
Maria Paola Masala nella foto di Stefano Grassi
di MATTIA LASIO
. «Essere donna significa essere pienamente me stessa e avere la consapevolezza di tutte quelle fragilità che a tanti sfuggono». Maria Paola Masala sorseggia un tè caldo al limone e zenzero in un elegante caffè letterario nel centro di Cagliari, in una via Manno che si anima pian piano durante un sabato mattina nuvoloso di gennaio. Indossa un giubbotto e un maglione nero e un paio di occhiali dello stesso colore, oltre a una sciarpa color viola lavanda. Seduta in un tavolino appartato, parla di sé con discrezione e umanità, elementi che l’hanno accompagnata nei tanti anni a L’Unione Sarda, di cui ha rappresentato una delle firme più raffinate e colte oltre a essere stata la prima donna assunta dal quotidiano nel 1978, e che le hanno permesso di essere molto più di una giornalista. Perché se è vero che il giornalismo non è solo elenchi di fatti e vicende espressi in maniera distaccata, Maria Paola, 76 anni nata a Bonorva ma da tanti anni nel capoluogo, incarna pienamente il lato migliore di una professione complessa dove, soprattutto di questi tempi, è facile individuare più gli aspetti negativi di quelli lieti.
I suoi capelli sono bianchi con striature grigie, i suoi occhi verdi chiari vividi: dal suo sguardo traspare una timidezza dolce e una profondità che non viene esibita ma che emerge dalle sue parole. La musica di sottofondo proveniente dagli angoli della strada offre il pretesto per parlare di una delle sue più grandi passioni, ovvero la lirica. «Ho iniziato a seguire i primi concerti di musica lirica, ma anche di musica classica, intorno ai 24 anni come semplice appassionata. Ricordo ancora il primo spettacolo a cui ho assistito ovvero ‘’Il trovatore’’ di Giuseppe Verdi che è sempre stato tra i miei preferiti, insieme chiaramente a figure come quella di Giacomo Puccini, Gioachino Rossini e Mozart». Alla lirica Maria Paola Masala, che è stata anche la prima donna iscritta all’albo dei professionisti della Sardegna, ha legato una parte importante del suo percorso professionale, contraddistinta da quel rigore e da quella raffinatezza che la contraddistinguono professionalmente e, soprattutto, umanamente. Un rigore frutto di tanti anni di cronaca, esperienza che le ha dato un senso della misura e una sobrietà di questi tempi sempre più rara. «Dal 1993 al 2012 ho seguito dal punto di vista professionale tutte le stagioni del Teatro Lirico di Cagliari, di cui ho seguito anche l’inaugurazione proprio nel 1993. Ho avuto il piacere di continuare a scrivere a riguardo anche dopo essere andata in pensione, sino al 2019. Il Teatro Lirico per tanti anni è stata la mia casa e ancora oggi lo sento così, mantenendo un legame fortissimo».
Tante le interviste e gli incontri di rilievo con persone di spicco conosciute nel corso degli anni. «Ricordo con molto piacere le interviste a cantanti liriche di talento come Giusy Devinu e Daniela Dessì, nel mio percorso ho avuto il privilegio di conoscere scrittori come Mario Ciusa Romagna e Antonio Romagnino e artisti come il pianista Dino Ciani e il flautista Severino Gazzelloni, la violinista Anna Tifu che intervistai quando era agli esordi, il pianista Romeo Scaccia, la flautista Silvia Careddu, il tenore Francesco Demuro, il direttore d’orchestra Daniel Harding che conobbi quando aveva appena ventiquattro anni e venne al Teatro Lirico nel 2001, ricordo anche che fosse un grande amante del calcio tifosissimo del Manchester United, Lorin Maazel, Georges Prêtre, Zubin Mehta, Riccardo Muti, il contralto Bernadette Manca di Nissa, il soprano Mariella Devia, il tenore José Carreras e Alfredo Kraus, il soprano Katia Ricciarelli che ho intervistato più volte: è sempre stata una persona con cui mi sono trovata bene, all’inizio può sembrare un po’ brusca ma sa essere molto gentile e simpatica. Ho avuto anche l’onore di essere l’ultima persona ad avere intervistato Maria Carta, poco prima della sua morte, quando ormai era già profondamente segnata dalla malattia». Tra i momenti di maggior intensità emotiva, spicca il concerto del 24 e del 26 febbraio del 1999 al Teatro Lirico di Cagliari di Carlos Kleiber. «Lui era un Dio nascosto», ricorda, «per Carlos Kleiber dirigere l’orchestra rasentava la maniacalità, tutto doveva essere perfetto. In quell’occasione ha diretto la quarta e la settima sinfonia di Beethoven, oltre all’ouverture del Pipistrello di Johann Strauss durante il bis, in maniera impeccabile, tutto questo con la febbre. Anche se, in realtà, la febbre la fece venire lui agli altri per le grandissime emozioni che era in grado di suscitare. Ricordo i presenti piangere, fu qualcosa di indescrivibile».
Un ruolo fondamentale nella sua crescita ha ricoperto la laurea in Filosofia, con una tesi in pedagogia con la professoressa Maria Teresa Marcialis sulla condizione della donna da Fénelon a Rousseau. «Maria Teresa Marcialis è stata per me una guida importante», sottolinea, «grazie alla sua passione fortissima per ciò che faceva e a una preparazione invidiabile». Un’altra figura importante nel suo cammino è stata quella di Madre Elisabetta, sua professoressa di latino e greco nel triennio conclusivo del liceo classico. «Era una donna severa ma apertissima, ricordo ancora l’entusiasmo con cui ci parlò dell’Antigone di Sofocle». Entusiasmo che non è mai mancato a Daniela Zedda, storica fotografa de L’Unione Sarda venuta a mancare il 28 maggio del 2023 all’età di 64 anni. «Daniela è stata mia compagna d’avventura per oltre trent’anni, è sempre nel mio cuore. Tutte le foto più belle che ho sono state scattate proprio da lei. Era una donna ironica e arguta, che amava senza riserve le persone a cui voleva bene e che le erano accanto».
Il discorso si sposta alla letteratura e a una delle penne più eleganti della narrativa sarda, e non solo, ovvero Salvatore Mannuzzu. «Mi ha sempre colpito la sua profonda fede e la sua grande profondità di pensiero. Era una persona che traeva il meglio dai propri dubbi, senza mai adagiarsi sulle proprie convinzioni. Aveva una scrittura magistrale. Ricordo che una volta, riprendendo Natalia Ginzburg, mi disse che il mondo era ricoperto di funghi e che a lui questi funghi non piacevano. Insomma, aveva una brillantezza incredibile che traspariva appieno dalle sue opere». Brillantezza che ha sempre distinto anche due donne di grandissimo rilievo della cultura sarda ovvero Maria Giacobbe e Maria Lai. «Maria Giacobbe era una scrittrice straordinaria, una donna di grande modernità e coraggio oltre che di una dignità immensa. Mi raccontava spesso della sua grande amicizia con Joyce Lussu. Ricordo con emozione anche Maria Lai che, oltre a essere stata un’artista immensa, era prima di tutto una donna di notevole caparbietà ma capace anche di attimi di grande dolcezza».
E se si parla di caparbietà e di dolcezza, il pensiero non può che rivolgersi a Sergio Atzeni, uno degli scrittori sardi più importanti di sempre di cui nel 2025 ricorrono i trent’anni dalla sua prematura scomparsa. A Sergio Atzeni la lega un ricordo di grande carica emotiva. «L’ultima volta che vidi Sergio era nella redazione di Terrapieno de L’Unione Sarda, il giorno di carnevale del 1995. Lui si trovava lì per consegnare un pezzo. Ricordo che parlammo dei vizi capitali e che lui si concentrò sull’avarizia, mi citò il premio Nobel per la Letteratura del 1981 ovvero Elias Canetti. Passeggiamo da Terrapieno sino a via Sonnino, poi ci salutammo. Non avrei mai immaginato che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui l’avrei visto, la sua scomparsa è stato un durissimo colpo per tutta la cultura sarda».
All’interno del bar si diffondono le note de ‘’La canzone dell’amore perduto’’ di Fabrizio De Andrè eseguita con sentimento da un artista di strada e si ritorna a parlare di filosofia. «Ho amato molto Hegel ma anche Kant, da ragazza adoravo Platone così come Nietzsche. Studiare filosofia mi ha insegnato che ciò che manca, soprattutto ai giorni nostri, è il senso della misura e, soprattutto, mi ha insegnato a mettermi nei panni degli altri. La verità non è mai assoluta e non pende mai da una sola parte». Il tempo sembra come fermarsi per un istante, le parole si fanno sussurri e volteggiano lontane, in luoghi che non è dato sapere ma che è bello provare a immaginare. «Ciò che di più prezioso ho imparato nella vita, e in questo la filosofia ha sicuramente contribuito parecchio, è che non bisogna stancarsi di coltivare i dubbi, perché farlo è fondamentale. Ecco, questa è una delle lezioni più significative che ho appreso in questi anni, insieme al fatto che più imparo e, alla fine, meno so».