di Gianni Cilloco
Leggo in questi giorni le notizie che giungono a conclusione dei lavori del meeting di Chia intitolato “La Sardegna nel mondo. Nuove generazioni a confronto”, convegno internazionale fortemente voluto dall’Assessorato al Lavoro ed all’Emigrazione della Regione Autonoma della Sardegna e programmato dalle ACLI Sardegna. Mi addentro tra le righe dei vari reportage e noto, oltre alla presenza di giovani provenienti da diversi angoli del pianeta, la partecipazione di personalità, di politici e di amministratori. Scorrendo le parole noto alcuni leitmotiv e concetti-chiave: «… trasformazioni in atto… emigrazione di oggi diversa da quella di ieri… necessità di riorganizzazione dei i modelli… esigenza di una nuova formula di circolo, magari senza una sede definita, visti i costi… eventualità di circoli virtuali, con incontri personali in occasioni ad hoc… i circoli non sono più il luogo di ritrovo di un tempo…». A chiosa di tutto una sorta di ultimatum che suona quasi come una sentenza inappellabile: «Giovani, ultima chiamata!».
Non vorrei dire, ma in questi ragionamenti noto una logica che mi pare poco chiara o, meglio, che sembra essere articolata in modo discutibile e non propriamente ponderata. Vengono invocate e convocate le nuove generazioni, si focalizza l’attenzione sul gap generazionale tra gli emigrati del passato e del presente ed i loro figli, viene constatato di punto in bianco che la “classe dirigente” del futuro dei Circoli ha difficoltà a rapportarsi con i modelli “tradizionali” e come esito si propone la “chiusura” delle sedi locali dei Circoli in favore della effervescente e “fluida” agorà telematica. Mi pare che questo modo di argomentare abbia diverse criticità e sia pure un tipico esempio, peraltro neanche tanto “camuffato”, di «scambio dell’effetto con la causa», a prescindere dai soggetti dai quali proviene tale messaggio, istituzioni, enti associativi o fonti di informazione che siano.
Mi spiego meglio. Sono quello che, per età, può essere definito un giovane-adulto, ma nella mia esperienza di vita simili logiche le ho già sentite e viste praticare a più riprese in diverse circostanze vissute in prima persona. Rammento una riunione in una comunità parrocchiale durante la quale, qualche anno fa, si pose il problema di come coinvolgere e rendere partecipi i giovani: e in quella circostanza qualcuno disse che i giovani non c’erano – senza guardarsi intorno – perché era «colpa della loro irresponsabilità!». Mi torna alla mente, in costanza di argomenti, come in questi anni la CEI (Conferenza Episcopale Italiana) abbia posto all’attenzione pubblica, riferendosi a tutta la società ma partendo dall’ambito domestico, la cd. “Emergenza Educativa” a proposito del “problema giovani”. Mi ricordo di quella mia anziana maestra che diceva ai genitori degli alunni che «il primo problema è educare i genitori, non i figli!».
Tre esempi, quelli che cito, nei quali i contesti sono la famiglia, la scuola e la chiesa. Un unico grande macro-contesto in grado di racchiuderli e di ricollegare il lettore al discorso di inizio in riferimento ai Circoli sardi: la categoria denominata “Comunità”. A tale proposito, infatti, si pone una domanda complessa di fondo a chi parla delle associazioni dei sardi di oggi e di domani: di che comunità stiamo parlando? Che tipo di comunità volete proporre e sostenere? Quali ne sarebbero i caratteri strutturali? E chi ne sarebbero i responsabili? Con quali “mansioni”?
Parlo non a sproposito di “responsabili” perché, come in tutte le realtà umane, gli adulti del domani transitano attraverso processi di “iniziazione, formazione ed emancipazione” guidati e “vigilati” dai “maggiorenni” del presente, in modo tale che si abbia una consapevolizzazione dei rispettivi ruoli in evoluzione, in un contesto d’insieme, di coesione e di continuità. Da che mondo e mondo gli apprendisti sono soliti “rubare il lavoro” ai loro maestri, come si era soliti dire nel mondo contadino, anche nel caso di soggetti dotati di qualità superiori alla media. La scuola è da tempo un obbligo finalizzato a formare i cittadini per la loro funzione del domani nella collettività, in quanto le persone “non nascono” già “plasmate” per la società.
Proprio su questi presupposti qualcuno dei commentatori al meeting di Chia si è chiesto perché mai, in vista del convegno, non siano state evidenziate e praticate parallele proposte di progettualità e di innovazione in senso costruttivo. Ad esempio, l’idea se il web non possa essere uno strumento da innestare sulla struttura già in essere, piuttosto che essere l’unico risultato definitivo fattibile. O perché non sia stato costruito anche un parallelo percorso di formazione dei giovani piuttosto che dare luogo ad un appuntamento “occasionale” nel quale si sono rese palesi le relative criticità nel contesto dell’attuale associazionismo dell’emigrazione isolana.
Questo perché a guardare solo i difetti eventualmente trapelati di un fenomeno, quando si discute di pubbliche sovvenzioni, si possono giustificare i relativi “tagli” e le annesse economie. E dico “si possono”, perché il “cessare” non mi pare, sommessamente, essere l’unica relativa soluzione possibile. Ciò, tuttavia, può essere un risultato ragionevole purchè prima si sia fatto tutto il pensabile e quanto di percorribile affinché l’esito finale sia il migliore possibile e non indirizzato ad un unico (necessario e pre-fissato) obiettivo, attraverso una gradualità ed una prudenza costanti, lungo ottiche di trasparenza e non di mera impulsività ed unilateralità dell’azione programmatica e decisoria. Buttare tutto a mare per un “nuovo” modello incerto e poco ponderato, sia nella consistenza sia negli effetti, quindi, mi pare, a dir poco, “azzardato” in questo caso, specie laddove i soggetti eventualmente coinvolti non sono “quattro gatti” ma tanti individui legati, tra di loro, da profonde interdipendenze, ossia chi vive in Sardegna e chi, Sardo o discendente di nativi isolani, vive lontano dalla terra dei padri ma con la stessa “patria” nel cuore.