“LA MADRE DEL VENTO”, EMMA FENU E LE DONNE DEE DEL MISTERO DELLA VITA

Emma Fenu

Viaggio nel secolo scorso, viaggio nella memoria non vissuta ma che non abbiamo mai perso, viaggio di donne. Di quando il viaggio delle donne nella vita era sempre molto più complicato.

Donne che avevano il potere di generare, perché comunque erano riconosciute Dee del mistero della vita, che però potevano essere stuprate, offese, e richiuse in manicomio se erano troppo indipendenti, troppo libere, o troppo qualunque cosa.

Viaggio dove le donne dovevano governare la magia bianca, la famiglia, e uomini prepotenti, perché solo con la prepotenza contrastavano la paura di relazionarsi con una donna.

Questa è l’ambientazione dell’ultimo libro di Emma Fenu, La madre del vento (Gli scrittori della porta accanto, 2024). Il romanzo veleggia in pieno Novecento tra tempeste, maestrale, superstizioni, e una vita sempre precaria che bastava poco per spezzarla.

L’autrice ci fa seguire passo passo, ma con qualche intelligente salto temporale, la narrazione di una storia lunga tre generazioni. Tre generazioni e tre donne: nonna, mamma e figlia, e quindi diventa tutto un po’ speciale. La scrittura è al femminile, ma non è rosa. Perché nel racconto la voce che sentiamo è anche ombrosa, intima, al sapore di miele, ma subito salmastra come il mare che dà la vita ma che prende la vita. Forse è la voce del mare, la voce del vento di mare, la voce della Madre del vento. Voce di Madre, voce di donna.

Nel libro ci si arrabatta per conquistare un giorno avanti, uno spazio al sole, il diritto alla dignità, il diritto di sopravvivere. Ma la protagonista principale delle tre (per numero di pagine) Dalida, non è affatto interessata a sopravvivere, lei vuole vivere in profondità, con tutta l’anima, bagnandosi nel mare, sfidando leggende e dicerie, anche quelle cattive. Lei è molto più su della sua epoca quasi medioevale, lei è avanti, in libertà, in pensiero, lei è la vita in guerra che non gliene frega niente delle convenzioni. Libera, per mordere la vita anche quando era sconveniente. Libera di seguire la sua religione personale, libera, totalmente. E blasfemo era chi non lo capiva.

Io non l’ho bevuta questa storia dove dici, nelle note conclusive, che l’idea di questo romanzo è nata nel febbraio del 2020. Sì, in quel momento probabilmente si è accesa la luce, ma tu hai navigato una vita prima, raccogliendo emozioni, tormenti, cicatrici e ferite. Leggendo il tuo La madre del vento (Gli scrittori della porta accanto Edizioni – 2024) si ha la sensazione che tu abbia fatto come quei pescatori che citi così spesso. Gettando nel mare della narrazione le tue grandi reti così accoglienti, e che siano rimaste lì, forse inconsapevolmente, a catturare passioni, leggende, umori umani e umori del mare e del vento. E i frammenti di tutto quello che passava sono rimasti ad abitare nelle tue reti da pesca. Ma quando nel febbraio del 2020 hai acceso l’idea di scrivere questo libro hai tirato le reti in barca e hai trovato un mondo già bello pronto. Un mondo che forse non sapevi ma che avevi già visto dentro di te, e forse anche vissuto per tutta una vita. Forse hai scritto la prima riga e ti sei accorta che era già tutto nella tua anima. Di te come autrice, che in quanto tale è insieme mille donne e mille storie. Lo so hai fatto anche un grandissimo lavoro di studio e ricerca, ma era già tutto dentro di te che germogliava. Mi sbaglio? Non ti sbagli, ma non è stato un processo di scrittura e elaborazione consapevole: ne La madre del Vento non racconto la mia storia, ma quella di altre donne a cui sono legata o che conosco solo tramite le numerose cartelle cliniche dei manicomi e tramite i documenti di Villa Clara, la casa di cura psichiatrica che un tempo, quello del mio romanzo, fu a Cagliari.  Eppure, quando ho scritto le prime parole di Dalida, la protagonista, vittima di violenze che io non ho subito, mi sono resa conto che la sua voce e la mia si confondevano, come con quella dell’altra protagonista, Lucia. Sono parti di me, sono ricordi incagliati nelle reti della memoria, sono le parole in algherese sentite da bambina, quelle delle vecchie sedute su una sedia in legno e paglia fuori dall’uscio di casa, nei vicoli del centro; godevano della frescura, nelle sere afose, e raccontavano la vita. E raccontavano il dolore, la condanna sociale, i riti apotropaici. E raccontavano la morte.In quelle mille e una vita, in quel coro greco di voci sulla scena delle tragedie, io mi sono nutrita di un tempo non mio, provando nostalgia di epoche mai vissute. Mai vissute se non con l’immaginazione e l’immersione nella storia universale.

Mare, pesca, magia, tempesta e vento di maestrale, quanto pesano nei tuoi protagonisti? Ma spingiamoci anche più in là: quanto pesano in tutti noi? In tutti i giorni della nostra vita? Io sono fatta di acqua, sale, tempesta, bonaccia, sole, tempesta e riti di magia bianca che, per sincretismo, sfociano in preghiere, come la medicina contro il malocchio. E i miei personaggi sono fatti della materia di cui sono fatti i mari. E in quei mari viaggiamo, perché abbiamo l’animo di Ulisse, e per scoprire e conoscere, dobbiamo perderci, ritrovarci, affrontare manipolatori e onde malvagie per poi ripartire in albe di cielo terso e acqua azzurra.

Nonna, madre e figlia: sembrerebbe una storia al femminile. Ma non lo è, perché secondo me quello

che è femminile è universale. La visione del mondo dovrebbe essere dalla donna in poi. E questa è storia di donne, di più: è storia di donne che fanno la storia. Che pagando un prezzo personale alzano l’asticella di quel sposarsi con la vita, con la libertà di essere sé stesse e di sbagliare. E allora è al femminile ma universale? Il femminile è l’anima di Jung, che si contrappone a animus. Questa è una storia di donne, di quelle sconosciute che fanno la storia universale, che non si contrappongono al maschile ma non ne subiscono gli abusi dettati dal patriarcato. Questa è una storia di Donne, al principio del percorso umano erano coincidenti con il tutto: madri, canali con il sacro, dee, custodi della natura, fate e streghe. Donne.

La madre del vento è un’ombra nera, ma è anche un personaggio bianco, di forza e di energia. È uno spauracchio temibile, ma è ispirazione, magia e incanto, con quattro gocce di sovrannaturale. È Emma Fenu che esorcizza le sue ombre e indica la via maestra dove la sofferenza non si può mai escludere? La Madre del Vento è quello che vuole il lettore. Uno spirito? Il principio generatore delle acque? La figura archetipica della Madre? La personificazione della morte? La forza della vita per cui bisogna anche soffrire per gioire? Il mistero della vita? Il potere della natura e del femminile? Un’allucinazione? Un personaggio immaginario? Decidetelo voi: per me è tutto questo.

Nonna, madre e figlia, come spesso nella vita, si combattano. Non hanno paura della guerra di tutti contro tutti, perché sono naturalmente guerriere, e specialmente non hanno paura della parola “perdono”. Ma il perdono è una dura conquista rivolta a sé stesse, o un mero trattato di pace? Il rapporto madre e figlia è complesso, viscerale, totalizzante e uterino anche quando il legame non è frutto di un parto. L’amore stesso, se forte, è anch’esso fatto di luce e di ombre, di passione e disperazione, di quotidianità e continua sorpresa. NeI casi di madre e figlia entrano in gioco l’abbandono, e intendo parto e svezzamento, costruzione della propria identità nel confronto con chi ci ha generato uniche, diverse da ogni altra, non rispondenti alla bambina immaginata. Il perdono e la consapevolezza che la madre è umana, donna, e non perfetta, consente la fine del mito dell’infanzia e il percorso iniziatico verso la maturità: da adulte ci si ritrova donne e a volte ci si deve perdonare, il più grande gesto di amore per l’altro, per se stesso e per la vita.

I libri raccontano una storia. Ma poi la storia vive di vita propria e va per la sua strada, e non gli importa di chi la sta scrivendo. E allora tu autrice, non la racconti soltanto. Vai in alto, piangi, hai paura della tempesta, e temi sulla tua pelle le superstizioni, e poi sollievo, ma poco, e di nuovo la vita, quella vera, che ti morsica. La Madre del vento è così autentica che non narra ma vive. Si sente viva. Scommetto che hai anche pianto mentre la scrivevi. Ho pianto: mi è parso di essere lì, ad ascoltare la storia, addirittura a narrarla. Li ho sentiti i profumi, gli effluvi, le urla, il soffiare del vento, l’affanno del respiro. Ho percepito il dolore, la rabbia, la paura, il riscatto e, nel buio della Norvegia, dove ho scritto il romanzo, ho voluto vedere una donna bionda fluttuare nelle tempeste e darle un nome.

Ci racconti del secolo scorso con l’incanto del secolo scorso. Superstizioni, magie e leggende erano la propulsione del mondo, e le donne dovevano fare i conti con un ambiente ostile, spesso respingente, rigonfio di cattiveria e pregiudizi. È per rivalsa che Dalida, la protagonista, pensa di avere il potere di dare la morte? Dalida viene ritenuta una bambina speciale: nata in una notte memorabile di vento e spiriti in volo, possiede il “dono”, secondo gli abitanti del borgo, di prevedere le tempeste e evitare, così, la morte in mare, purtroppo tanto comune ai tempi. Ma il passo che da speciale porta a maledetta è breve e scivoloso: la piccola, bellissima, intelligente e ribelle, comincia fare paura quando diventa un’adolescente; se hai il “dono”, sei una strega, e se lo sei puoi uccidere con uno sguardo. Dalida non cede, non si chiude fra le mura di casa per timore dei pettegolezzi: vuole essere libera e potente. E non le fa paura la gente, non le fa paura il mare in tempesta, non le fa paura la morte; lei è padrona del suo destino. Finché qualcuno non farà in modo di toglierle tutto, ma non ci riuscirà davvero: la protagonista non perderà mai la sua dignità.

È facile riconoscere Alghero e il suo fantastico gigante addormentato sulla linea dell’orizzonte. È facile amare il mare, la costa e il vento come la protagonista. Ma quel tuffarsi in acqua è davvero così vicino al tuffarsi nella vita? Sono stata letteralmente gettata in mare a nemmeno tre anni: lo fece il mio istruttore di nuoto. Ricordo perfettamente quel momento: se volevo non affondare dovevo muovere braccia e gambe e fondermi con il mare, cambiare consistenza, metterci coraggio e voglia di scoprire gli abissi. Così è la vita: se resti in superficie non potrai colmarti l’anima di segreti e meraviglie che solo nel profondo di abissi e pozzi di Alice possono essere raggiunti e ci danno la bellezza di vivere intensamente.

Il grande artista, psicologo e comunicatore Antonello Colledanchise, nella prefazione e postfazione ci introduce nel campo della simbologia. Ce n’è tanta nel tuo libro. L’hai ricostruita con sudore e con pazienza, o era già dentro la tua scrittura; nel pescato delle tue reti che, dicevo all’inizio, erano inconsapevolmente già il tuo viatico? E avevi dentro di te anche una simbologia così lucida? Come ho accennato all’inizio, io ero lucidissima e avevo perfettamente in mente il testo citato da Antonello Colledanchise nei suoi meravigliosi interventi e della figura archetipica della Madre potente, sia amorevole che distruttrice. Nella realtà dei fatti, mi sono incastrata in un ordito di simbologie, tradizioni, ricordi, drammi, paure e fratture degli stereotipi da cui non voglio neppure uscire, perché ho appena iniziato a vedere il disegno dell’arazzo.

Oggi cosa vuol dire “puttana”? Quando ero ragazzo si diceva per sparare la peggiore delle offese, per marchiare a fuoco una donna. Oggi credo che dire puttana offenda chi lo pronuncia, che di sicuro mostra di non aver capito niente della vita. Nel La madre del vento Dalida è cosi libera, intelligente e assoluta, che questo epiteto (di una volta), le conferisce più prestigio e più carattere. E forse, quello che veramente trovo offensivo, è quel “troppo bella” così ricorrente per farci intendere che anche quello è un muro finalmente da abbattere. Un tempo puttana era l’offesa somma per tutte le donne, qualsiasi fosse la reale colpa attribuita. Perfino Maria Maddalena ne fu vittima, e per iniziativa di un Papa, non di uno qualunque: non era una prostituta, ma una donna sola, indipendente a cui Cristo affidò il messaggio più rivoluzionario, ossia la sua resurrezione. Ovviamente rendendola puttana, se pur pentita, la si ridimensionava.Tutta la storia femminile è costellata da questo termine: per alcune fu premessa di internamento in manicomio, per altre fu calunnia che ne ostacolò la carriera, per altre ancora fu lama infilzata nelle carni dal loro compagno o ex. Per quasi tutte un insulto durante la guida se qualcuno non ha tempo di aspettare che scatti il rosso!Ovviamente offende chi la pronuncia: si tratta di un uomo debole, spaventato dalle donne, o di una donna che ha purtroppo assimilato i preconcetti del patriarcato.Ho rimarcato moltissimo la bellezza di Dalida: è troppo bella, quindi diversa dalla massa, ma ho voluto anche riflettere sul giudizio costante sul corpo delle donne; troppo non va bene, è espressione di libertà. Quindi troppo giovane, troppo vecchia, troppo truccata, troppo sciatta, troppo magra, troppo grassa. Le donne sono troppo di tutto, così come gli uomini capaci di stare al loro fianco, né davanti né un passo indietro.

Immagino che questo romanzo tu lo abbia scritto lontano da Alghero, ma si sente che mentre lo scrivevi quel mare ti accarezzava il cuore. Si percepisce quella sincerità d’affetto! In realtà uno dei grandi risultati che hai raggiunto è proprio quella sensazione di una storia scritta con un profondo amore, verso i personaggi, verso i luoghi, il mare, e il vento che spesso diventa il più enigmatico ma il più autentico dei protagonisti.  Come ho scritto in precedenza, ho scritto a Bergen, incantevole città norvegese con mare, fiordi e monti, ma quando scrivo mi è istintivo tornare a casa, ricordare la mia vita, le persone care, gli anni della mia formazione prima dell’espatrio. Non a caso ho deciso da qualche mese di rientrare in Italia, per la prima volta, dopo traslochi in varie nazioni, per necessità lavorative di mio marito in una città bellissima e circondata da montagne: Trento. Ma il mare lo porto con me, protagonista di un romanzo o onde nell’animo. E il suo mistero, che seduce, è quello della vita e, quindi, della morte.

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Un commento

  1. Grazie infinite a Pier Bruno Cosso e Massimiliano Perlato 🙏

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