‘ANTONEDDU SELLONE’ CALZOLAIO A SANTU PREDU: ANTONIO CORDA E LA VECCHIA NUORO

Antoneddu Sellone, all’anagrafe Antonio Corda (Nuoro 1903-1993), era il terzo di 5 figli di Costanzinu e Nannedda Selloni, da qui il matronimico forse per ragioni di omonimia. Costanzinu, dotato di una forza fisica straordinaria, rimase vittima di un incendio mentre estraeva il carbone lasciando la moglie in attesa dell’ultimo nato. Nannedda, morta quasi centenaria, era una santa donna. Sapeva leggere e scrivere, faceva da tramite fra i familiari e i soldati al fronte, ottenendo in cambio ogni benedizione. Metteva il suo forno a disposizione di tutto il vicinato di Sa Maria ‘e Lodè, ricevendo in cambio del pane, inoltre accoglieva tutti i bambini del rione perché giocassero al sicuro nel suo cortile quando le loro mamme erano indaffarate.

Conseguita la sesta avviamento al Podda, traguardo non così scontato data la sua estrazione sociale, Antoneddu, dischente (apprendista) nella calzoleria della Ditta Collari, riparava e realizzava calzature da uomo e donna per qualsiasi esigenza distinguendosi per la scelta dei materiali, la cura delle cuciture e la perfezione delle forme.

“Purtroppo, non conserviamo nessuno dei suoi manufatti –, racconta la figlia Margherita oggi 92enne -. Non ho mai dimenticato i piedi doloranti a causa delle ciabatte, tutt’altro che confortevoli, che durante il fascismo mio padre realizzava con materiali di recupero a beneficio dei suoi otto figli.

Conobbe mia madre Martina Tolu – prosegue -, in casa Collari dove faceva la domestica. Si sposarono molto giovani, 16 anni lei, 23 lui e si stabilirono in una modesta casa a due piani di via Brusco Onnis nel rione di Santu Predu”.

In quello stabile, in un angusto ambiente al di sotto del piano stradale a cui si accedeva mediante qualche gradino, Antoneddu aveva avviato l’attività di calzolaio in autonomia, unico arredo un semplice deschetto posto davanti alla porticina per meglio fruire della luce del giorno e dove poggiava gli attrezzi del mestiere.

Non aveva preso parte al primo conflitto perché molto giovane e neppure al secondo, forse per i tanti figli ancora troppi piccoli. Nel dopoguerra, i due coniugi, acquistarono una casetta tutta per loro in via Irillai, ma tziu Antoneddu era rimasto a lavorare in via B. Onnis fino all’età della pensione quando cedette l’attività ad un amico calzolaio. Solo negli anni ottanta decisero di vendere il localino ad una vicina di casa. 

Ai ragazzini del rione, che numerosi frequentavano il suo umile ambiente e lo rifornivano di frasche recuperate dalle recinzioni degli orti per alimentare il fuoco che teneva acceso dentro un paiolo di latta, raccontava aneddoti spassosi e con intelligente ironia si divertiva a fare scherzi.

Dopo aver convinto alcuni di loro che nel cortile della sua casa di Irillai svettasse un albero di temperini, sogno proibito per molti ragazzini, li invitava a recarsi dalla moglie per farselo mostrare e magari coglierne qualcuno, lasciando la donna esterrefatta di fronte a tanta follia.

Nella sua botteguccia viveva Checca, una gazza dalle piume corvine di forte attrazione per i piccoli, ammaestrata a raccattare col becco sas semenzeddas (chiodini piccolissimi) che a lui sfuggivano durante il lavoro in quel posto buio e angusto.

Inoltre possedeva una bellissima pietra nera e liscia, “sa preda ‘e battere”, che utilizzava per ammorbidire le pelli, a cui aveva dato il nome Columbedda. Il calzolaio andava dicendo che, dotata di anima, aveva estrema necessità di ricevere affetto e calore fra le ginocchia di qualche ragazzino. Quando l’ingenuo malcapitato di turno, deluso e intirizzito, abbandonava di tutta fretta Culumbedda per gli scarsi risultati, tziu Antoneddu se la rideva divertito.

 “Mio nonno era alto, snello e di bell’aspetto – chiosa la nipote Antonella, insegnante di lettere -. La passeggiata domenicale con l’amico fraterno Chischeddu Pintori, era tutto per lui.

Era solito scambiarsi i romanzi con gli amici, il primo Giallo Mondadori l’ho visto fra sue mani. Ricordo anche che per concedersi una buona lettura e una pennichela, si rifugiava nella campagna circostante di sa ‘Maria ‘e Lodè.

Mi sovviene la sua bella risata – continua -, un po’ impastata da fumatore incallito di Nazionali semplici, aveva rifiutato il cibo e smesso di tirare una settimana prima di morire.

Custodisco gelosamente una formina in legno per modellare le tomaie delle calzature per bambini e niente di più, ma tanti sono i bei ricordi che di lui mi porto dentro”.

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