UN CRONISTA DI UNA SARDEGNA D’ALTRI TEMPI: GIACOMO MAMELI OSPITE A MILANO DEL CIRCOLO DEGLI EMIGRATI SARDI

da sinistra: Giovanni Cervo, Giorgio Pisano e Giacomo Mameli

Sfogliando i libri che Giacomo Mameli ha scritto nella sua lunga carriera di “cronista” si viene presi da una sorta di malia, pagina dopo pagina ti si squaderna dinanzi una Sardegna d’altri tempi, paesi per lo più poverissimi privi di acqua corrente e di servizi igienici, di elettricità e quindi di qualsivoglia lampione, la luna quando c’è e le stelle a grappoli sulla via lattea a rompere un buio che più pesto non si può. Terribile, verrebbe da dire, ma come avranno fatto a sopravvivere tutti, a mettere in tavola la sera una minestrina di capelli d’angelo e di “casu ascedu”, qualche pomodoro dell’orto, di un gusto che noi ce lo possiamo solo sognare. A riscaldare le case il fuoco del caminetto che spruzza di nerofumo le pareti della cucina e si insinua sin nella “camera da letto”, una sorta di sgabuzzino privo di finestre dove sono stese sul pavimento un paio di vecchie stuoie, i letti solo nelle “case dei signori”. Siamo a Perdasdefogu, Foghesu per la gente del paese, e lo sguardo pietoso e sorpreso che si ferma sulle cose del posto è quello della mamma di Giacomo che, anno 1939, diciassettesimo dell’era fascista, lei venticinquenne, è inviata, insieme a altre 22, nella nostra isola in qualità di ostetrica (dopo il diploma all’Università di Bologna): Ida Modestina Raffaella Naldini, di origini tosco-campane, con la sua venuta determina da subito una rivoluzione epocale: in paese il consumo di sapone subisce un’impennata impensabile che, dice lei alle prime donne incinte a cui presta la sua opera, non serva solo a lavarsi la faccia. Che poi il primo marito a cui chiede assistenza e un catino per il parto se ne venga con un gattino in braccio, la dice lunga sulla possibilità degli equivoci che si generano tra parlanti lingue diverse: sardo e italiano. Ad assistere il suo primo parto comunque anche la capra Muduledda, un’altra componente la famiglia, nascerà una bimba, “una pippia”. E’ al circolo sardo di Milano Giacomo e Giorgio Pisano (anche lui da poco scrive libri) a cui è dato l’onere di presentarlo lo dice “giornalista di qualità, all’Unione sarda che allora era un bel giornale”. Per questa qualità di scrittura sulle cose “vecchie” di Sardegna: “una specie di bronzetto nuragico vivente”, e per quanto si riferisce al libro di cui dicevo prima: “Hotel Nord America” edito da “Il Maestrale”: “sono rimasto stupefatto, me lo sono bevuto, una specie di epopea, quasi un presepe vivente, con tutti quei personaggi ben delineati, accennati a pennello come in quei quadri di Bruegel dove si accalcano a decine, ognuno con la sua storia, quella del banditore importante come quella del medico e del prete, una scrittura asciutta, non retorica, così, davvero, sanno scrivere in pochi. Tutto vero anche se Giacomo, al solito si schernisce e dice di “fare una grande tara sulla presentazione di Pisano”, che lui “è solo un cronista che scrive articoli lunghi” i cui protagonisti sono quei 1742 abitanti di Foghesu, suoi compaesani di cui otto ultracentenari. Un paese in cui da quindici anni si svolge un festival letterario che lui dirige (SetteSere Sette piazze Sette libri) e che vanta località che si chiamano “Cento anni di solitudine”, come il capolavoro di Marquez, la piazza davanti al cimitero, ma c’è anche quella “Bellas Mariposas”, dal delizioso libro di Sergio Atzeni (gli Atzeni di Guspini) e quando ne hanno intitolata una al “Giorno del giudizio” di salvatore Satta si è scomodato persino il sindaco di Nuoro. Altri angoli si chiamano “Canne al vento” e “Baroni in laguna”, la storia dei pescatori di Cabras narrata da Peppino Fiori. Io, dice Mameli, “scrivo per conto terzi”, per “Le ragazze son partite”, mi dicevano: perché non scrivi di noi che abbiamo sacrificato la vita per andare a Roma a fare le serve, e con i soldi che abbiamo mandato a casa si sono potuti fare il bagno nelle case? Ho scritto con il loro linguaggio: “…Cari babbo e mamma e fratelli e sorelle. Ieri i padroni mi hanno portato a macchina a Ostia. Loro dovevano fare il bagno. Io avevo la gonna lunga e sono rimasta seduta in macchina tre ore. Il sole era forte e sudavo. Gente ne ho vista molta, tutti nudi. Io mi crepavo dal caldo, ogni tanto andavo a una fontanella a bere perché l’acqua scendeva fissa e gratis, ma era calda. E penso che per me, a Foghesu, l’acqua era la fonte o la sorgente di Abba Frida sotto un grande monte di calcare o quella di Luesu, la valle delle cascate col capelvenere. (pag.53: “Le ragazze son partite).

Giacomo Mameli è un istrione capace di stregare la platea con la sua narrazione ricca di episodi in agrodolce, come lo è la sua scrittura del resto: all’anagrafe si dice Mameli Antonio Giacomo, industrialista non pentito, e sessantottino non pentito, un uomo fortunato: a presentare il suo “La ghianda e la ciliegia” sul lago d’Iseo c’era Paolo Fresu che suonava la sua magica tromba. Nel ‘51 l’esame di ammissione dai salesiani di Lanusei, per arrivarci da Perdasdefogu a Ulassai a cavallo mi sveglia mamma alle tre e mezzo del mattino perché devo fare il bagno. La prima volta in vita mia che indosso un paio di mutande, tanto che quando mi è presa la voglia mi sono tolto solo i pantaloni e mi sono fatto la cacca addosso. Ai tempi della “discesa di mamma” in Sardegna su 1000 nati ne morivano 98, peggio di noi c’era allora solo il Veneto, lì i bimbi morti per mille abitanti erano 118. Non che mamma abbia potuto scegliere la sua destinazione dopo il diploma, una busta del Prefetto con dentro un biglietto del treno Bologna-Roma- Civitavecchia-Olbia -Nuoro. All’arrivo due camionette di sei carabinieri per scortarle in paese. In quell’hotel Nord America in cui abitualmente alloggiavano le nuove prostitute, da qui la necessità di abbassare i bollenti spiriti dei ragazzi che volevano entrare a tutti i costi nell’ ”hotel” e la provvidenziale barriera dell’Arma. Si ricorda ancora il nome del suo primo maestro di scuola Giacomo, la prima elementare nel’41 con Bruno Mura, di Dorgali, sempre inappuntabilmente vestito, uno che in classe pretendeva entrassero per prima le bambine. E con quello di terza elementare, Mario Carta, si ricorda ancora le lunghe passeggiate in campagna, dove ha imparato a memoria ogni nome di pianta incontrata, in sardo e latino. E la scuola di giornalismo ad Urbino, poi quella di Sociologia. A Urbino, racconta, mi facevano scrivere un articolo ogni giorno: vai dal venditore di galline, mi dicevano. Poi al pronto soccorso, in un’ora un articolo e una breve di cronaca. Non c’erano ambulanze e gli infermieri facevano la settimana enigmistica. Scrivere sempre qualcosa di sensato era un’impresa. Ma quella scuola gli è servita per diventare giornalista di fama e ora anche scrittore di fama, di lui in archivio si possono leggere le sue interviste a Gorbaciov e Arafat e ancora conserva nel portafoglio la tessera dell’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina). Negli anni novanta anche l’esperienza come addetto stampa del ministro degli esteri, l’allora socialista Gianni de Michelis. In quegli anni, dice a Marcello Atzeni di “LinkOristano”, ho conosciuto il mondo. Ho pranzato insieme a Bush. In un’altra occasione in Cambogia, sono stato ospite di Sihanouk che di quella nazione è stato il re per moltissimi anni. Quando papa Wojtyla venne in Sardegna, io ero tra quelli presenti, nella miniera di Monteponi. Eppure sempre i suoi ricordi più vivi sono per Foghesu, per tutte le figure che vi ha incontrato, per le loro idiosincrasie anche: “Mia nonna Massimina, racconta, si risposa con un allevatore di Arzana. Sempre elegantissimo. Ogni mattina nonno Ponziano usciva alle quattro con in mano un ombrello di tela verde, di quelli che i pastori usavano portarsi dietro per ripararsi da qualsiasi precipitazione. Dall’alto di una collina scorge un camion che già aveva visto venire da Lanusei, e che velocemente si muove verso il punto in cui è lui. E’ il progresso pensa…ma il camion gli schizza di fango i gambali lustri di grasso che si fa lucidare ogni sera dalla moglie: “Malaittu su progressu!” è il commento che ne segue. Questi foghesini ne combinano di belle! Come la distruzione della chiesa del ‘600 fatta dal parroco col piccone. E il fonte battesimale ligneo che venne sciaguratamente bruciato. Ai tempi ti sentivi dire dal dischetto del calzolaio: “Paga a soldi o a grano?”. E per il barbiere che faceva barba e capelli a babbo e i capelli a noi tre fratelli occorrevano due starelli di grano all’anno. E’ un fiume in piena di ricordi Giacomo, e ha davvero una memoria di ferro, ricorda fatti e persone col loro nome e soprannome, sin gli zingari che vennero “deportati” nel ‘44 ancora in pieno fascismo anche se declinante. Non poteva essere un vero “campo di concentramento” Foghesu, non c’era filo spinato. I poveretti erano ospitati nelle case un po’ da tutti. E quando mamma Ida venne fermata quella volta da due della milizia che le chiedevano conto di dove andasse a quell’ora di notte, nel “quartiere degli zingari”, rispose con molta semplicità che andava ad assistere una donna che doveva partorire, una donna non una zingara. E quel 1956 che vide l’arrivo del Poligono militare, dirigeva allora uno scozzese che, dice Giacomo, era simpaticissimo. Il poligono porta gente da fuori. Porta soldi. All’inizio i missili che scoppiavano in volo erano recuperati col carro a buoi. Il paese cambia, finalmente si potevano sentire le radioline nelle case, non solo nella caserma dei carabinieri. Dove, se vi si recavano le ragazze non accompagnate la sera, subivano la critica feroce di tutto il paese. E’ paradigma del mondo intero “Foghesu”, per Giacomo Mameli, e non credete che lui sia “solo” un cronista, i suoi libri sono uno più bello dell’altro, sconfinato è sempre sottofondo il suo amore per la Sardegna della sua fanciullezza.

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Un commento

  1. Michela Solinas

    Tanti auguri di buon Natale e felice Anno nuovo dal circolo “Coghinas” di Bodio

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