TRENTATRE ANNI DI INGIUSTO E INGIUSTIFICABILE INFERNO: BENIAMINO ZUNCHEDDU, UNA VITA IN CARCERE DA INNOCENTE

Beniamino Zuncheddu

Ha vissuto 33 anni su 60 in carcere. Da innocente. Solo nel gennaio 2024 la Corte d’Appello di Roma ha annullato la sentenza perché sono emersi riscontri evidenti.

Un uomo libero, dopo 33 anni di (ingiusto e ingiustificabile) inferno. Beniamino Zuncheddu ha 60 anni, ma più della metà della sua vita l’ha trascorsa in carcere, da innocente. Una vicenda che ha scosso le coscienze e indignato l’Italia solo in tempi recenti, quando il suo legale di fiducia, Mauro Trogu, la Garante dei detenuti della Sardegna, Irene Testa, e i giornali hanno rispolverato il caso giudiziario che, nel 1991, aveva destato un certo scalpore ma ben presto era passato sotto silenzio: l’ex pastore di Burcei (Cagliari) era stato accusato di aver ucciso tre uomini e tentato di ammazzarne un quarto nelle campagne di Sinnai, e per questo era stato condannato all’ergastolo. Peccato che il superstite di quell’eccidio avesse subito ammesso di non essere in grado di riconoscere il volto dell’assassino, perché coperto da una calza. Ma poco dopo “si era convinto”, dietro suggerimento di un inquirente. Soltanto nel gennaio 2024 la Corte d’Appello di Roma ha annullato la sentenza perché Zuncheddu non ha commesso il fatto.

Vengono i brividi soltanto a raccontarla. Ma è una storia che ricorda quelle di tanti altri innocenti, più o meno celebri. Ho vissuto più tempo dentro che fuori, tra i penitenziari di Buoncammino (Cagliari), Badu ‘e Carros (Nuoro) e Uta (Cagliari). Non potrò mai perdonare coloro che mi hanno sottratto tutti questi anni di vita. In dodici mesi circa avevano chiuso il mio caso: primo, secondo e terzo grado, a una velocità incredibile.

Che sensazioni prova? È una domanda che le avranno posto chissà quante persone… Sono a casa da uomo libero. In precedenza, quando avevo ottenuto i permessi speciali (dal 2001), venivo a casa dei miei familiari ma dovevo rispettare una serie di regole: gli orari, innanzi tutto, ma anche la firma presenza alla caserma dei carabinieri più vicina. Poi, di sera, dovevo rientrare in carcere. I miei parenti erano costretti a riaccompagnarmi perché non potevo guidare.

Gli anni vissuti in carcere? Sono stati brutti. Il pensiero andava sempre alle nostre famiglie, anche se noi detenuti cercavamo di sdrammatizzare in qualche modo. Ma era un sotterfugio.

Si dice che si possa fare esperienza da qualunque tipo di esperienza. Riesce a trovare un lato positivo in questa assurda vicenda? Non ce n’è. Se uno è innocente, non riesce a darsi pace. Anche se ti consentono di fare qualche lavoro che inganna il tempo. Ma pensi sempre all’ambiente esterno, alla libertà negata. E ti chiedi di continuo: perché? Una domanda rimasta senza risposta.

Quali lavori ha svolto in carcere? Ho fatto diverse cose: giardinaggio e agricoltura, per esempio. Quando ho beneficiato dell’articolo 21, ho approfittato di alcune proposte di lavoro all’esterno. Per esempio, quella di un ristorante. E poi quella di un bar, nel centro di Cagliari, in condizioni di semilibertà. Sempre con le restrizioni previste dalle leggi vigenti.

Come la trattavano gli altri detenuti e il personale di polizia penitenziaria? Bene. Io sono di indole pacifica, non creavo problemi e mi facevo i fatti miei. Se capivo che stava per scoppiare una rissa, me ne stavo in disparte per non cacciarmi nei guai. A volte facevo da paciere. La maggior parte degli agenti aveva capito che ero davvero innocente, ma qualcuno mi ripeteva: “Lo dicono tutti i detenuti”. I più, però, mi chiedevano che cosa ci facessi lì dentro. Me lo chiedevo anch’io.

Come trascorre le sue giornate? Sinora ho cercato di riprendermi dal punto di vista psicologico. Il trauma è stato davvero grande, non si può spiegarlo perché parliamo di un tempo lunghissimo. Gli ergastolani, dopo 26 anni di detenzione, possono chiedere la condizionale; con i benefici, rientravo nei 30 anni. Ma quando presentavo la mia richiesta, in tribunale mi dicevano chiaramente che non mi ero ravveduto perché non avevo mai cercato un contatto con la famiglia dei tre assassinati. Non capivo perché avrei dovuto incontrarli e chiedere scusa per un reato mai commesso. Per tanti anni non hanno accolto la mia richiesta di revisione del processo, sostenevano che la mia era tutta una finzione. Non ho mai avuto neppure un rimprovero verbale, in carcere, ma neppure questo è bastato: per loro recitavo un copione. La criminologa del carcere sosteneva che pensassi più a me che alla sofferenza dei familiari delle vittime.

E ora che la verità è emersa, è cambiato qualcosa? Avrei dovuto ricevere le scuse da parte di tante persone, soprattutto di chi mi ha incastrato senza motivo, pur di trovare un colpevole. Ma nessuno si è fatto vivo. In verità, non ho ricevuto le scuse neppure da parte delle più alte cariche dello Stato, forse perché dovrebbero riconoscere che la magistratura ha commesso un errore madornale.

Riesce a credere nella giustizia? No. Ci sono molto magistrati per bene ma sono mosche bianche: come il procuratore generale di Cagliari, Francesca Nanni (che aveva presentato l’istanza di revisione, ndr), e il procuratore generale di Roma, Francesco Piantoni. Sono libero perché loro hanno fatto le dovute verifiche e si sono accorti che i conti non tornavano. Molti avvocati del foro di Cagliari mi hanno seguito senza arrivare mai a un risultato concreto. Soltanto Mauro Trogu e sua moglie Elisa Osanna sono riusciti a smuovere le acque. La Garante Testa, i miei compaesani e altre persone che non avevo mai conosciuto prima, come la giornalista Silvia Tortora (figlia del compianto Enzo, altra vittima del sistema giudiziario, ndr) hanno contribuito a sensibilizzare la stampa, le tivù, l’opinione pubblica. I miei familiari hanno speso un patrimonio per arrivare all’ultimo passaggio in tribunale. Desidero ringraziare coloro che mi hanno permesso di lavorare, ma anche il sindaco e il parroco di Burcei.

Lei racconta tutto in un libro, “Io sono innocente” (edizioni DeAgostini), che sta presentando in giro per le scuole della Sardegna. Ne ha donato una copia anche a Papa Francesco. Gli studenti ascoltano la mia storia a bocca aperta, molti di loro si commuovono. Mi fanno tante domande. Gli alunni di tre scolaresche di Nuoro mi hanno inviato un libro che raccoglie tanti messaggi scritti da loro. Dopo le feste andrò a ringraziarli.

Non ha ripreso a lavorare. Le è mai venuto il desiderio di fare del volontariato? Per ora no. Non escludo che possa accadere in futuro. Al momento curo le piante del giardino dei miei familiari, do una mano in casa. Di sera incontro gli amici di un tempo, al bar, per scambiare due chiacchiere.

Riuscirà davvero a dimenticare? Non posso dimenticare che anche i miei familiari sono stati detenuti come me, perché pure loro hanno vissuto l’inferno. Ora però apro le porte da solo, senza che qualcuno le apra per me come accadeva in carcere. E questa è una cosa bellissima. Ringrazio Dio per avermi dato questa forza: qualcuno, per molto meno, si è tolto la vita. Per oltre dieci anni, una cella grande quanto un normale soggiorno ha ospitato me e altri undici detenuti. In condizioni igieniche pietose. Dovevano starcene tre o quattro. Questo sovraffollamento è ormai diventato la regola, in buona parte d’Italia. Spiegatemi voi come si può uscire migliori da un’esperienza del genere.

Irene Testa, in un recente post sui social, ha mostrato due foto che la ritraggono: una scattata ai tempi della detenzione, l’altra recentissima. La differenza è incredibile. Gli anni in carcere mi hanno segnato profondamente. Ora sto meglio, sono riuscito a farmi curare i denti: questo mi aiuta ad avere un aspetto migliore.

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