ANGELO PIRAS ORIGINARIO DI NULVI, DA SETTANT’ANNI E’ TESTIMONE DIRETTO DELL’EMIGRAZIONE ITALIANA IN BELGIO

Angelo Piras

Angelo Piras nasce a Nulvi (SS) nel 1938. All’età di 16 anni si trasferisce in Belgio e, oggi, in qualità di Vicepresidente del Circolo degli emigrati sardi “Quattro Mori” di Charleroi ci racconta la storia dell’emigrazione italiana, e sarda, in Belgio.

“Il Belgio fu uno dei primi Paesi ad accettare manodopera proveniente dall’Italia.

I flussi migratori che iniziarono dopo la fine della seconda guerra mondiale avvennero in un quadro di accordi bilaterali che seguivano una rigida pianificazione degli spostamenti della forza lavoro.

Fu lo stesso governo italiano, nel 1946, a decidere di puntare sull’esportazione di manodopera come misura di contenimento della disoccupazione, allora molto alta.

All’esubero di manodopera italiana corrispondeva una carenza di lavoratori nel Paese di immigrazione: i belgi non erano più disposti a scendere nelle viscere della terra e si erano rivolti verso lavori meno duri e pericolosi.

La carenza di manodopera aveva spinto il governo belga a tentare diverse soluzioni come il reclutamento di lavoratori da Paesi stranieri, in primo luogo dall’Italia firmando l’accordo bilaterale del 1946.

L’accordo con il Belgio prevedeva che i lavoratori italiani venissero destinati al lavoro nelle miniere di carbone e assicurava all’Italia una determinata quantità di carbone per ogni minatore inviato.

Il trattato si occupava di tutti gli altri aspetti del reclutamento e regolava le procedure di immigrazione fin nel dettaglio.

I datori di lavoro belgi inviavano le offerte di impiego al Ministero del lavoro italiano che le trasmetteva agli uffici di collocamento dei Comuni. Qui le offerte di lavoro erano pubblicizzate da allettanti manifesti, affissi sulle piazze e nei bar, che invitavano a partire e prospettavano al futuro emigrante, favorevoli condizioni di lavoro e di alloggio. Una volta individuato il candidato, iniziava la trafila delle visite mediche: la prima presso l’Ufficio sanitario del comune di residenza, da dove i futuri migranti erano poi inviati presso l’Ufficio provinciale del lavoro per un’ulteriore visita di controllo. I candidati ritenuti idonei erano trasferiti al Centro per l’emigrazione di Milano dove erano sottoposti alla selezione definitiva da parte della Commissione belga per l’immigrazione e al controllo incrociato della polizia belga e italiana. Anche se teoricamente la polizia belga non poteva operare nessuna selezione tra le file dei candidati, nella realtà molti braccianti che avevano partecipato alle lotte agrarie e all’occupazione delle terre venivano respinti.

Il primo convoglio, contava circa duemila giovani maschi italiani e, fra loro, un centinaio di sardi. Partì da Milano la sera del 12 febbraio del 1946. I manifesti della Federazione carbonifera belga promettevano salari inimmaginabili allora, il viaggio gratis (18 ore di viaggio da Milano sino alla bocca della miniera), un alloggio pronto e infine, la possibilità di far seguire la famiglia.

Ma era il disastro dell’immediato dopoguerra che portava la gente a crederci. La Sardegna sovrappopolata nelle zone interne, rispetto all’agricoltura e alla pastorizia impoverite, le aree minerarie, sature a loro volta, fornirono migliaia di giovani contadini e pastori a questo scambio diseguale.

Ci sono paesi in Italia e in Sardegna che sono stati segnati per sempre da quell’esodo.

Una volta arrivati alla miniera loro destinata, i nuovi immigrati erano sottoposti ad un ultimo esame da parte del responsabile medico della miniera e, se erano dichiarati inadatti al lavoro sotterraneo, venivano destinati ad altri settori o, più spesso, rimpatriati. Agli idonei veniva invece rilasciato un permesso di lavoro della durata di un anno (rinnovabile) che vincolava il lavoratore a cinque anni di attività ininterrotta nel settore minerario, pena l’espulsione.

Prima della tragedia di Marcinelle, nel 1956, non erano in dotazione nemmeno le maschere antigas.

Si lavorava per otto ore e poi, spesso, soprattutto gli italiani si prestavano a fare un secondo turno, in cunicoli stretti, alti a volte solo 40 centimetri, a temperature anche di 45 gradi, sdraiati su un fianco con il martello pneumatico imbracciato, mentre una candela illuminava la scena.

Alla consumazione dei pasti erano dedicati 20 minuti. 

Le ferie venivano calcolate sulla base dei giorni lavorati nell’anno precedente. Dai 6 giorni all’anno del 1948 si passò ai 12 e poi ai 30, grazie all’intervento dei sindacati.

Se le traversie per essere assunti nei distretti carboniferi erano lunghe e accidentate, non meno traumatico era, per molti lavoratori, l’impatto con la miniera. L’inesperienza, la mancanza di un periodo di formazione e l’ignoranza delle reali condizioni in cui avrebbero dovuto lavorare rendevano particolarmente traumatica la prima discesa al fondo, tanto che non erano pochi quelli che si rifiutavano di scendere. Anche il salario era nettamente inferiore a quello sperato e promesso nell’accordo bilaterale, perché una parte era legata al lavoro a cottimo, il che tra l’altro, costringendo i minatori a risparmiare tempo, li spingeva a tralasciare le procedure di sicurezza e ad esporsi al rischio di incidenti.

Una giornata normale prevedeva che ogni minatore facesse un avanzamento di tre metri di tagli di carbone.

Ho conosciuto un certo Fini, lo chiamavano ‘il Friulano’. Lui faceva 9 metri al giorno e guadagnava tre giornate in una. Aveva fatto venire due figli che stavano in Italia per lavorare in miniera con lui. Anche loro facevano 9 metri di carbone. Hanno guadagnato tanti soldi e dopo 5 anni hanno comprato uno stabilimento in Friuli usato come albergo-ristorante. Ma la loro vita non è durata a lungo. Lui è morto a 62 anni di silicosi e, dello stesso male, sono morti i figli all’età di 48 e di 43 anni. Questo è un particolare che mio padre ricordava sempre dicendo:

-Quelli vogliono mangiare la miniera, ma la miniera ha mangiato loro!

Il Circolo di Charleroi. Il primo a dx Olivier Renè Boi, Presidente; al centro Angelo Piras, Vicepresidente; a sinistra Giandomenico Naitana, Segretario; in basso Leonardo Carta, Consigliere.

Le difficili condizioni di lavoro e le misure di sicurezza inadeguate provocarono moltissimi incidenti. Il più grave avvenne nella miniera di carbone del Bois du Cazier, nel bacino carbonifero di Charleroi, nei pressi della cittadina belga di Marcinelle. All’epoca dell’incidente le armature del Bois du Cazier erano ancora in legno, i cavi elettrici erano collocati in punti pericolosi, mancavano i mezzi estintori e non esistevano né vie di fuga né porte stagne.

In questa struttura obsoleta l’incendio scoppiato l’8 agosto 1956, non lasciò scampo: morirono 262 operai di dodici nazionalità, tra cui 136 italiani.

La catastrofe di Marcinelle fu di dimensioni eccezionali, ma gli incidenti mortali erano assai frequenti nell’ambiente delle miniere: si calcola che prima di Marcinelle, nel decennio 1946-1956, fossero già morti in Belgio centinaia di lavoratori italiani.

Nessuno ancora sapeva che respirare per anni l’aria intrisa di polvere di carbone esponeva al rischio di contrarre la silicosi, una malattia professionale particolarmente grave che porterà alla morte tantissimi minatori.

Non mancò da parte dell’opinione pubblica belga un certo disprezzo nei confronti degli italiani. Capitava di leggere in giro cartelli con su scritto ‘Interdit aux chiens et aux italiens’ (vietato ai cani e agli italiani).  Questo preconcetto nei confronti dell’emigrazione italiana cominciò a diminuire dopo l’8 agosto del 1956, giorno della strage di Marcinelle.

Da quella data, l’Italia pose gradualmente termine all’emigrazione collettiva, mentre il Belgio iniziò, prima sporadicamente e quindi più decisamente, a ripensare la sua politica migratoria.

Fu lentamente superata l’ostilità che il Belgio aveva riservato agli emigranti italiani. Prese avvio una nuova fase in cui cominciò ad essere riconosciuto il contributo fornito dagli italiani all’industria carbonifera belga e, successivamente, anche ad altri settori produttivi ed economici, nella piccola e media impresa.

L’atteggiamento più aperto nei confronti dei lavoratori immigrati portò a facilitare anche il processo di acquisizione della cittadinanza e, quindi, ad allargare anche il diritto di voto.

Le seconde generazioni si sono avvalse pienamente di queste opportunità e, senza più sentirsi in difficoltà per la diversità della loro origine, si sono fatte protagoniste di un inserimento lavorativo sempre più egualitario: non più solo minatori, ma anche lavoratori qualificati, impiegati, imprenditori, professionisti e funzionari comunitari.

Mio padre è partito in Belgio nel 1952 per lavorare in miniera e ha portato la famiglia nel ‘54. Tutta la famiglia.

Lui ha voluto portare la famiglia perché diceva che in Belgio si stava meglio; era il periodo successivo alla tragedia di Marcinelle, le condizioni di lavoro dei minatori erano già cambiate e anche l’integrazione belgi e italiani era migliorata.

Siamo arrivati a Chatellinau con l’idea di lavorare per procurare soldi per poi tornare in Sardegna e comprare casa. Ma un po’ tutti i sardi erano partiti con quell’idea: quella di far rientro nella nostra isola… Io allora avevo 16 anni, ma non siamo più tornati in Sardegna…

Quando siamo arrivati in Belgio, io e mio fratello avevamo deciso di andare anche noi a lavorare in miniera con mio padre, ma lui si oppose. Diceva che era sufficiente il suo sacrificio e non avrebbe mai permesso anche quello dei suoi figli. Così, abbiamo trovato lavoro in una fabbrica. Il lavoro in fabbrica, a confronto con il lavoro che si faceva in Sardegna, non era duro, a tal punto che facevamo ore straordinarie.

L’anno prima di emigrare, frequentavo la prima media in Sardegna; sono andato a scuola in ritardo perché quando avevo sei anni, nel ‘44, le scuole erano chiuse a causa della guerra e ho iniziato la prima elementare a 8 anni. Quando sono arrivato in Belgio ho abbandonato gli studi. Poi durante gli anni del lavoro in fabbrica, un caposquadra mi prese in simpatia, mi disse che avrei dovuto studiare e mi consigliò di andare alle scuole serali. Iniziai le scuole serali per imparare un mestiere. Il primo anno dovetti fare il corso di italiano-francese. Poi frequentai le scuole serali per ben 6 anni…

Nel frattempo imparai il lavoro e dopo 3 anni mi misero a capo di una squadra di 10 persone. Nel ‘63 mi nominarono direttore dell’azienda.

Negli anni creai anche una mia azienda. Dal ‘93 sono in pensione.

Problemi di integrazione, non ne ho subito. Ci sono stati però problemi per molti italiani…

I giovani italiani che venivano qua, se facevano chiasso nei locali notturni, non erano ben visti. La legge diceva che se combinavi qualcosa di grave le autorità ti riaccompagnavano a Chiasso e ti rimettevano in mano alle autorità locali.

In generale i sardi sono stati sempre apprezzati.

Io ho avuto la fortuna di aver fatto una vita imprenditoriale tranquilla. Poi mi sono sposato e ho costruito casa. Il sogno di tornare in Sardegna è svanito in quegli anni per poi tornare dopo la pensione.

Oggi ritorno in Sardegna  per 5 mesi e poi torno qui perché ho i nipoti.

Il Circolo ‘Quattro mori’ di Charleroi è nato 50 anni fa. Era stato fondato da Gonario Murru che all’epoca lavorava nel Consolato Italiano ed essendo in comunicazione con la Regione aveva saputo di un finanziamento finalizzato alla costituzione di forme di incontro degli emigrati sardi.

Io ho iniziato a frequentare il Circolo dopo la pensione, nel ‘95. Non c’erano tanti frequentanti e così abbiamo pensato di creare dei momenti ricreativi e portare anche i prodotti sardi… e la gente ha cominciato a riunirsi, non solo sardi, anche i belgi e italiani di qualsiasi regione: venivano e vengono tuttora a comprare i prodotti!

Negli anni poi, abbiamo organizzato i pranzi o le cene e questo ci ha aiutato a diffondere non solo i prodotti, ma anche le nostre abitudini e le nostre tradizioni.”

I sardi che risiedono oggi in Belgio sono i fedeli custodi di quella memoria, ma anche portatori di nuove istanze strettamente legate ai mutamenti che ha attraversato il mondo dell’emigrazione.

“Oggi questa terra è diventata per tanti di noi una seconda patria, ma non è stato un regalo, è stata una dura conquista che i nostri padri hanno pagato con la loro salute e la loro vita.”

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4 commenti

  1. GIANDOMENICO NAITANA

    Il circolo sardo di Charleroi ( Belgio ) ringrazia Stefania Cuccu per il lavoro svolto !

  2. Carta Leonardo

    O letto il libro bellissima

  3. Ornella Beccu

    super

  4. Gaetano Cosentino

    Amico di tutti… 🍀🍀

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