TRA VANGELO E CULTURA, TRA VOCAZIONE E PASSIONE, A CENT’ANNI DALLA NASCITA: DON GIUSEPPE RUJU, UN SACERDOTE SCRITTORE PER LA LINGUA SARDA

don Giuseppe Ruju

Sono molti gli spunti per ricordare la figura di don Giuseppe Ruju a cento anni dalla nascita. Uno è, soprattutto, quello di scriverne e delinearne la figura di sacerdote e scrittore da anelese emigrato. Attraverso le sue opere. Perché don Ruju, pur avendo vissuto ed esercitato la sua missione pastorale e sacerdotale fuori, ha “attinto” l’ispirazione per le sue opere proprio in quel microcosmo culturale, religioso, economico e sociale che era il paese di Anela, Sardegna interna , Goceano, fra Barbagia e Logudoro. È bello, per delinearne la figura, partire da una definizione che di lui era stata data in un articolo pubblicato dalla “Nuova Sardegna ” , di ormai quasi trent’anni anni fa’. “Il personaggio più famoso della Gallura, dopo l’Aga Khan”. Perché don Ruju era, certamente, un personaggio. “In toto”. Ed in Gallura, soprattutto a Berchiddeddu, questo è stato veramente vivo.  Per capire don Ruju, quindi, occorrerebbe partire da qui. Da questa particolare frazione di città (Olbia), enclave logudorese in terra gallurese ed in Diocesi di Ozieri. Al centro di una cultura mistilingue fra gallurese e sardo logudorese. E don Ruju, pur non essendo stato gallurese di nascita, ha bene interpretato questa dimensione. Di uomo, di sacerdote e di scrittore. Di uomo. E di sardo. Innanzitutto. Non gallurese. Ma goceanino. Perché le radici non si dimenticano mai. Ma sempre ritornano. Ed affondano in quell’altra “dimensione” sociale e storico- economica che era la cultura agro-pastorale di Anela nei primi decenni del XX secolo. Microcosmo culturale e “metafisica del villaggio” , secondo la bella definizione coniata da Antonello Nasone, che ritorneranno sempre presenti nei suoi scritti e nelle sue opere che lo renderanno famoso in tutta la Sardegna. Berchiddeddu – Anela, quindi, intese come “dimensioni” metaforiche e reali .Di una cultura sarda non destinata ad essere compressa ma trasmessa. A partire da Anela. Perché, nonostante fosse diventato, per ministero sacerdotale e produzione letteraria, un personaggio “gallurese”,don Ruju era profondamente anelese e goceanino. “A sas raighinas”. Alle  radici. Che affondano nel terreno fertile dell’ Alta Valle del Tirso. Terreno fecondo e ricco di contrasti e contraddizioni. Cui don Ruju ha saputo sapientemente “attingere”.  Fin da Anela, dove egli era nato il 26 maggio 1924, figlio di Giuseppe e Filomena Arras. Ultimo di cinque figli. Un parentado, da parte paterna, quella dei Ruju, trapiantato nel piccolo centro goceanino fin dalla prima metà del XIX secolo, da quel Salvatore Pasquale Ruju di Siniscola che, stando agli atti matrimoniali dell’ Archivio Parrocchiale di Anela, il 10 Aprile 1852, si unisce in matrimonio con Marianna Fois Moro di Anela, figlia dell’allora vivente Niccolo’ e della fu’ Giovanna Restituta Moro. Come, poi, scriveva il sacerdote teologo Salvatore Noli Murru di Bono,  ma parroco di Anela (altra figura di pastore da riscoprire), a testimoniare questa unione, primo nucleo della famiglia Ruju ad Anela, saranno Antonio Gavino Mulas (figlio dell’ allora  vivente Francesco Maria e della fu’ Luigia (Aloisia) Bissiri Manca di Bultei) e Pietro Satta (figlio del fu’ Gabriele e dell’ allora vivente Michela Arras Molinu, entrambi di Anela). Don Giuseppe Ruju, quindi, consapevole delle proprie radici ed origini, cresce e si forma, inizialmente, religiosamente e culturalmente in quel microcosmo di Anela. Un paese che, come tutti, in Italia ed in Sardegna, era appena uscito dal dramma del conflitto mondiale e delle sue conseguenze, difficili anche per il centro goceanino. Ripiombato nella crisi economica degli anni Venti.  Dal punto di vista sociale, poi, la grande questione migratoria non aveva cessato di venir mai meno. Ed era ripresa, decisamente, già con il termine del conflitto. Dal punto di vista religioso, la comunità parrocchiale, dopo la ultracinquantennale guida di don Sebastiano Virdis Ena di Bono (1855- 1920), “su rettore mannu”, si accingeva a conoscere l’altrettanto fondamentale guida pastorale di don Raffaele Cinellu, “nonnu rettore”, figura decisiva per le generazioni degli anelesi degli anni venti trenta e quaranta. Sarà lui a seguire, paternamente, la prima vocazione e maturazione sacerdotale di don Ruju. 

Dopo aver frequentato le scuole medie ad Ozieri e le superiori nel Seminario di Cuglieri, il giovane “Peppineddhu” verrà ordinato sacerdote da monsignor Cogoni, divenendo, in ordine di tempo, il terzo sacerdote, in età moderna, dato da Anela. Dopo don Gavino Antonio Lisai, figura di coadiutore parrocchiale attiva fra XVIII e XIX secolo e monsignor Antonio Michele Mele Virdis (Anela, 1878 – Napoli, 1960), di cui quest’ anno, nel silenzio generale (ma non nostro), ricorrevano i centovent’anni dell’ordinazione presbiterale, avvenuta il 26 settembre 1904 nella cattedrale di Ozieri. Don Ruju, dal canto suo, dopo l’ordinazione sacerdotale,si troverà ad operare prima a Bono come viceparroco, poi a Pattada, quindi a Berchidda, a coadiuvare Pietro Casu (1878- 1954). Sarà, infatti, la vicinanza del grande presbitero, scrittore e filologo berchiddese a segnare decisamente e profondamente l’animo e la propensione del presbitero anelese verso la tutela e la valorizzazione della lingua e della cultura sarda. Tutti aspetti che potrà maggiormente curare ed approfondire quando, dal 1965 al 2007, fino alla pensione, sarà, appunto, chiamato a reggere la citata comunità parrocchiale della “Beata Vergine Maria Immacolata” di Berchiddeddu, segnandone profondamente ogni aspetto civile, culturale e religioso. Rimase nella frazione olbiese, con la sorella Giovanna, fino al 2009.  Poi verrà accolto in una RSA di Olbia ed, infine, in un’altra struttura di Monti, dove morirà il 20 agosto 2011, all’ età di 82 anni. La sua salma riposa nell”apposita tomba di famiglia del cimitero di Anela.  Per sua volontà ed a testimonianza che le radici sono importanti. Anche per un uomo di Dio come lui. Perché in don Ruju, prolifico autore, poeta e scrittore, soprattutto fra il 1981 ed il 2004, di ben diciassette opere e di innumerevoli componimenti poetici d’occasione pubblicati su “Nuova Sardegna” e “Voce del Logudoro”, “vangelo e poesia, religiosità e conoscenza”, come ha acutamente scritto monsignor Tonino Cabizzosu nell’ opera “Giuseppe Ruju, un parroco scrittore per l’identità sarda” (2012), facilmente si completano e si compenetrano. Sono, queste , tutte opere da ricordare. Perché fanno parte della nostra identità. Si và dalla grande tematica della tutela e valorizzazione della lingua sarda, ai libri- racconto ispirati all’ ambiente anelese dell’infanzia, senza, ovviamente, tralasciare la tematica religiosa. A partire, appunto, dal 1981. Da quel propedeutico e fondamentale “Pietro Casu tra Grazia Deledda e Max Leopold Wagner” (Edizioni Della Torre, 1981). Per seguire con “Comente si narat” (Edizioni Della Torre, 1987) . E chiudere la “trilogia” sulla linguistica sarda con “Parlare Sardo” (Edizioni Della Torre, 1989).  Ed è in questo senso che ritornano, emblematiche e suggestive, le parole scritte nella prefazione a quest’ ultima opera, da Manlio Briaglia. “Si tratta”- arguisce l’indimenticato storico contemporaneo sassarese- “di un lungo viaggio attraverso la lingua sarda, che a Ruju appare come un enorme continente sostanzialmente inesplorato”. In effetti, l’attenzione del sacerdote scrittore, se si procede ad un’attenta disamina delle sue prime tre opere, più che su singole parole, si concentra sui luoghi della lingua in cui meglio sembra apparire quell’ anima del popolo che la parla. Anzi, del popolo che, attraverso i tempi, l’ha inventata, “con un lavoro quotidiano di spostamenti, dislocazioni, metaforizzazioni ed improvvise ironie per cui le parole escono dal loro alveo più conosciuto e frequentato e straripano nell’ uso, rinnovandosi continuamente” (cfr. M. Brigaglia).

Nel 1991 sarà la volta de “Il Falò di Sant’ Antonio”, uscito sempre per le Edizioni Della Torre. Dieci racconti che aggiungevano nuovi elementi al ritratto della civiltà sarda. Una ricostruzione “senza trucchi”, dove ogni dettaglio appare rivissuto con la “pietas” di un figlio. Seguirà, nel 1992, “Qualcosa di nuovo”, ancora per Della Torre.  Un volume in cui il prete di Anela raccoglie sette scritti teatrali non in lingua sarda, dialetto logudorese, di cui si era dimostrato, con la “trilogia” precedente, attento conoscitore e studioso, “sulle orme” della guida di Pietro Casu, ma in italiano. Questa scelta non ne sminuisce affatto la valenza. Anche perché riporta il suo teatro in un mondo fortemente “minorizzato”, che si colloca fra la piccola e la piccolissima borghesia urbana ed un proletariato rurale che stenta ad imporsi nel mondo della burocrazia e delle leggi, siano quelle dello Stato che quelle della religione e della Chiesa. La verve e passione teatrale si concretizzano, poi, in quella che, forse, è la più importante opera religiosa di don Ruju, “Sa Passione de Gesus”, scritta questa volta in lingua sarda. Perché, da sacerdote ed uomo di fede, attinge “alle radici” del Cristianesimo, che sono, come da tradizione, i racconti della Passione di Cristo, primo nucleo scritto e tramandato della nostra fede. In questo caso il parroco- scrittore usa la lingua sarda, “

per entrare nell’ animo” profondo di un popolo. E fa un egregio lavoro di “ricerca”, cimentandosi in una sorta di gara poetica a distanza con centinaia di aedi che l’hanno preceduto nel racconto e nella rappresentazione della vicenda che ha al centro proprio la Passione. L’opera è stata edita nel 1992, sempre per la “fedelissima” casa editrice Della Torre. E per ben due anni (1992 e 1993) ha avuto, proprio in occasione della Settimana Santa, l’onore di essere stata rappresentata dagli attori dell’allora storica e famosa Compagnia Teatrale Anelese ad Olbia, su apposita richiesta dello stesso don Ruju. Il 1994, invece, vedrà alla luce ben tre opere.  Due su Pietro Casu ed una avente come titolo una storia dolorosa realmente accaduta ad Anela e che, da ormai ottant’anni, ne segna il vissuto civile e religioso: il drammatico incendio della foresta demaniale del luglio 1945. Le prime due opere, aventi ad oggetto, il grande sacerdote letterato berchiddese, sono l’edizione commentata di due suoi poemetti, “Su resuscitadu” e “Sa cantada de sa cuba”, seguite da “Lettere in versi di Pietro Casu”. Tutte libri pubblicati sempre per la casa editrice identitaria cagliaritana. Con “L’incendio della foresta demaniale”, edito ancora con le stampe di Della Torre, invece, si ritorna al microcosmo sociale ed economico della Sardegna pastorale. Il titolo è, sì, ispirato al racconto drammatico dell’incendio demaniale di Anela

del ’45. La prima grande strage civile successa in Sardegna dalla fine del secondo conflitto mondiale, con sette morti, tutti anelesi e volontari guarda fuochi. Un racconto che, però, è solo una parte di altre cinque lunghe storie, che hanno come sfondo la Sardegna tradizionale ad economia pastorale e contadina che don Ruju ha intensamente frequentato fin dalla sua infanzia goceanina. Altro anno di prolifica produzione letteraria è il 1995. Escono altre tre opere, tutte edite ancora per Della Torre.  Sul filone della valorizzazione di Pietro Casu, innanzitutto, abbiamo “Versos de Sardigna”. Opera in cui trovano la loro giusta collocazione, sotto la curatela del sacerdote anelese, sonetto, ballata, epica religiosa, assieme a forme burlesche, comiche, satiriche, fiabesche con le farse, le commedie e le poesie d’amore scritte da Pietro Casu. Con “Cantones in limba”, riedita anche nel 1997, si “ritorna”, almeno in parte nella problematica linguistica del sardo. Con, questa volta, delle sfumature differenti. Emergono tre speciali “vocazioni” di don Ruju: quella alla poesia, l’attenzione alla conservazione della lingua sarda e la ramificata rete di legami e di amicizie vissute da lui come virtù quotidiana e duratura. Nell’ “Uomo del mulino ad acqua”, si ritorna alla “metafisica del villaggio”. A quei racconti in cui riemerge quel “realismo paesano”, ove la civiltà sarda è ritratta senza infingimenti o mitizzazioni del caso. Nel 1997 è la volta di “Boghes de iddhas”. Ancora per “Della Torre” una raccolta di versi sardo- logudoresi, ispirata dalle situazioni della vita quotidiana, aperta anche a delle critiche e severe considerazioni in merito ai costumi della società isolana. 

Nel 1998, ancora con le stampe di “Della Torre”, l’ “ars” letteraria di don Ruju trova il suo punto di massima espressione nel romanzo “Omines de ammentare”, scritto in lingua sarda, dialetto logudorese, con traduzione italiana a fronte. Il 2004, infine, è l’anno dell’ultima opera di don Ruju, “Cantones noas”, sulla falsariga delle precedenti “Cantones in limba”  e “Boghes de iddhas”. Una sorta di cento componimenti che hanno ben rappresentato l’alacrità senza soste del sacerdote anelese. L’attività poetica di don Ruju, proprio per questo, segue gli eventi del “piccolo mondo antico” che gli sta’ intorno. Li segue da vicino e quotidianamente.

“Piccolo mondo antico” che era quello di Anela, cui don “Peppineddhu” continuava ad “attingere”, innervato ed innestato nella sua cultura. Perché nessuno lo ha rilevato, ma l’ultima, vera apparizione di don Ruju in una conferenza pubblica, in sardo, è stata proprio ad Anela, nel 2005. In una data particolare. Il 26 Settembre, giorno del Vespro patronale in onore dei Ss. Cosma e Damiano (festa cui non mancava mai di presenziare). In un luogo preciso: la biblioteca comunale di Piazza S’Olina. In una manifestazione allora unica in Sardegna, fortemente voluta da quell’ attiva amministrazione comunale, guidata dal dott. Giovanni Flore, di cui il sottoscritto si è onorato averne fatto parte. E l’organizzazione dell’evento, proposto dal sottoscritto e patrocinato dal comune, aveva per tema “Sa Mustra de libros sardos”. Libri sardi scritti in lingua sarda, in tutti i suoi dialetti e varianti. Esposti dal 26 al 29 settembre 2005, con la fattiva collaborazione de “S’Ufitziu de sa Limba Sarda” della Provincia di Nuoro, diretto dall’ allora direttore Diegu Corraine. Un momento particolarmente solenne, bello e partecipato, in cui don Ruju, invitato dal sottoscritto e dall’ allora sindaco Giovanni Flore, è intervenuto con passione, esponendo la sua visione di sacerdote, linguista e scrittore sul futuro della lingua sarda. Un “cerchio”, quindi, quello di don Ruju che, iniziato culturalmente anche ad Anela, per via della sua formazione, ad Anela ha avuto la sua degna conclusione. A rimarcare l’impegno fattivo e sincero di un uomo che non amava fare da spettatore. Ma voleva prendere parte a tutti i mutamenti riguardanti la sua terra. Da protagonista, al servizio degli altri. Quale egli effettivamente è stato.

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Un commento

  1. Nicola Fressura

    Eccellente profilo biografico, intellettuale e sacerdotale che sicuramente ho conosciuto quando era viceparroco a Bono e che, da chierichetto, ho servito nelle cerimonie liturgiche. Grazie di cuore di avermelo fatto conoscere come filologo, linguista e scrittore.

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