di Claudia Zedda
E’ difficile definirla, così come accade per qualsiasi altro concetto astratto. E’ difficoltoso darle un volto ed affidargli delle vesti. E’ fuggevole come la parola e mutevole come il pensiero. Parliamo della comunicazione. Ho pensato a lungo a come raccontarla, e di lei infine mi sono decisa a dire che è l’eccellente mezzo attraverso il quale l’esperienza umana viene trasferita da individuo a individuo. Vola per mezzo della parola, ma non è semplicemente verbo, si fonde con la carta e si incide sulla pietra, ma non è pergamena o marmo. E’ una essenza mutevole, che acquista volti diversi, quando diverso è il paese in cui soggiorna. Racconteremo oggi di come sia stata vissuta e intesa per secoli in Sardegna, dei luoghi che ha prediletto e delle vesti dietro le quali ha deciso di nascondersi. Viaggiava, e l’ha fatto per lungo tempo sulle ali della oralità. Non che le società agropastorali non conoscessero la scrittura, ma questa arrivò tardi, e per lungo tempo rimase cosa di pochi, difficile da comprendere, impossibile da utilizzare, misteriosa come i segreti di cui non si parla, dominio di sacerdoti e re. La gente comune, quella che lavorava la terra e pascolava il bestiame, quella che pagava le tasse e si sudava il proprio futuro, conosceva un modo ben più antico per comunicare, per trasferire di generazione in generazione un sapere antico che non doveva essere perduto. Il racconto. In Sardegna si raccontava in qualsiasi occasione, un po’ come oggi in qualsiasi occasione si ascolta il proprio iPod, o si legge un giornale. La strada che separava la casa dal luogo di lavoro poteva sembrare ben più breve se insaporita dalla presenza di un narratore e di un racconto, il lavoro trascorreva più rapido, e c’è chi giura che anche la fame sembrava meno nera quando seduti dinanzi a su foghile, i vecchi raccontavano e i giovani assorbivano sapere, affascinati dalla danza delle mani. Tanto il raccontare si legava ai luoghi ed alle situazioni che ancora oggi sappiamo dell’esistenza dei contusu de bixinau, che si raccontavano in quello spazio appena esterno alle dimore private, condiviso dal bixinau. Nei mesi primaverili ed estivi i lavori domestici si svolgevano all’esterno delle case, e in compagnia del vicinato si lavorava e raccontava. Indimenticabili i contusu de forredda, raccontati dinanzi al focolare, un tempo posto al centro delle abitazioni. Era all’imbrunire che la famiglia si riuniva e il narratore diveniva il reale protagonista della serata. Attraverso il raccontare si impartivano lezioni importanti, si trasferiva morale, si invogliava i più piccoli a seguire le regole del gruppo sociale. Un accenno almeno meritano i contusu de pinnetta e imbriaghera, che vedevano protagonisti gli uomini nei momenti di riposo dal lavoro e i contusu de is quattru grifonisi, che si narravano nei pressi delle sorgenti, dove le donne si recavano per prelevare acqua, o per lavare i panni sporchi con tecniche dimenticate. Nell’attesa che questi asciugassero il tempo lo si ingannava narrando di tutto, di niente. Una forma di comunicazione questa, che conoscerà una battuta d’arresto nel suo troneggiare incontestato quando le parole verranno impresse su carta, quando il narratore verrà sostituito dalla radio prima, e dalla tv poi, quando il fuoco domestico dinanzi al quale ci si radunerà diventerà un social network, tutte altre eccezionali forme attraverso le quali il sapere viaggia rapidamente, percorrendo distanze un tempo inimmaginabili. E seppure io stessa mi lascio ammaliare dal calore della luce bluastra del monitor, quasi come una zanzara attratta da un sole artificiale, e se io pure amo ascoltare le emozioni in musica, quando taglio la città frettolosa, allo stesso modo non posso dimenticare quanto più caldo sia il racconto di un narratore fatto d’ossa e sangue e quanto più vero il contatto fra gente che alla sera infreddolita si incontra per condividere l’esperienza più antica del mondo, il racconto.