DUE LINEE TEMPORALI, UN UNICO DESTINO: L’INTRECCIO NARRATIVO DI “LA BAMBINA DEL VETRO” NELL’INTERVISTA CON L’AUTRICE, ELISA PILIA

Elisa Pilia

Mi sono imbattuta sull’intreccio narrativo e sull’uso del simbolo, trovando particolarmente interessante il romanzo di una giovane autrice sarda, Elisa Pilia che con “La bambina del vetro”, ci immerge in una storia potente e commovente, costruita su due linee temporali che si intersecano come i raggi di un caleidoscopio. Un’opera di rara intensità, dove il tempo si muove all’interno di due binari paralleli e si intreccia in un affascinante mosaico di ricordi e rivelazioni. Elisa con maestria, conduce il lettore in un viaggio emozionante attraverso il passato e il presente, intrecciando le vicende di Étienne, bambino e poi adulto, e della misteriosa Aili, una bambina ebrea affetta da afasia. Il cuore pulsante, anche per me affascinante del romanzo, è l’uso del vetro come simbolo della comunicazione, del ricordo e della fragilità dell’esistenza. Non da meno le evoluzioni dei suoi personaggi, sul tema della memoria del passato, sull’aspetto storico e sull’importanza della narrazione. Avevo molteplici curiosità che sono riuscita a far emergere con il nostro scambio.

Il tuo romanzo “La bambina del vetro” è un’opera molto toccante che ci trasporta in un periodo storico complesso. Potresti iniziare raccontandoci come è nata l’idea di scrivere questa storia? La maggior parte dei romanzi che scrivo hanno una lunga storia alle spalle e “La bambina del vetro” è una di queste. Sono entrata per la prima volta in contatto con la realtà dell’Olocausto quando frequentavo la quinta primaria: le insegnanti avevamo organizzato una rappresentazione che si concentrava sui più brutali genocidi avvenuti nella storia del nostro pianeta. Da quel momento la Shoah non mi ha più abbandonata. Nel corso degli anni ho avuto modo di approfondire questo tema complesso, ma mi ci sono davvero tuffata all’inizio dell’estate di tre anni fa. A ispirare questa storia sono stati dei brani che mi hanno trasportato in quella guerra passata permettendomi, per la prima volta, di visualizzare il protagonista di questo racconto: Étienne. Da quel momento in poi le mani hanno cominciato a volare sulla tastiera come se la storia fosse già completa dentro la mia testa e aspettasse solo di essere messa nero su bianco. Ricordo che, mentre scrivevo, alcuni fatti hanno guidato questo racconto. Tra questi voglio ricordare l’intervista a Edith Bruck, scrittrice, poetessa, traduttrice, regista e testimone della Shoah che, in occasione del Giorno della Memoria, ha raccontato qualcosa che mi ha toccata nel profondo. Disse che, una volta arrivata a Bergen-Belsen, si è trovata davanti un campo ricoperto di cadaveri e lì, davanti a quello sfacelo, due tra quelle centinaia di persone hanno usato i loro ultimi momenti per dirle di sopravvivere per raccontare quello che era accaduto. In quell’occasione Edith ha parlato di giovani e di quanto sperasse fossimo noi, ora che i testimoni di quel conflitto stanno mano a mano scomparendo, a raccontare per non dimenticare quello che è successo. Guardiamoci attorno, oggi più che mai si può affermare che l’uomo non ha imparato nulla da quell’assurdo genocidio e io, nel mio piccolo, ho voluto dare il mio contributo. Ecco cosa ha ispirato e guidato “La bambina del vetro”: scrivo di una guerra del 1940, ma la guerra è sempre guerra; anche se cambiano i popoli, le armi e le ragioni la violenza è sempre la stessa. Sono convinta che l’unica “arma” in grado di combatterla sia la consapevolezza, e i libri, lo sappiamo bene, in questo sono una fonte di infinita ricchezza.

Cosa ti ha spinto a scegliere come ambientazione gli anni dell’occupazione nazista? C’è un motivo particolare dietro questa scelta? Amo cimentarmi in realtà a me sconosciute, circostanze che in qualche modo e per qualche ragione mi hanno toccata nel profondo. Sono convinta che provare a calarsi nei panni di qualcun altro, anche molto distante da noi, ci permetta di sviluppare empatia portandoci a osservare e giudicare da prospettive che, forse, diversamente, non avremmo mai potuto sperimentare. Parlare di quel periodo storico e raccontare questa storia per me rappresentava un’importante sfida: scrivere di guerra senza averla vissuta, raccontare nella prospettiva di un maschio essendo io del sesso opposto e trovare lo spazio per la mia fantasia all’interno di fatti storici che non potevano essere modificati. Ad alimentare tutto questo c’è stata sicuramente la volontà di lasciare messaggi nascosti tra le righe: parliamo di anni in cui a moltissimi bambini è stata negata l’infanzia, gettati nelle fauci del mostro della guerra sono stati costretti a diventare grandi troppo presto. Coloro che sono arrivati vivi alla fine del conflitto, fossero essi bambini, donne, uomini o anziani, sono rimasti traumatizzati da una realtà che non hanno scelto di vivere. La guerra devasta tutto ciò che incontra: come fuoco non fa che bruciare lasciando dietro di sé polvere così fine da sembrare impalpabile e fumo che oscura l’aria rendendola irrespirabile. Parlare dell’occupazione nazista è per me un’occasione per raccontare di ingiustizia senza mai dimenticare l’umanità; infatti, anche laddove sembra esserci solo cenere, minuscoli germogli resistono come fanno i fiori sotto la neve. È quella la speranza a cui “La bambina del vetro” si vuole aggrappare, perché è solo con essa che si può vivere, cambiare e sognare.

Étienne è un personaggio centrale nella tua storia. Come lo hai immaginato? Quali sono le sue caratteristiche principali e come si evolve nel corso della narrazione? Étienne è il protagonista de “La bambina del vetro”, è il primo personaggio che si è presentato nella mia testa, colui che ha guidato l’intera narrazione; ma è molto più di questo. Vi stupirà, dopo aver letto il titolo di questo romanzo, che vi riporta subito a un personaggio femminile, trovarvi davanti un ragazzino dodicenne. La bambina del vetro si chiama Aili, lei è ebrea ed è affetta da afasia, ossia l’impossibilità di comunicare verbalmente; Étienne è la voce che le manca, è colui che, attraverso i suoi occhi, vi racconterà ciò che una bambina non può comunicare con le parole. Per descriverlo e permettervi di immaginarlo non posso che prendere le sue parole in prestito quando, all’inizio del romanzo, racconta di sé in quel lontano 1940: “Mi chiamavano Étienne il selvaggio, con i miei capelli color castagna disordinati sulla fronte, gli occhi troppo vispi della stessa tonalità delle foglie e le lentiggini che parevano solo puntini di sporcizia sulle guance.”

La sua evoluzione non può che seguire quella del conflitto, un bambino che passa dal giocare nei fiumi con barchette ricavate dai gusci di noce, dentro le foreste facendo battaglie all’ultima spada di legno, vede la sua infanzia stappata, cancellata dalla guerra. Da quel momento in poi ogni colore nella sua vita sparisce lasciando solo, immerso in un buio che non sembra avere vie d’uscita. Nella seconda linea temporale della narrazione, ambientata nel 1954, avrete modo di conoscere anche Étienne giovane adulto che, ormai ventiseienne, porta dentro di sé un disturbo post traumatico che solo la guerra può lasciare. Ormai perso in una vita che sembrava aver ceduto a un freddo monocromatico, in entrambe le realtà, accadrà qualcosa che permetterà al ragazzino e al giovane uomo di tornare a sperare. Étienne ha dato la parola a una bambina che non poteva comunicare, ma Aili, da parte sua, ha riportato i colori dentro un conflitto in cui lui sembrava affogare. Étienne rappresenta la volontà di lottare, di prendere posizione e di non voltarsi dall’altra parte davanti alla sofferenza. Ci insegna che cosa significa la parola coraggio, è testimonianza di determinazione, di umanità e di una meravigliosa empatia.

La bambina affetta da afasia è un personaggio molto particolare. Qual è stato il tuo approccio nella sua creazione? Come hai voluto rappresentare la sua condizione e come comunica con gli altri? Aili è stata ispirata da una bambina che ho avuto la fortuna di incontrare nel mio percorso di studentessa. Sono iscritta in Scienze della Formazione Primaria all’Università degli Studi di Cagliari e, nella nostra preparazione per diventare future insegnanti, ci vengono richieste delle ore di tirocinio nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria per prepararci anche a livello pratico oltre che teorico. Qualche anno fa ho incontrato una bambina con un disturbo d’ansia noto come mutismo selettivo, per chi non lo sapesse il disturbo implica una difficoltà nel comunicare solo in alcuni contesti specifici: a casa solitamente parlano tranquillamente, mentre a scuola o in altri ambienti non riescono a comunicare. Come dice il nome del disturbo stesso parliamo di una problematica legata all’ansa che si esplicita mediante la selettività nella comunicazione. Quando la conobbi ebbi modo di interfacciarmi con questa sua peculiarità ma, come solo i bambini sanno fare, aveva trovato i suoi modi per “parlare” davvero originali e fantasiosi. Nonostante il disturbo implichi una difficoltà evidente dimostrandosi davvero frustrante per chi lo sperimenta, e per questo necessario di supporto da parte del personale competente, mi ha meravigliato come si potessero trovare soluzioni alternative e di come queste, alle volte, potessero dare luogo a linguaggi ancora più profondi. Anche Aili, nel romanzo, ha utilizzato un modo tutto suo per farsi comprendere: il vetro e le sue innumerevoli sfumature. Per comprendere il significato di ogni singola tonalità, però, è necessario fermarsi ed ascoltare un linguaggio più intimo, senza parole, fatto di gesti e sguardi: quello del cuore. Con il personaggio di Aili parlo di diversità, più propriamente di persone interessate da disabilità; racconto di “mancanze”, di “deficit” e di quella che molti chiamano “anormalità” come di un’opportunità. Per vedere il mondo da un’altra prospettiva serve vivere ed entrare in contatto con realtà inedite sforzandoci di fare anche ciò che non abbiamo mai sperimentato prima.

Come hai gestito l’intreccio tra i due periodi storici? Quali sono i legami che collegano il giovane Étienne all’uomo di 26 anni? I due periodi storici distinti, uno situato all’inizio del conflitto e l’altro in una realtà post bellica, erano necessari per avere uno sguardo d’insieme. Entrambe le storie sono narrate dal protagonista ma con due prospettive e visioni diverse. Nella narrazione ambientata nella Francia del 1940 conoscerete un ragazzino che a soli dodici anni vivrà la guerra come un mostro che, in un attimo, ammazza il suo migliore amico, distrugge la sua scuola, smembra la città e cambia le persone; persino quelle a lui più vicine. Incontrerete un bambino che, coraggiosamente, rischierà la vita per aiutare chi, secondo il nemico, doveva scomparire nel nulla senza lasciare alcuna traccia. Nel 1954, invece, avrete modo di seguire le vicende dello stesso personaggio che, in balia del passato, non riesce a riprendere in mano la sua vita nonostante la guerra si sia ormai conclusa da tempo. Una mattina, mentre attende il mezzo pubblico che l’avrebbe condotto al lavoro, Étienne, scorge qualcosa nella sua cassetta delle lettere. Dentro c’è un vecchio diario allegato ad una lettera in cui un ex soldato tedesco gli rivela qualcosa che lo costringerà a rientrare in quel passato che aveva cercato disperatamente di dimenticare. In entrambi i fili temporali Étienne è costretto a fare un viaggio che, nel 1954, sarà un cammino alla ricerca di quella bambina del vetro di cui aveva perso le tracce nel caos della guerra. Il racconto e la ricerca si arricchiranno di più voci: oltre a quella del protagonista avrete modo di immergervi in due testimonianze femminili del conflitto, quella di Coraline e di Madeleine. Credo che ogni racconto abbia il suo valore e questo libro è un intrecciarsi di storie che cercano di ricostruire quella di una bambina che non la può raccontare a parole.

L’afasia è un tema centrale nel tuo romanzo. Cosa rappresenta per te questa condizione? Come hai voluto utilizzarla per arricchire la tua narrazione? L’afasia è per me un’opportunità di celebrare la ricchezza della diversità. Per rifarmi alla metafora del vetro che il libro persegue già dalle prime righe: ogni vetrata colorata è formata da innumerevoli tasselli, ognuno di loro è stato rotto, modellato e riassemblato in una struttura completamente diversa; senza questa varietà di sfumature non sarebbe possibile così tanta bellezza. Spesso è nel perderci e nel romperci che troviamo noi stessi e stringiamo rapporti inediti; umanità è accogliere le nostre peculiarità e comprendere quelle degli altri. Troppo spesso tutto ciò che non rientra nella “norma” viene giudicato senza nemmeno sforzarsi di comprenderlo. È più semplice cercare ciò che ci assomiglia e allontanarci da ciò che sembra essere lontano da noi; il nuovo spaventa. Ma è altrettanto vero che le novità e la scoperta sono una delle motivazioni più grandi che, da sempre, permettono il progredire del genere umano. L’afasia è solo una delle condizioni che le persone possono sperimentare durante la loro esistenza, queste si rivelano debilitanti tanto più noi le giudichiamo come tali. Una delle barriere più grandi per le persone interessate da disabilità è la società che, con i suoi pregiudizi, vede come limite quello che, in realtà, è un funzionamento differente. Chiunque deve essere accettato, accolto e non ostacolato; c’è ancora tanta strada da fare ma ritengo che i libri siano un buon punto di partenza per cominciare.

Il colore e la monocromia sono elementi ricorrenti. Qual è il loro significato simbolico? Molto spesso viviamo senza renderci conto delle semplici e meravigliose realtà che ci circondano, non badiamo a quelle piccole bellezze che fanno di questa vita un acquerello di così tanti differenti colori. Sin da quando ero bambina amo dipingere e forse, ancora di più, preparare le varie tinte e le loro sfumature da stendere sulla tela. I diversi toni cromatici di cui siamo circondati e il perché ci affezioniamo di più ad uno a ad un altro sono un intrecciarsi di esperienze, vissuti e concezioni che da sempre trovo estremamente interessanti. Nella letteratura per l’infanzia rappresentano spesso le emozioni ma, per me, sono molto di più. Ogni colore mi riporta a un significato che si rifà alla mia personalissima esperienza di vita, guardandoli possiamo fare salti indietro nel tempo di chissà quanti anni. È per questo che ognuno di loro ha uno spazio diverso dentro di noi suscitando emozioni differenti. La monocromia per me è, da sempre, sinonimo di tristezza, desolazione e devastazione. Non potevo che ricostruire la guerra con i due non colori per eccellenza, il bianco e il nero, per tornare a quegli anni d’inferno. È solo quando si è immersi in queste due tonalità, però, che si possono distinguere bene i colori; non per nulla gli sfondi sono, nella maggior parte dei casi, bianchi o neri. Ma anche in una realtà di guerra possono presentarsi inattese pennellate di colore, è quello che è successo a Étienne quando ha incontrato Aili per la prima volta.

È stata l’unica cosa meravigliosa in quella guerra, l’unico colore in quella immensa monocromia, nera simile a cenere di edifici bruciati dalle bombe e bianca come le anime di innumerevoli morti.”

Spesso sono le persone a salvarci da una realtà monocromatica in cui siamo confinati: una mano, un gesto, un sorriso, un abbraccio, uno sguardo possono illuminare anche la più nera stanza.

La guerra è un altro tema importante. Come hai voluto rappresentare gli effetti della guerra sull’infanzia e sulla società? Ho cercato di rappresentare la guerra come me la sono sempre immaginata: cupa, sporca, vigliacca, devastante, crudele e amara. Ho cercato di immergermi in quella realtà cercando di calarmi nei panni di bambini e bambine, di donne e uomini, di anziani e anziane che hanno visto la loro vita rubata e, spesso, cancellata. Ho voluto, però, concentrarmi maggiormente sull’infanzia: gli effetti dei conflitti, infatti, sui bambini si rivelano ancora più devastanti. Racconto di un ragazzino che in una giornata di inizio estate, seduto nei banchi di scuola, non aspettava che di correre con il suo migliore amico tra gli alberi del bosco. Parlo di quello stesso bambino che, una volta uditi i primi boati in lontananza, pensa ingenuamente a un terremoto. Narro di un fanciullo che, una volta sentiti i vetri frantumarsi e la porta della scuola squarciarsi, attende tremante e immobile nello scantinato sperando, insieme a tutti gli altri, di non essere trovato. Riferisco di un marmocchio che sfuggito miracolosamente a quel massacro, guarda, nascosto tra le fronde, ciò che resta della sua città che i nemici, in poche ore, hanno devastato. Ma la guerra è anche la voce delle donne e Madeleine, insieme a Coraline, riportano una storia di cui spesso non si parla. La guerra è abuso psicologico, è maltrattamento fisico, è violenza sessuale: sono innumerevoli le donne che sono state vittima di violenza nei luoghi teatro di scontri bellici, spesso usate come merce e trattate peggio delle bestie. Parlo di guerra come di un “virus” che infetta la società, si insinua nelle menti e le modifica attraverso la paura; è quell’agente patogeno che porta le persone a scappare, a nascondersi, ad abbassare la testa, a smettere di sperare. Sono convinta che, in guerra, non esistano né vinti né vincitori, tutti perdono in qualche modo: un figlio, un genitore, un amico, un arto, la casa, il futuro, la ragione. Non ho vissuto la guerra, è vero; ma non è difficile immaginare che, una volta che essa copre con il suo manto nero le vite delle persone, porta con sé solo odio, morte, dolore e deumanizzazione.

Quanto tempo hai impiegato per scrivere questo romanzo? Qual è stata la parte più difficile e quella più gratificante? Direi che ci ho impiegato un po’ più di due anni e mezzo. Iniziai a scrivere questo romanzo alla fine dell’estate del 2021, come un fiume in piena lo buttai giù in pochi mesi e poi, fino alla fine della primavera del 2023, mi dedicai a revisionarlo, levigandolo e definendolo. Poi è arrivata la proposta dalla casa editrice e, tra editing e tutto il lavoro necessario, siamo arrivati a mettere l’ultimo punto a gennaio 2024. È il lavoro che, da quando scrivo, mi ha richiesto più tempo e impegno, ma è stato un percorso davvero arricchente e lo rifarei un milione di volte.  La parte che ho trovato più interessante e bella da raccontare è il viaggio che Étienne e Aili fanno, durante la fine dell’autunno del 1940, tentando di attraversare il confine immaginario che si era venuto a creare durante la guerra in Francia. Quel cammino si addentra tra i boschi di latifoglie e le alture del nord del Paese fino agli enormi campi coltivati vicino al confine tra “Francia occupata” e la cosiddetta “zona libera”. È la natura che li accompagna passo dopo passo durante il lungo e pericoloso tragitto: li culla e li protegge come una madre dolce di giorno e li intimidisce con le sue dita ossute durante la notte, celando, con il suo manto scuro, le loro figure al nemico. Durante quella traversata narrativa ho avuto modo di raccontare una storia di due bambini che rischiano la vita per inseguire la speranza di un futuro di libertà.  La parte che ho trovato più complessa, invece, è stata il passaggio di testimonianza in testimonianza. Nel romanzo, come vi ho già anticipato, troverete principalmente la voce di Étienne ma, disseminate nel testo, ci saranno altri tre racconti. Non è stato per nulla facile cambiare punto di vista, tono e visione in base al personaggio narrante. È stata una bella sfida e spero con tutto il cuore di essere riuscita nell’intento.

Ti sei ispirata a fatti realmente accaduti o a storie che hai sentito raccontare? “La bambina del vetro”, in una sua parte, si basa su fatti realmente accaduti. Per scrivere questo romanzo ho fatto tanta ricerca e, mentre mi documento sulla situazione della Francia in quegli anni, mi sono imbattuta in una storia con la “s” minuscola all’interno dei fatti della Storia che studiamo sui libri. Non è mai possibile parlare di tutti i piccoli fatti che avvengono, sarebbe impossibile menzionare tutti all’interno dei manuali, ma ritengo che i libri e i racconti debbano valorizzarli come avvenimenti di cui è importante non perdere memoria.  Una parte del romanzo si ispira a una vicenda che è avvenuta nella primavera del 1944 nella frazione di Lélinaz, che si trova vicino a Lione. Come vi anticipavo la Francia si divise in due durante l’occupazione: a nord c’era la “zona occupata” e a sud la cosiddetta “zona libera” che non era altro che il Regime di Vichy, uno strumento di collaborazione della Francia alla politica tedesca di attuazione della “soluzione finale”. Durante l’estate del 1942 il regime negoziò un accordo con la polizia tedesca per la consegna di 10.000 ebrei della zona non occupata e 20.000 della zona occupata. Per garantire queste cifre il governo effettuò grandi rastrellamenti. In questo contesto disastroso diverse organizzazioni umanitarie intensificarono le loro azioni per salvare i bambini ebrei i cui genitori erano già stati internati o deportati. Disposero quindi diverse case, tra queste voglio ricordare la Maison d’Izieu, ora un memoriale, aperta da Sabine e Miron Zlatin, per istituire una colonia di bambini rifugiati. Fu un luogo tranquillo in cui i bambini poterono vivere serenamente fino alla primavera del 1944. Giovedì 6 aprile nella “casa dalle finestre azzurre”, il primo giorno delle vacanze di Pasqua, ci fu un raid orchestrato dal comandante della Gestapo Klaus Barbie, soprannominato il “Boia di Lione”. Un distaccamento della Wehrmacht su due camion e personale della Gestapo irruppero nella casa arrestando brutalmente i 45 bambini presenti e i 7 adulti che si prendevano cura di loro. Passarono qualche giorno nel carcere di Montluc, a Lione, proseguirono fino al campo di Drancy e terminarono la corsa al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau morendo soffocati nelle camere a gas o assassinati poco dopo il loro arrivo. Voglio ricordare l’unico nome che si salvò in questo sfacelo, lei si chiamava Léa Feldblum, numero 78620, era una delle educatrici della casa e possedeva documenti falsi per nascondere la sua identità ebraica. Mentre i minori venivano marchiati con i numeri confessò la sua vera identità per poter stare insieme a loro. Fu l’unica ad entrare nel campo, fungeva da cavia per esperimenti medici e, miracolosamente, sopravvisse fino alla liberazione del 1945. Nel 1987, dalla Palestina, tornò coraggiosamente in Francia per testimoniare contro Klaus Barbie che fu condannato all’ergastolo quello stesso anno per gli innumerevoli crimini compiuti.  Questa storia ha ispirato una parte del romanzo e vuole essere un tributo a tutte quelle persone che, anche nella più fitta oscurità, hanno brillato come stelle illuminando, persino la guerra, di una meravigliosa luce che io amo chiamare umanità.

Qual è il messaggio che vorresti trasmettere ai tuoi lettori con questo libro? Voglio iniziare a rispondervi con una frase che troverete anche alla fine del romanzo, nella “nota dell’autrice”, e che, secondo me, riassume bene il mio intento nel decidere di scrivere e divulgare questa storia.

Non giriamoci dall’altra parte davanti alla sofferenza, l’indifferenza è uno dei fuochi che alimenta la guerra.”

Oggi più che mai lo spettro della guerra sta tornando a diffondersi tutto intorno a noi: ad agosto del 2021 i talebani hanno riconquistato l’Afghanistan attaccando duramente i diritti e le libertà delle donne, a febbraio del 2022 le forze armate della Federazione Russa hanno invaso l’Ucraina, a settembre dello stesso anno, in Iran, Mahsa Amini è stata uccisa per non aver indossato correttamente l’hijab innescando una serie di proteste in tutto il mondo e da ottobre 2023 la città di Gaza subisce una violenta offensiva che conta innumerevoli caduti; e questi sono solo alcuni dei fatti che potremmo menzionare. Nonostante tali notizie, però, noto con grande dispiacere che molte persone non vogliono avere nulla a che fare con queste informazioni giudicandole lontane da loro, troppo malinconiche e frustranti. È così che avviene la normalizzazione di qualcosa che non può e non deve essere normalizzata: la guerra. Questo libro parla di un conflitto passato, racconta di un ragazzino che nel lontano 1940 non riesce a rimanere indifferente davanti a un’ingiustizia e rammenta, rifacendosi a fatti realmente accaduti, di un’insegnante che ha fatto di tutto per salvare dei bambini che per il nemico dovevano semplicemente sparire nel nulla. Ma la guerra è sempre e solo guerra e non abbiamo ancora imparato niente.

Con questo romanzo mi auguro di sensibilizzare, attraverso un conflitto di ieri, sulle lotte armate di oggi e spero di portare chi legge a porsi delle domande in merito, a fare parallelismi e a chiedersi cosa può fare, nel suo piccolo, per non rimanere indifferente a tutto questo. Questa storia si augura di brillare con la stessa intensità di un papavero in mezzo ai campi devastati dalla guerra rilucendo di nuova consapevolezza.

Come è nata la tua passione per la scrittura? La passione per la scrittura è nata quando ero ancora solo una bambina, sono sempre stata parecchio fantasiosa e, quando finalmente ho imparato a scrivere, ho semplicemente traslato la mia creatività su un foglio a righe. Alla scuola primaria, quando ricevevo il classico tema, per me era un’opportunità per raccontare qualcosa di me e del mio mondo attraverso vicende, luoghi e personaggi dei miei piccoli racconti. Ricordo ancora la prima volta in cui capii che scrivere sarebbe stato il mio sogno. A quel tempo frequentavo la scuola secondaria di primo grado, ero in terza e la professoressa ci aveva dato un tema in cui dovevamo scrivere una lettera di un soldato dal fronte. Guardai fuori dalla finestra e, per le ore a venire, le mani volarono sul foglio. Quando, qualche giorno dopo, la docente consegnò i compiti il mio era l’ultimo; disse che prima di consegnarlo avrebbe voluto leggerlo ai miei compagni. Alla fine della lettura, dopo qualche interminabile secondo di silenzio, partì un applauso che conserverò per sempre nel mio cuore: avevo raccontato una storia capace di parlare al cuore delle persone. Da quel momento in poi custodii il sogno in un cofanetto chiuso a chiave e continuai a sperare lavorando per raggiungerlo. Durante gli anni dell’adolescenza scrissi per me, per ascoltarmi, indagare e cercare di comprendere nel profondo; solo durante la quarantena ho deciso di trasformare quelle che erano state minuscole frasi, piccole poesie e brevi racconti in un romanzo. “La ragazza dalle tre stagioni” è stato il mio primo racconto vero e proprio con cui decisi di partecipare al Premio Letterario Antonio Gramsci nel 2020. Nonostante non vinsi avevo molto altro di cui raccontare, così decisi di partecipare al Concorso Letterario Nazionale Anni Verdi nel 2021; a seguito del quale ho pubblicato il mio primo romanzo breve “Ladra di suoni”. Mentre lavoravo alla sua pubblicazione scrivevo già “La bambina del vetro”. Non mi stancherò mai di dire che i libri salvano la vita, scrivere e leggere sono una delle ricchezze più grandi che la vita possa regalarci. Per me scrivere è raccontare di altre realtà attraverso l’inchiostro delle pagine e narrare di me tra gli spazi bianchi. Scrivere è quanto di più bello c’è: curare, danzare, volare, vivere.

Quali sono gli autori che ti hanno ispirata di più? Gli autori che mi hanno maggiormente ispirata sono anche quelli che mi hanno fatto innamorare della lettura e della letteratura. Prima fra tutti voglio ricordare la scrittrice Valentina d’Urbano che, già da quando ero solo una ragazzina, mi ha trascinata tra le pagine facendomi innamorare del suo stile di scrittura giovanile, ricco e variegato. Qualche anno fa ho fatto, come lettrice, delle scoperte straordinarie immergendomi nella meravigliosa scrittura di Khaled Hosseini e Nguyễn Phan Quế Mai; entrambi mi hanno fatto fare un viaggio attraverso culture, tradizioni e luoghi con un trasporto e una delicatezza per nulla scontati. Voglio ricordare in particolare l’autrice vietnamita per la sua scrittura che si rivela un miscuglio tra delicatezza poetica e forza della prosa. Nel 2020 ha scritto il suo primo capolavoro, “Quando le montagne cantano”, che occuperà sempre un posto speciale nel mio cuore. Questo romanzo, che racconta della terrificante situazione che hanno dovuto subire i vietnamiti durante la Guerra del Vietnam, ha significato molto per me e mi ha ispirato tantissimo nelle scelte stilistiche e d’intreccio presenti nella scrittura de “La bambina del vetro”. Ci sono molti altri autori che fanno parte della mia biblioteca, ma vorrei citare, oltre ai romanzi, anche i classici della letteratura per l’infanzia. Essendo un’insegnante entro spesso in contatto con albi illustrati e grandi classici originali o reinterpretati. Sono sempre stata convinta che i libri per i bambini, siano essi piccoli romanzi, albi illustrati o silent book, debbano essere destinati in egual modo al pubblico dei piccoli come a quello dei grandi. La differenza sta solo nella diversa chiave di lettura e nell’interpretazione delle vicende narrate. Dentro le illustrazioni, in mezzo alle poche righe e intorno alle lettere in stampato o in grassetto, tipiche dei libri per l’infanzia, troverete sempre importanti messaggi di cui spesso gli adulti si dimenticano. Vi invito a leggere, restando nel meraviglioso tema degli albi illustrati, “Per filo e per segno” di Luisa Mattia e Vittoria Facchini e, tornando ai romanzi per ragazzi, “L’albero delle bugie” di Frances Hardinge; sono sicura avranno molto da rivelarvi.

Nelle mie storie troverete diversi rimandi ai tipici “riti di iniziazione” che troviamo sempre nella letteratura per l’infanzia. Narro spesso di foreste scure e intricate come di luoghi di perdizione e paura, ma anche spazi in cui, una volta fuori, ci si sente più maturi e forti. Lo stesso vale per il buio che in tutti i classici è mezzo di annientamento, insicurezza e desolazione; ma anche in questo caso pretesto in cui trovare la forza di far risplendere la propria luce interiore. Le storie per bambini sono quelle da cui abbiamo iniziato e c’è un motivo se, da secoli, ci hanno accompagnato, cullato e stregato.

Quali sono i tuoi progetti futuri? Vorrei continuare a scrivere storie che hanno bisogno di essere narrate. Ciò che lega tutti i miei racconti è la volontà di disseminare messaggi nascosti tra le righe, in mezzo alle vicende e dentro i personaggi dei miei racconti. Per me scrivere è un’opportunità per conoscermi ma anche per entrare in contatto con persone anche molto distanti da me: i libri sono fili magici tessuti tra le pagine, incredibilmente collegano cuori che forse mai si conosceranno ma che, dentro la narrazione, entreranno in contatto. Da quando ho pubblicato “La bambina del vetro” moltissimi lettori si sono interfacciati con me, di persona o tramite il web, come se mi conoscessero da tantissimo tempo; le storie hanno il potere di accorciare le distanze permettendo ai lettori di vestire panni che non gli appartengono e offrendo l’occasione di vedere le cose da una prospettiva più complessa e lontana dal semplicistico stereotipo. “I libri fanno pensare” direbbe Silva, la piccola bambina che “abita” l’albo “Per filo e per segno”. Ci sono messaggi che, se detti di persona, non attecchiscono; ma i libri non sono individui giudicanti, ci aspettano e, pagina dopo pagina, ci sussurrano all’orecchio. Vedo la scrittura come l’arte di narrare ciò di cui non si parla o argomenti di cui semplicemente si sparla o straparla.  Spesso, non appena finisco di scrivere una storia, ne ho in mente già una nuova. È già da un po’ che mi sono tuffata nell’ideazione di un nuovo romanzo, ci sto lavorando e spero presto di donarlo.

Come hai fatto delle ricerche per ricostruire l’atmosfera degli anni ’40? Devo dire che non è stato affatto facile ricostruire la realtà di guerra nella Francia tra il 1940 e il 1954. Ho dovuto fare molte ricerche, guardare documentari, film e leggere libri che mi conducessero a quel periodo storico per poterlo descrivere quanto più fedelmente possibile. Nella mia vita ho avuto la fortuna di interfacciarsi spesso con questo tema e la visione di quel periodo, almeno nel suo formato macroscopico, era chiaro nella mia testa. Per quanto riguarda i vari dettagli, come gli oggetti della vita di tutti i giorni o le armi utilizzate, è stato necessario fare una ricerca più approfondita.Quello della ricerca è un tema estremamente affascinante per me perché permette di farsi una cultura su alcuni aspetti interessanti e di utilizzare strumenti, come quello del web, in maniera utile ed arricchente. Come dico sempre, Internet, se utilizzato bene, è un’enciclopedia alla portata di tutti!

Qual è il tuo rapporto con la Sardegna, terra in cui sei nata e vivi? Come ha influenzato la tua scrittura? La Sardegna, nonostante non sia un luogo in cui sono solita ambientare i miei romanzi, è una grandissima fonte di ispirazione per me. Moltissimi scenari che fanno da sfondo alle vicende che narrano sono raccontati rifacendosi ai paesaggi della mia terra. Sono sempre stata una grande amante della Sardegna e ho avuto la fortuna di poterla girare ed esplorare in lungo e in largo. Il suo territorio ha una varietà incredibile se consideriamo la superficie in cui si estende: viviamo in contatto con spiagge infinite di sabbia finissima, scogliere a picco sul mare, dune che ricordano quelle dei deserti di lontani continenti, monti e gole incredibili e ampie aree di foreste che vanno dai boschi di leccio alle meravigliose sequoie del Limbara. Da quando sono bambina spesso mi reco a Seui, un piccolo paesino nascosto tra le montagne della selvaggia Ogliastra; luogo di nascita dei miei nonni materni che conservano ancora le loro case in cui trascorro molti dei miei fine settimana. Da qui ho l’opportunità di muovermi fino alla bellissima Barbagia di Nuoro e di immergermi nei boschi situati nei dintorni del paese. Amo passeggiare tra le foreste: in primavera raccolgo gli asparagi, in estate le more e in autunno i funghi del sottobosco. Da sempre viaggiare per la Sardegna ed esplorarla mi regala immagini che, dai miei occhi, passano attraverso l’inchiostro sulla carta stampata. Che sia mare o montagna la mia terra mi regala paesaggi così belli che non posso che riportare nella pagina.

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