di ANDREA TRAMONTE
C’è uno sceriffo “corruttibile” e un cacciatore di taglie solitario che decapita i banditi, un politico ex fuorilegge e un contadino serial killer con tendenze cannibali, una ex prostituta e una donna ricca a capo di una setta satanica, insieme ad altra umanità di varia, spesso discutibile levatura morale. Lo sfondo è la cittadina di GreenVale, luogo di frontiera circondato dal deserto e classica ambientazione western che però cela un immaginario cinematografico estremamente contaminato. Si tratta di una serie in otto puntate intitolata That dirty black bag e l’ha scritta e girata Mauro Aragoni, regista di Tortolì classe 1989. L’autore ha creato il progetto originariamente come serie sul web fino ad arrivare a una produzione hollywoodiana con star del calibro di Aidan Gillen (Ditocorto in Games of Thrones), che oggi inizia un nuovo ciclo vitale grazie allo sbarco su Netflix Usa. “È un rilancio in America che potrà raggiungere un pubblico molto più ampio rispetto alla prima uscita su Amc plus”, racconta il regista a Sardinia Post.
Aragoni in questi giorni si trova in una località non meglio precisata dell’Ogliastra. È impegnato nelle riprese di un film che verrà annunciato alla Mostra del cinema di Venezia e che dovrebbe uscire l’anno prossimo. “Posso solo dire che è una produzione internazionale realizzata anche con il sostegno della Sardegna Film commission, un horror folkloristico che rappresenta un ambito molto interessante per il futuro di questo genere”. Ma in arrivo c’è anche un fumetto sceneggiato da lui, l’episodio di una serie di Sergio Bonelli su cui al momento c’è il massimo riserbo.
Un po’ un ritorno alle origini. La serie che ti ha reso celebre è un western ibrido ma all’inizio doveva trattarsi di un horror. E’ il mio genere preferito ma in realtà mi piace di tutto. La cosa che potrebbe uscirmi meglio in realtà è un lavoro comico visto che con la troupe mentre giriamo raccontiamo tante di quelle scemenze che potremmo pure superare Boris…
Inizialmente era una web serie quasi paranormale.. Sì, un horror con ambientazione western ma poi ho optato per una serie di cambiamenti, un richiamo agli spaghetti western di Sergio Leone pur mantenendo il nucleo della trama.
Qual è? Una metafora dell’inferno, dove tutti i personaggi ripetono i loro errori per sempre, dove non c’è via di scampo a meno che non ti sacrifichi e fai un gesto buono e allora puoi vedere la luce. La serie è composta da otto film dove i personaggi sono chiusi tutti in una specie di limbo. Pur essendo una serie realistica succedono delle cose che ti fanno pensare a quella metafora.
Il tuo lavoro spinge e dilata un po’ i confini del western in un periodo in cui c’è molta attenzione sul genere in una forma però ibrida. Per esempio col successo planetario di Fallout, sorta di western retro-futurista con richiami anche all’horror. Ma anche Sergio Leone riusciva a farlo. Era un regista violento ma reale. Quello che piaceva di certi film era che non fossero splatter in modo fine a se stesso ma raccontavano storie e cose che succedevano veramente. Le persone sono attirate da storie che portano alla vita reale.
Anche Tarantino ha ripreso il western, a modo suo. La mia serie è anche un po’ Pulp e risente delle mie passioni, come appunto Tarantino e Rodriguez. In America hanno raccontato la serie come un mix tra Quentin, John Carpenter e ovviamente Sergio Leone.
Ci sarà una seconda stagione della serie? L’idea c’è ma vedremo più avanti, voglio dedicarmi ad altre cose. Sono stato sei anni dietro al western e ora ho voglia di approcciarmi a generi diversi.
Tu “nasci” come musicista: come è avvenuto il passaggio al mondo del cinema? Studiavo come tecnico del suono ed ero batterista in una band death metal, ho iniziato da ragazzino. Si trattava di roba molto tecnica, con groove: ho sempre avuto il ritmo dentro di me. Durante i tour mi chiedevo cosa volessi fare nella vita e a un certo punto mi sono reso conto che volevo provare con il cinema, dentro il quale si uniscono tutte le arti.
E il primo step qual è stato? Con la band avevamo commissionato un videoclip a un regista che aveva lavorato con Jovanotti e sul set la mia energia era cresciuta. Anziché preoccuparmi di fare il musicista aiutavo nel girare il video, mi interessavo a ogni inquadratura. Mi è sembrato che fare questo lavoro fosse possibile mentre prima, dall’esterno, chiunque pensa che il cinema sia difficilissimo. C’è tanto da studiare sul campo ma si può fare. Ho girato il primo corto tutto da solo e ho continuato a lavorare, fino a quando The dirty black bag non ha vinto premi negli Stati Uniti e – a soli 24 anni – ho avuto la possibilità di iniziare a lavorare a una grossa produzione.
Però inizialmente non ti saresti dovuto occupare della regia della serie. No e sono riuscito a convincere la produzione grazie a un corto che ho girato con Salmo in Sardegna, Nuraghes. Fatto in soli tre giorni, una specie di tesi universitaria che è piaciuta i produttori e alla società di produzione: grazie a quel lavoro mi hanno dato fiducia anche alla regia.
Tra gli attori della serie ci sono volti molto noti come quello di Ditocorto. Com’è andato il casting? Inizialmente avevamo sotto contratto Michael Madsen, attore che ha lavorato con Tarantino ne Le Iene e in Kill Bill. Addirittura mi aveva chiesto di potergli girare la sceneggiatura… Pochi giorni prima di iniziare a girare ha messo per sbaglio il passaporto in lavatrice. Abbiamo chiamato l’ambasciata per farlo partire ugualmente ma non era possibile: aveva dei precedenti e per questo non gli hanno fatto lasciare il paese. Aidan Gillen ci ha salvati. Ha letto la sceneggiatura in aereo ma aveva già detto sì. Un professionista assurdo. Un signore che faceva paura agli altri attori perché sul set sembrava pazzo, rimaneva sempre nella parte. Dopo aver girato abbiamo fatto amicizia, una persona umilissima con cui abbiamo bevuto birra e parlato di punk e rock per ore.
Invece con Salmo il rapporto com’è nato? Quando nel 2013 ho pubblicato il teaser che è diventato mezzo virale ci siamo sentiti grazie a un festival in Sardegna e poi l’ho incontrato con il fratello. Gli ho proposto l’idea di recitare nel corto: all’inizio era dubbioso perché non aveva mai recitato ma si vedeva che ne aveva tantissima voglia, così abbiamo fatto questo esperimento. Ci siamo trovati bene, forse perché siamo cresciuti guardando gli stessi film e abbiamo gli stessi gusti.
Ora stai lavorando alla tua prima grossa produzione in Sardegna. Com’è il tuo rapporto con la “scena”? E’ stato un piacere enorme conoscere i grandi registi sardi. Salvatore Mereu mi ha offerto una cena qualche mese fa, ho conosciuto Paolo Zucca che mi piace tantissimo. Anche Mario Piredda, con cui ho chiacchierato dopo i David, anche lui è super bravo.
Prossime produzioni? Tornerai a lavorare con il mondo di Hollywood? Lavorare con Hollywood e produzioni giganti è una rampa di lancio enorme ma ci sono molti compromessi e combattimenti da fare. In realtà è anche giusto così, più ci sono soldi più devi combattere, il gioco è quello e mi sono trovato molto bene con la Palomare che mi ha protetto. Quando mi hanno preso ero giovanissimo e potevano mangiarmi tutti. Forse preferisco il cinema indipendente perché c’è più libertà artistica, ma la fiducia che mi hanno dato in America quando ero giovanissimo non l’avrei ottenuta qui in Italia.
Appero’
Seu in su primu scalinu…
Dove sono state girate le riprese?