ANTONIO VERACHI, UN NUORESE AUTENTICO: INGEGNERE, INSEGNANTE, FEDELE ALLE TRADIZIONI. IL RICORDO DELLA FIGLIA MARINELLA

Antonio Verachi

“Era mio padre! Sono felice e onorata di essere sua figlia”, afferma con orgoglio Marinella Verachi al ricordo del padre Antonio nato a Nuoro il 24 ottobre 1919 da un commerciante di carni e una casalinga.

Diploma di maestro, ha insegnato a Desulo e alla Colonia Penale di Mamone. In seguito, conseguita la maturità scientifica, s’iscrisse in ingegneria edile a Pisa. Nelle scale delle Magistrali, dove ha insegnato da universitario, ha incontrato Luciana Ferracciolo, alunna dell’istituto, minore di lui di dieci anni, giunta a Nuoro dalla Maddalena a seguito del padre funzionario dell’Artiglieria. Si sono sposati nel 1955 e dalla loro unione sono nati 3 figli. Dopo la laurea, ovviamente arrivata tardi, ha insegnato costruzioni all’istituto tecnico per geometri di Nuoro dedicandosi anche alla professione. Ha lasciato la scuola molto tardi perché amava tanto i giovani, veri protagonisti del futuro. A festeggiare il suo 80esimo compleanno c’erano soltanto i figli e i loro amici.

L’ingegner Antonio Verachi ha fatto attività politica fin da giovanissimo militando dapprima nel partito sardo, poi nel partito socialista.

Presidente del Consorzio Govossai, per due volte assessore all’urbanistica e candidato alle politiche con buoni risultati pur non eletto, fino alla fin ha preso parte attiva nel partito senza tuttavia partecipare a competizioni elettorali. “Era un craxiano – afferma la figlia -, non mi vergogno di affermarlo perché, rispetto a quello che si vede oggi, meglio un Craxi di allora”.

Era un grande sognatore, vulcanico e propositivo, un innovativo precursore dei tempi. Sua l’idea dell’apertura di una strada dal monte Ortobene verso la costa, urgente e necessaria via di fuga a seguito del disastroso incendio che aveva incenerito su Monte nel 1971, sua la proposta della Nuoro-Sassari via Ozieri di cui è stata fatta solo una quota e mai patrocinata dalla provincia di Nuoro, così come l’idea di una zona commerciale per artigiani a valle della chiesetta della Solitudine. Aveva pensato e progettato la prima lottizzazione dell’area industriale di Prato sardo e il primo stralcio della lottizzazione di Cala Liberotto. E’ stato il primo ad aver sostenuto sulla pubblica piazza che Ottana sarebbe stato un fallimento. Allora per tutti una voce fuori dal coro.

A scuola studiava, era bravo, ma da ragazzo santupredinu ne combinava di ogni. Con alcuni amici aveva murato in blocchetti di calcestruzzo la porta di casa del parroco del Rosario rimediando una salutare punizione da parte del genitore.

“Era un padre molto severo – ricorda la figlia -. Quando perdeva le staffe non bindhe fiti pro nemos, non si poteva scantonare, però sapeva insegnare tanto. Ho lavorato per vent’anni nel suo studio dove lui si è speso fino ai primi anni ottanta e posso dire che tutto quello che ho appreso della professione lo devo a lui. Sono geometra contro il suo volere poiché privilegiava la cultura umanistica, voleva che facessi il classico prima e poi il tecnico. Ha sempre indirizzato noi figli alla lettura – prosegue -, comprava giornali e libri. E’ stato un grande, ai figli e ai nipoti ha lasciato un’immensa eredità morale”.

Un nuorese autentico, l’amicizia era per lui fondamentale, una stretta di mano suggellava patti non scritti.

Fedele alle tradizioni, sperava che l’Atene sarda proseguisse nel tempo. Alla fine del suo percorso lavorativo scriveva in sardo qualche articolo per l’Ortobene, sempre in sardo traduceva le favole di Fedro e scriveva su Amsicora, il guerriero latifondista sardo-punico che aveva guidato la rivolta antiromana del 215 a.c.  Ha scritto “Sos pedones de Santu Franziscu” (1998) e avviato la traduzione in sardo arcaico de “Il giorno del giudizio” di Salvatore Satta. Metteva per iscritto ogni suo pensiero sui bordi del giornale e delle fotocopie, perfino sulla carta straccia, lasciando in eredità tanto tanto materiale.

“Mio padre – chiosa Marinella -, fedele agli schemi della cultura nuorese, benché socievole era riservato mentre mia madre aveva una mentalità aperta ed essendo io molto estroversa ho vissuto una profonda contradizione fra le due diverse culture”.

Cucinare? “Manco per sogno, sapeva fare bene solo l’arrosto”. Amava la campagna dove faceva di tutto. D’estate si rifugiava nel mare di Cala Liberotto, trascorrendo il suo tempo a leggere e scrivere. Per emulare i figli abili nuotatori aveva appreso a nuotare con una camera d’aria per camion.

Aggredito da un male incurabile, dopo lunga sofferenza, la morte sopraggiunse il 20 settembre del 2000. Alla notizia della sua scomparsa, da più parti si è levato un coro unanime: “Er mortu tziu Antoni”.

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