IL MESTIERE PIU’ BELLO DEL MONDO: INTRECCI FAMILIARI CON IRIDE PEIS CONCAS, LA MAESTRINA DI MONTEVECCHIO, PER SEMPRE

Iride Peis Concas

Montibecciu, Montevecchio, il monte e la miniera della mia famiglia. Tutti guspinesi noi, unica eccezione nonno Cherchi: lui era di Dualchi ( cabesusesu), uno del capo di sopra. Che parlava un campidanese addolcito dal barbaricino. Rissoso nonno, unu balenti, a Dualchi la sua famiglia “stava bene”, quella che avrebbe sposata, nonna Raffaella di Guspini, era “a servizio” da loro. Forse è anche per questa scelta che litigò con i suoi e se ne venne nel paese della moglie a lavorare in miniera. E in uno dei frequenti “crolli” ci lasciò la funzionalità d’una gamba, non ricordo fosse la destra o la sinistra. A risarcimento ricevette una certa somma, denari che a tutti parevano tantissimi, e chi ne aveva mai visto prima, del resto? Nonna tentò timidamente di suggerire potessero essere usati per una qualche miglioria della casa che se ne cadeva a pezzi ma, da quando le donne mettono becco nelle azioni di finanza della famiglia? Tziu Grecchi li prestò a “uomo di fiducia” che prometteva alti rendimenti. Che non vennero mai, e neanche il prestito sarebbe tornato con semplicità a casa se non fosse venuto in licenza dal continente il figlio maschio Michele, con la sua impeccabile divisa da carabiniere. L’”uomo di fiducia” abbozzò, e nonno Domenico convertì il contante in due terre che avrebbero convertito lui a coltivatore di grano. Le altre figlie dei Cherchi: Angelina la grande se ne fuggì suora, sembra che nonno contrario alla sua vocazione le avesse puntato il fucile alla testa: “giura non ti faghes mongia!” (relatio: mio cugino Tullio Ruggeri che si fece invece prete e ritengo quindi poco incline alla menzogna), zia Nera che lavorerà per anni a Montevecchio per “formarsi una dote” e poter sposare il suo Ruggeri, Silvio, che a Montevecchio lavorò poi “da guardia”. Zia Angelina, che morì giovane per un male mai ben diagnosticato. Nonno che bestemmiava il costo degli inutili farmaci. E infine Giuseppa, Pina, Pinuccia, la “piccola”, mamma mia. Andata sposa a un Portas, Livio, poeta, scultore di creta, maresciallo di carri armati. Tre figli.  Dei miei cugini Ruggeri a Montevecchio solo Rinaldo, ma non minatore, in officina. Gli altri cugini Tullio e Augusto, a lavorare con nonno in campagna. E aiutava anche mamma. Che, mi diceva, nonno per tutti quei dispiaceri passati aveva “la sbornia triste”: quando ritornava a casa ubriaco, anche fosse la festa di Santa Maria, in ritardo, e non franco sulle gambe, in quelli che erano seduti a tavola ad attenderlo calava un gelo di paura. Quanti bicchieri di vernaccia prima di tornarsene a casa! “Buffa tziu Grecchi? Per Dio!”, (relatore sempre don Tullio): i ragazzi del paese “lo invitavano” apposta e lui non diceva mai no. Basta, se non vi ho convinto che Montevecchio mi scorre per le vene misto al sangue, di più non posso o voglio dire. E quanti guspinesi potrebbero dirvi la stessa cosa, quante donne di Guspini vedove giovani per la silicosi dei mariti. Quanti pensionati e malati per sempre di silicosi. Iride Peis Concas, guspinesa del ‘40 (la mia amica Iride, diceva mamma) a Montevecchio andò ad abitare fresca sposa col marito Bruno, che era diventato medico della miniera. Lei era maestra e avrebbe insegnato nelle scuole elementari di lì per trentacinque anni. Immagazzinando migliaia di storie delle famiglie dei suoi alunni che l’avrebbero segnata inesorabilmente. Tanto che alcune le avrebbe messe per iscritto in alcuni suoi libri che a sfondo, altrettanto inevitabilmente, avrebbero avuto la miniera di Montevecchio. Sempre da bimba Iride aveva voluto essere maestra, a suo dire fu un desiderio da stella cadente che la relegò per la vita in quel ruolo. Il mestiere più bello del mondo, e anche io credo che lo sia. Specchiarsi ogni mattino negli occhi avidi di imparare le cose del creato sui visi di una ventina di bimbi scalzi e mal vestiti, ma dai sorrisi più bianchi che ali di gabbiano, aiutarli a districarsi tra tabelline del sette, promettendo loro che sarebbero servite più in la, nella vita dei grandi. Che avessero fede. Nella loro signora maestra. Bruno e Iride avrebbero avuto cinque figli e altrettanto prolifiche erano le famiglie dei minatori che vivevano a Montevecchio o nei paesi vicini, Guspini e Arbus per primi. Ma quanto più povere che la loro. Con quanti più bisogni. Del resto la miniera da sempre non aveva guardato all’età dei suoi lavoranti, e neanche al sesso in verità, le donne, le bambine erano brave “cernitrici”, brave a separare il minerale grezzo che saliva dai carrelli pieni sbucanti dai visceri delle gallerie. Venivano pagate un niente e lavoravano di media 12 ore al giorno. Per le otto ore giornaliere di lavoro non sarebbero bastati i morti di Buggerru. E di queste donne e bimbe Iride sentiva le voci a Montevecchio, di quando si ritiravano stanche a chiacchierare in sardo e a ridere di tutto, nonostante i calli alle mani e ai piedi. Che chi veniva da Guspini, toccava partirsene all’alba e fare quella salita di chilometri, spesso a piedi scalzi, che le scarpe potevano comprarsele solo i signori. O averle solo perché figli di ciabattini, come Licio Atzeni (sarà padre di un Sergio grande scrittore), come diceva mamma che lo aveva per compagno di scuola. Nelle brune dell’alba, la luna ancora non del tutto scolorita, la processione laica con le candele accese avrebbe salito per anni verso il monte e “sa mena”, la miniera. Spettacolo di speranza per un futuro che salvaguardasse dalla fame per sé e la famiglia. Destino comune. Accettato, maledetto e benedetto. Che i contadini a giornata o i servi pastore di soldi non ne vedevano mai. Ed erano più poveri dei poveri. Nel suo ultimo libro: “Contus in poesia de sa mena ‘e Montibecciu”, Aipsa edizioni, Iride lascia delle pagine bianche “per scrivere un pensiero che vi viene in mente durante la lettura, per fermare un ricordo che è balenato all’improvviso…”. E come avete letto sopra di pensieri me ne sono balenati come fossero stormi di rondini a primavera, rondini dei primi anni quaranta altro che quelle poche e sparute di oggi. Il libro “pro arregordai sa gente ‘e mena”, per ricordare la gente della miniera. E anche per “fissare” alcune parole sarde che vanno scomparendo che, mi scrive Iride: “Sa lingua nostra est una prenda”, un gioiello. C’è baccano intorno alla miniera e “In donnia logu/ fragu de umidadi/ de bruvura e de carburu/ Aria grai chi nci pàpat su fueddu”, ovunque odore di umidità e di carburo, aria pesante che inghiotte la parola” (pag.32). “Chi no est calau asut’e terra/ no scit ita est una mena”. E sotto terra il caldo è spaventoso. A Picalinna (“chi tenia fama legia”, aveva una brutta fama) bisognava lavorare nudi ( tocàt a trabballai spollincus): “Chi esta berus ca esistit s’inferru/ s’inferru est Picalinna” (pag.48). Sè vero che esiste l’inferno…Con sempre incombente la morte: “firma,/ bistia de nieddu, cun su mucadori/ acovecau in conca,/ tot’ossus e cun sa fraci a coddu”: ferma, vestita di nero, la testa coperta da un fazzoletto, tutta ossa, con la falce in spalla (pag.68). E falcia la morte, falcia i lavoranti come fossero grano maturo (“messat e nci passat”, falcia e se ne va): nella casa di via Giovanni battista Tuveri/il quindici di gennaio/ del millenovecentoventiquattro/ in quel brutto giorno d’inverno (in cussa dì de ierru malu) / il fuoco del caminetto l’hanno spento/ le lacrime di una giovane vedova (is lambrigas de una fiuda giovunedda) pag.96. C’è anche la festa nel libro, la festa del giorno di paga. La festa nel locale del dopolavoro. La festa dei signori nella foresteria, loro con i vestiti così diversi, le signore “in lungo”, scarpe con il tacco sottile. Si beve spumante (“binu a bubullucas”, vino a bollicine). Al villaggio Righi (Dda tzerriant Shangai, la chiamavano Shangai) ci abitavano minatori con famiglia numerosa/ sardi e forestieri (strangius) mischiati (beni amesturaus) e in armonia (pag.142). La domenica anche loro ballavano, che la fisarmonica di Ciciu Forte ne sapeva di valzer e mazurche, tra un ballo e l’altro le mamme offrivano “pistoccheddus finis in safadas pintadas (biscottini fini in vassoi colorati) con “taxisseddas de rosoliu fatu in domu” (bicchierini di rosolio fatti in casa). Iride si fa minatrice di parole sarde, chissà forse le scava dalla sua memoria o da quella di parenti o gente di Montevecchio, poi le fa brillare come mine di galleria, le assembla e fa cantare loro storie antiche che non passano mai. Il testo in italiano tutte le sciupa un po’, ma infine anche i continentali hanno diritto di sapere. I sardi, loro anche di questi terribili modo di sfangare la vita hanno la storia alle spalle. Di questo modo di combattere quella che una volta si chiamava “lotta di classe”. Una vera e propria guerra, dove oltre agli uomini morivano anche donne e bambine (no, non sto parlando di Gaza, vergogna dell’umanità intera). In un altro suo libro Iride (Donne e bambine nella miniera di Montevecchio,Pezzini editore) ha fatto rivivere l’evento del 4 maggio 1871, un serbatoi di 80 metri cubi d’acqua cede sul “dormitorio delle donne”. Undici le vittime, Elena Aru e Caterina Pusceddu di dieci anni, undici Anna Melis tutte di Arbus, Maria Montis di undici e Luciana Pitzus tredici, di Guspini. Le altre “più grandi”. Sulla seconda di copertina dei “Contos in poesia”: “La sua capacità di parlare al cuore di grandi e piccini attraverso i suoi racconti le è valsa il premio “Donna Sarda 2023” quale “Valente autrice che ha dato voce alle donne che hanno svolto un ruolo significativo nel mondo minerario sardo”. Iride Peis Concas, la maestrina di Montevecchio, per sempre.

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13 commenti

  1. Luisella Atzeni

    Iride
    BELLA

  2. 🥰🥰🥰

  3. Ciao Signora Iride .

  4. Daniela Sanna

    Grande Iride 😘❤️

  5. Che altro dire? Ti amiamo Iride.

  6. Roberta Carboni

    Una donna unica, come poche, una Donna davvero speciale!!!!! Ti adoro Iride!

  7. Annalisa Atzeni

    Meravigliosa Iride Peis ❤️

  8. Complimenti vivissimi ❤️

  9. Ci siamo incontrate per caso due anni fa’ proprio a Montevecchio noi andavamo verso la diga,lei e il marito si erano fermati lì all’ingresso, piacevolissima chiaccherata e per finire un regalo da parte sua un libro a me e mia sorella,grazie signora Iride è stato un vero piacere incontrarvi .

  10. Belle persone.😘😘

  11. Grande Iris

  12. Salvatore Angius

    Fantastica! L ‘ ho conosciuta a Funtanazza, quando avevo 6 anni.

  13. Graziella Falaguasta

    La grande, grandissima Iride, mia mentore e “sorella” sarda🤗❤️👏🏼

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