».
C’è, dunque, senz’altro molto da fare e da sistemare. Ma la premessa per farlo dovrebbe essere togliersi gli occhiali ideologici che possono offuscare la vista, in un senso o nell’altro. Le parole di Riccardi, richiamate da Impagliazzo, erano state queste: «La paura è cresciuta in Italia verso un mondo che pare fuori controllo: “Grande, terribile e complicato” — diceva Gramsci. Lo straniero, il rifugiato, il profugo sembrano figure di un futuro invasivo, seppure necessari per la crisi demografica. C’è collera nelle vene del Paese: quella silenziosa dei giovani incerti sul domani (che genera tanti esodi dall’Italia), dei ceti medi impoveriti, di un Mezzogiorno in difficoltà, di tanti poveri alle prese con una vita cattiva… La collera spesso è silenziosa, ma profonda. Il rifiuto di votare esprime il divorzio, consolidato per taluni, da una Repubblica avvertita matrigna e lontana. Forse solo il populismo canalizza le emozioni nell’effimera coscienza di individuare un nemico e un capo. La nostra democrazia ha bisogno di meno liti e di più riflessione».