CONOSCERE OTTAVIO OLITA: AL CIRCOLO SARDO DI MILANO, INTENSO VIAGGIO INTORNO ALLA DIMENSIONE DELLO SCRITTORE

Ottavio Olita

Ha mantenuto il suo accento cagliaritano Ottavio Olita, e come poteva essere diversamente visto che lì si è dapprima laureato (massimo dei voti) e ci ha poi insegnato lingua e letteratura francese nell’istituto di lingue della facoltà di Magistero, prima di diventare giornalista di carta stampata (La “Nuova” di Sassari), poi all’agenzia Ansa e in seguito alla RAI (Novantesimo minuto, Ambiente Italia, Tg l’una), per il Tg2 anche inviato a Mosca. Quella che si può ben definire una carriera di successo, che ha continuato mettendosi a scrivere storie, dapprima saggistica e in seguito veri e propri romanzi.

Uno in particolare (Il futuro sospeso) spiega bene il perché si autodefinisca sardo a tutti gli effetti, lui che proviene da una famiglia della Basilicata “emigrata in Sardegna” durante il ventennio fascista. Sardegna allora che dire povera è un eufemismo ma, chi l’avrebbe mai detto, ricca di rapporti sociali paritari, quelli che permettevano ad esempio al servo pastore di sedersi al desco col padrone del gregge, e con lui consumare il medesimo pasto di pane e formaggio, pane e salsiccia, qualche oliva e un frutto rubato salendo per il monte, a sciacquarsi la bocca una sorsata di vino acetato dalla zucca facente funzione di borraccia.

E le donne poi, quelle che restavano in paese a tirare su i figli e a mettere le pezze al culo del più piccolo ritagliando i pantaloni più lisi dei fratelli più grandi, di tutto si occupavano in attesa che babbo tornasse, magari dopo mesi di transumanza. Gestivano i pochi denari, barattavano formaggio per zucchero, e si occupavano dei rapporti con le “autorità”, maestri, sacerdoti, messi comunali. Il babbo di Ottavio ne rimase talmente colpito che, lui che aveva tentato dapprima l’emigrazione americana (scartato al porto di Genova perché “non sufficientemente sano”) e aveva dovuto ripiegare per un’”emigrazione sarda”, nel ‘35 fece venire sull’isola tutta la famiglia, a seguirlo nelle sue peregrinazioni di palista (piantava pali della luce): la Sardegna si stava finalmente elettrificando, seguendo la direttrice nord-sud: quindi prima casa a Sindia, dopo a Bonorva, poi a Barumini e infine a Monserrato. Nacquero nel frattempo cinque o sei fratelli, Ottavio giocoforza è l’ottavo.

E fu mamma Pietrina a subire la vera fascinazione del “vivere alla sarda” che non l’avrebbe più lasciata per il resto della sua vita, lei che veniva da una Lucania altrettanto miserabile, ma allora una terra di rapporti sociali improntati al maschilismo più bieco, con una storia familiare che l’aveva vista bambina subire le angherie della matrigna. E dove tra servi e padroni c’era un abisso. Arrivata in Sardegna le si dovette accostare una servetta che le facesse da interprete visto che proprio tutti allora parlavano in sardo, e questa Maria Giuseppa mai l’ebbe a dimenticare, divenne una di famiglia.

Comunque sia, scacciati e impauriti dai bombardamenti alleati su Cagliari nel’43, se ne scapparono di nuovo in continente, anche se Pietrina proprio non ne voleva sapere. Credo che finissero in Calabria, dove Ottavio è nato, e lì vissero per ben 20 anni. Nel ‘63 quando babbo morì, Pietrina resistette ancora sei anni ma poi prese figli e masserizie e se ne tornò nell’adorata Sardegna, la sua “terra di libertà”.

Riuscendo anche a convincere le sorelle di Ottavio, che nell’isola avrebbero trovato un ambiente totalmente diverso da quello calabrese, che le voleva relegate in una vita di sottomissione che neanche i successi scolastici avrebbero potuto mutare granché. E quindi tutta la famiglia divenne sarda per scelta, Ottavio più di tutti. I suoi primi saggi sono tutti per l’isola: “Gutturu Mannu” dell’89, “Villasimius” del ‘90, “Sardegna in fiamme, prospettiva il deserto?” del ‘91, “Vite devastate, il caso Manuella” del  ‘95. “ San Sperate, all’origine del muralismo” è del 2007. E poi vennero i romanzi.

Qui a Milano, circolo sardo, porta il suo ultimo: “Il rifugio dell’assassino”, gliene chiede conto Paolo Moreschi. E i due dialogano a tutto campo visto che, al solito, nessuno dei presenti ha avuto modo di leggere l’opera e quindi di essa poco si può dire in verità, se non che è ambientata a Villacidro e che i fatti narrati si basano su di una storia vera, tempo del narrare: fine dell’ottocento. Una storia di tre fratelli, due dei quali perfettamente inseriti nella storia del paese, e un terzo che si perde tra la lettura di libri che lo illudono di essere “speciale”, diverso.

Come poi durante la festa di Sant’Antonio, facendo gli occhi dolci a una ragazza, e per questo preso in giro dal solito gruppo di giovani un poco bevuti, torni a casa a prendere una “leppa” e la infissi nel costato di uno di loro, uccidendolo, lo faccia ripiombare nella categoria più umana del latitante, è tutto da leggere. “C’è un contrasto tra sacro e profano, tra una presunta cultura alta e una bassa. E l’aiuto dei fratelli e della famiglia tutta lo aiutano finalmente ad aprire gli occhi su di una realtà che prima tendeva a rifiutare”. Paolo Moreschi da buon genovese vi intravede tratti comuni con le problematiche che Fabrizio De André trattava nelle sue canzoni. “E quanto è importante la musica per uno scrittore come te? “Io non scrivo se non ascolto musica, se racconto scene d’intimità la musica deve essere tranquilla, come la scena si fa più violenta è il rock che mi accompagna, ma il massimo per me è Maria Callas, ma anche Edith Piaf e Billy Holliday che mi consentono di spaziare con la fantasia, mi danno il ritmo della narrazione.

Le sento più e più volte, alcuni brani non mi stancano mai. Per tornare a De André, lui non si è fermato al sequestro che ha subito con Dori, anche se sapeva benissimo che il basista della banda dei sequestratori veniva dalla zona di Tempio, dove lui aveva la tenuta agricola dell’Agnata. Lui però riesce ad andare oltre quell’esperienza tremenda, e a mutare in canzoni i luoghi e le persone del posto, anche se qualcuno di loro l’aveva di certo tradito.

O la scrittura è legata alla realtà oppure non è il caso neanche di parlarne. Ho lasciato il giornalismo 11 anni fa e l’adrenalina che sottende al mestiere mi mancava parecchio. Allora ho provato con la saggistica, ma non potevo andare al di là dell’interpretazione dei documenti. In questo libro sono descritti molti luoghi dell’entroterra sarda, le piante e gli odori la fanno da padroni. Come le notti stellate quando la luna è ancora una falce in divenire. E non è un caso che dove vivo tutt’ora, nella costa che da Cagliari va a Villasimius, la spiaggia che preferisco sia rivolta ad occidente e si chiami “Torre delle stelle”. Un posto favoloso che agisce da accrescimento interiore e mi fa superare la fatica dello scrivere.

Adesso che stiamo assistendo a guerre che fanno fare un salto all’indietro all’umanità, io coi miei libri mi prefiggo di essere mediatore tra negatività e positività. All’Ansa dove ho iniziato nel 1980 dovevo fare il “giro dei carabinieri” e per quattro anni non ho fatto altro che occuparmi di “nera”. Poi 26 anni in Rai. Ma io a chi scrivo? A quelli che si beano delle disgrazie altrui? Io sono un mediatore di positività. Mi rifiuto di fare il menagramo. Del resto a che serve studiare se continuiamo a far guerre…in questi nostri tempi gli intellettuali dovrebbero fare i cani da guardia del potere, e non di compagnia.

Lasciatemi dire che quando ancora non c’era la televisione era tutta un’altra storia, è l’elemento corruttivo per antonomasia dei nostri tempi. Nel libro c’è tutto un rapporto tra nonna e nipote in cui viene esaltata la saggezza dell’anziana. Sono le nonne che salveranno il mondo. Io tendo a non sovrapporre il mio pensiero a quello che vado raccontando e mi accorgo di quanto sia fortunato ad abbandonarmi alla scrittura che mi permette di riflettere e mettere per iscritto pensieri profondi. Di solito scrivo una pagina, mi fermo a rileggerla e poi vado avanti. I personaggi arrivano in modo autonomo e mi meravigliano per il loro sviluppo nella storia. Lo scheletro del libro c’è da subito, ma va arricchito.

Una strada intermedia tra il mio solido punto di riferimento, da cui non defletto, e quello che vado a far succedere, pronto a smontarlo punto per punto. Anche se talvolta rischio di perdere qualche personaggio. Alla fine quello che scrivo è quasi una sceneggiatura, senza dimenticare che debbo incuriosire il lettore. I miei libri si leggono velocemente, i capitoli sono brevi. La struttura e la creatività lavorano assieme. Non posso correre il rischio di annoiare, scrivendo. Uso le parole che sento per strada, magari una sola mi fa scrivere una pagina. Si può dire che alla fine il libro si fa da solo”.

Nonostante i numerosi libri che si è lasciato alle spalle ( Il costo della verità, Anime rubate, La sposa del colonnello, Codice Libellula, la verità negata) Ottavio Olita è rimasto il giornalista di sempre, scrive tuttora assieme a quelli di Articolo 21 (quello che nella nostra Costituzione sancisce il principio della libertà di manifestazione del pensiero) in rete si possono leggere i suoi numerosi interventi, uno su tutti, quello che riguarda: “L’espansione del monopolio Zuncheddu e la sua campagna di disinformazione”.

Il tentativo di spostare a Cagliari la stampa della “Nuova” e, così facendo, allineare la linea politica del giornale a quella dell’”Unione”, sopprimendo di fatto ogni possibilità di voce diversa da quella “padronale”, c’era riuscito solo Rovelli al tempo della SIR. Tempi davvero bui questi per la libertà di stampa e di opinione nell’isola di Sardegna. 

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Un commento

  1. Carissimo Massimiliano, solo oggi mi è stato segnalato il pezzo che hai voluto dedicarmi su Tottus in Pari. Bello, accurato, quasi affettuoso. Grazie grazie grazie a te e all’Autore

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