di RITA CODA DEIANA
La maschera e il travestimento, sia in tempo di Carnevale che in altre celebrazioni annuali, hanno da sempre caratterizzato la cultura identitaria di un popolo e hanno rappresentato un crogiuolo di informazioni implicite sulle tradizioni correnti della collettività. La maschera, sia in ambito teatrale che in ambito carnevalesco, ha costituito fin dall’antichità l’esteriorizzazione di una personalità che spesso si rivela multiforme e variegata, con tante sfumature a caratterizzarla. La maschera come metafora dell’invisibile che si fa visibile, come un’interiorità che preme per rendersi concreta. Si viene così a creare una ritualizzazione che circonda l’atto del mascheramento. L’individuo non è più ciò che è ma diventa ciò che non può essere al di fuori del rituale, nella realtà. Esteriorizzandosi l’essenza del travestimento diventa una protezione, collettivamente accettata e accettabile, per tutto ciò che altrimenti sarebbe ostracizzato. Se pensiamo ai mascheramenti tipici del Carnevale non possiamo fare a meno di notare che a volte essi diventano una forma di trasgressione, di sfida e di ribellione nei confronti di una società castrante e limitata, società nella quale sarebbero sicuramente relegati ai margini. Ogni maschera ha la sua storia e il suo significato, sia nell’arte che nella ritualità, tuttavia uno degli aspetti meno noti e più interessanti è forse il valore culturale di molte di loro.
Il mascheramento implica spesso un culto sul quale la maschera agisce da tramite tra il terreno e il divino, diventando un intermediario tra cielo e terra. Soprattutto le maschere più arcaiche hanno mantenuto nel tempo questo aspetto e lo hanno tramandato nei secoli con veri e propri riti propiziatori di stampo divinatorio. Riprodurre periodicamente il rito significa confermare il valore metaforico della maschera e la sua importanza nell’ambito del culto. A questo proposito le maschere del Carnevale sardo offrono ampio spunto di riflessione circa il valore simbolico di cui si ammantano. In particolare è interessante la connessione tra le maschere di Mamoiada e quelle di Ottana con un arcaico culto agreste che si fa risalire fin all’epoca nuragica. Infatti i Mamuthones e i Boes rappresentano due interpretazioni similari di un arcaico culto riferito al toro-bue. Entrambi i mascheramenti riproducono elementi agro-pastorali di carattere rituale, in cui la figura del toro-bue è predominante e spesso è rovesciata, nel senso che è l’uomo stesso a farsi animale e a passare da colui che addomestica a colui che è addomesticato. Lo stesso rovesciamento avviene quando si passa da animale pacifico e aiutante dell’uomo ad animale inselvatichito e restio al soggiogamento, che con la sua prorompente forza diventa quasi demoniaco. Anche in questo caso si ha quindi una doppia valenza simbolica che sottolinea l’importanza di questo antico culto. La maschera ha perciò una sua componente cultuale che permette all’uomo moderno di riallacciarsi con origini che altrimenti si perderebbero nel tempo, offuscate magari dalla componente folkloristica che ormai ha mutato quasi tutto in spettacolo per turisti. La maschera diventa reperto archeologico che testimonia il passato e fa affiorare ai giorni nostri importanti retroscena a testimonianza di un vissuto carico di profondi significati.
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