a cura di ORNELLA DEMURU
Uno dei poeti più noti e importanti in lingua sarda è senza dubbio Antioco Casula, noto con lo pseudonimo di Montanaru.
Nato Desulo il14 o il 15 novembre 1878, era figlio di un piccolo commerciante. Studiò sino ai 16 anni a Cagliari e al collegio di Lanusei, poi lasciò la scuola e, dopo una breve esperienza nella Guerra di Abissinia, si arruolò come sottufficiale nei carabinieri due anni dopo, curiosamente lo stesso anno in cui Peppino Mereu, altro poeta della stessa Barbagia con il quale in seguito avrebbe dato vita ad un dualismo creativo, si congedava dalla stessa Arma.
Anche Montanaru fu destinato in Sardegna e ne girò diversi paesi, a partire da Tula.
Scoperto da Ranieri Ugo (Ugo è il cognome), e da questi incoraggiato, cominciò intanto a scrivere per la Piccola Rivista, un periodico letterario di Cagliari fondato e diretto dall’Ugo stesso, e nel 1904 pubblicò la sua prima raccolta: Boghes de Barbagia (Voci di Barbagia), che uscì con illustrazioni di Andrea Valli.
La prefazione la scrisse Ugo stesso, e vi raccontò l’arrivo dei primi versi: «E così, da Tula, un tale che si firmava “un carabiniere” mensilmente donava alla Piccola Rivista certe tenui poesie dialettali che mentre avean tutta la bellezza agreste ed affascinante della natura paesana, davano pure luccichii di sensi e passioni vibranti di modernità […] era proprio un “carabiniere” che tra un rapporto di contravvenzione, un fortunato arresto od una ronda nojosa e sterile, trovava il tempo di leggere, studiare e discutere di teorie e postulati moderni, di arte e letteratura».
La pubblicazione della raccolta e i pur sporadici contatti con gli altri collaboratori della rivista, gli fecero conoscere altri artisti dell’epoca, anche di altre discipline, ed a Nuoro conobbe Sebastiano Satta, Giuseppe Dessì e Francesco Ciusa Romagna.
Nel 1905 si congedò perché, narrò egli stesso, «Mi mancava il tempo di leggere e solo la mente era vigile durante le notti insonni trascorse assai spesso al lume delle stelle o sotto la bufera»; tornò a Desulo, dove aveva ottenuto un impiego presso l’ufficio postale. Riprese privatamente gli studi, e qualche tempo dopo ottenne da privatista la licenza magistrale. Ebbe un incarico di insegnamento a Desulo, dove però continuava anche il servizio presso l’ufficio postale.
Sposatosi nel 1909, ebbe cinque figli. Il maggiore, Antonangelo, morì a 5 anni nel 1914, l’anno dopo morì anche la madre, che si spense per un tumore.
Casula si risposò nel 1916 ed ebbe altri due figli. Per uno di questi, Antonello, compose Ninna nanna de Anton’Istene, una delle sue poesie più note.
Conobbe epistolarmente Grazia Deledda, nel 1920, che non aveva mai incrociato nemmeno quando entrambi scrivevano nello stesso periodo su La Piccola Rivista.
Le inviò in dono un componimento in cui le dedicava una riscrittura della metafora del fabbro artefice delle scintille che, dal settecentesco Cantoni Buttu in avanti, era un tema assai ricorrente e dunque una “prova di abilità” nella poesia delle Barbagie a ridosso del Gennargentu; le inviò inoltre un quadro che ritraeva la processione dell’Assunta sul Monte Ortobene e che la scrittrice nuorese appese nello studio della sua casa romana, invitando Casula a passare ad ammirarlo di persona. La lettera di ringraziamento della Deledda, conservata nell’epistolario dell’odierna casa-museo di Casula a Desulo, gli regalò in cambio intime riflessioni sul di lei scrivere che sono restate di una certa importanza nell’analisi deleddiana.
Nel 1922 diede alle stampe Cantigos d’Ennargentu (Cantici di Gennargentu), che fu illustrato con opere appositamente realizzate da Filippo Figari.
La raccolta ebbe un inatteso successo e richiamò interesse anche dal Continente; fu tradotta in inglese, francese, tedesco e italiano. Nell’isola fu la definitiva affermazione, «Con voci fraterne, quasi umili, con la lingua delle donne e dei padri antichi, il poeta parla al cuore e all’intelletto di tutti i Sardi» ne disse il Falchi.
Nel 1925 Casula fu scelto per rappresentare la Sardegna al Congresso nazionale dei dialetti d’Italia di Milano.
Ma nel 1928, appena lanciata la campagna fascista di repressione dell’uso di lingue non italiane, condotta in Sardegna con un certo rigore, Casula fu arrestato con l’accusa di favoreggiamento di alcuni latitanti. Fu riconosciuto in seguito innocente, scarcerato, ma tenuto sotto osservazione e minacciato di confino.
Poco tempo dopo subì la morte di altri due figli, entrambi intorno ai 20 anni di età.
Nel 1933 pubblicò Sos cantos de sa solitudine (I canti della solitudine), che riscosse un certo successo.
Nacque ben presto una pesante polemica con Gino Anchisi, giornalista di credo fascista il quale, dopo aver sostenuto che Casula, bravo com’era, dovesse scrivere in italiano anziché in sardo, richiese il rispetto della legge nazionale che imponeva l’uso esclusivo della lingua italiana; l’Anchisi, chiosando con «Morta o moribonda la regione, morto o moribondo il dialetto [sic]», ottenne la censura dai giornali isolani tanto del sardo quanto di Casula, lasciando peraltro apparire che il poeta non avesse risposto.
Casula aveva invece risposto, sostenendo che il risveglio culturale della Sardegna sarebbe potuto solo dal recupero della madrelingua; nei Sardi, osservò Casula, la “lingua dei padri” dopo tante traversie sarebbe un giorno assurta a lingua nazionale, giacché non si sarebbe mai spento nella loro coscienza «il convincimento che ci vuole appartenere a una etnia auctotona».
La replica del poeta non trovò mai pubblicazione nell’Unione Sarda, la cui redazione infatti la sottopose a censura seguendo le direttive del regime. Il giornale provvedette poi a giustificarsi nel seguente modo, in una lettera personale indirizzata a Casula il 12 settembre:
«Non si è potuto dare corso alla pubblicazione del suo articolo in quanto una parte di esso esalta troppo evidentemente la regione: ciò ci è nel modo più assoluto vietato dalle attuali disposizioni dell’ufficio stampa del capo del Governo che precisamente dicono: «In nessun modo e per nessun motivo esiste la regione». Siamo molto dolenti. Però la preghiamo di rifare l’articolo limitandosi a parlare di poesia dialettale [sic] senza toccare il pericoloso argomento!»
Questo ed altri fatti non impedirono però che il poeta divenisse in seguito Podestà di Desulo.
Dopo la guerra aderì al Partito Sardo d’Azione, trovandosi più incline verso le posizioni dell’ala indipendentista del partito. Conobbe Ada Negri e Giuseppe Ungaretti, con il quale legò per avere anch’egli perso un figlio giovanissimo; con Ungaretti presidente, Casula fu nel 1948 nella giuria di un premio letterario che si concluse con la vittoria della sua poesia S’Olia.
Conobbe anche il giovane Pier Paolo Pasolini, che studiava in quel periodo la poesia nelle lingue romanze.
Conobbe Max Leopold Wagner, il quale si interessava del già importante poeta, ma per ciò che lo studioso desiderava conoscere della poetica sarda, lo indirizzò al poeta nuorese Franceschino Satta, conosciuto quando questi era stato maestro a Desulo.
Nel 1950 pubblicò la raccolta Sa Lantia, che però non ebbe successo. Nel 1953 fu colpito da una paralisi e per un po’ continuò a comunicare in versi con altri poeti, per i quali era, quasi gergalmente, s’abile , che in sardo vuol anche dire “l’aquila”; ma nel 1955 ebbe un aggravamento e lo si dovette riportare a Desulo, dove avrebbe passato il resto dei suoi giorni su una poltrona.
Solo e di comprensibile umore, disse di sé: «Ora posso dire che vivo di memorie, di ricordi di amici morti o lontani, in gran solitudine. Triste sono ma orgoglioso della mia vita percorsa fra dure difficoltà». Morì due anni dopo, all’alba.
Dopo la morte, il genero Giovannino Porcu fece pubblicare le ultime due raccolte, Sas ultimas canzones e Cantigos de amargura.
La sua casa è oggi una casa-museo visitabile.
A Desulo ogni anno ai primi di novembre Montanaru viene ricordato e celebrato attraverso il Premio Letterario della Montagna ”Montanaru’, tra i più prestigiosi della Sardegna.
A tie, Sardigna!
Sallude Sardigna cara! O terra mia,
Mamma d’òmines fortes, berrittados,
De pianos e montes desolados,
De bellas fèmminas e de poesia.
Una die che perla ses cumparta
Subra sos mares ricca d’onzi incantu
E curreit de te su dulche vantu
De sa fama, che vela in mar’isparta.
Fin gigantes sos òmines e sas terras
Fruttos daian caros che i s’oro,
E in su mundu non b’aiat coro
Chi no esset branadu cuddas serras
De Gennargentu mannu e de Limbara
O sas baddes de su Tirsu e Flumendosa.
E tue che una dea gloriosa
Subras sas abas risplendias giara.
Dae tando passein longos annos
E tue rutta in bassu tantu sese
Tue lizu de prìncipes e rese,
Rutta che Cristos sutta sos affannos.
Ma non t’avviles! Pes’alta sa testa
Sardigna mia! E mira in altu mira
Pustis de tantu dolu e de tant’ira
Est tempus chi pro te puru siet festa.
Sos buscos tuos ti lo s’han distruttos
Cun piccones cun serras e istrales,
Han’ingrassadu sos continentales
E tue ses restada senza fruttos.
A tie sempre sos impiegados
Chi tentu han fama ‘e falsos e ladrones
Ca sempre han giutu custos berrittones
Che unu tazzu de boes domados.
E has pagadu a sa muda donzi tassa
Pòpulu sardu avvessu a obbedire
Cun su coro siccadu in su patire,
Cun su coro siccadu che pabassa!
Ma coraggiu, coraggiu! Àtteros coros
Oe Sardigna t’àniman sas biddas
Commo su mortu fogu ettet chinchiddas
Chi altas lughen’in tottu sos oros
De custu mare ch’ispettat serenu
Sa tua fortuna; e sied’issa accanta
Pro te patria mia o terra santa
Tenta sempre in penuria e in frenu.
Sos fizzos tuos giòvanos e bellos
Ardimentosos, giaman libertade
E giustizia e donzi bontade
Subra d’antigos òdios rebellos.
E issos Patria a tie ti den dare
Donz’umana potenzia e fortuna
Gloriosa, comente dat sa luna
Sa lughe a su serenu tuo mare.
Grazie, condivido.
A chiedere a molti Sardi quali poesie scrisse credo che la cerchia si stringe un bel po’.