A 120 ANNI DALL’ECCIDIO DI BUGGERRU: IL 4 SETTEMBRE 1904, L’ESERCITO SPARA SUI MINATORI UCCIDENDONE QUATTRO

A Buggerru il 4 settembre del 1904 mentre era in corso uno sciopero a cui avevano aderito circa 2.000 lavoratori della miniera, l’esercito italiano giunto sul posto inviato dalla prefettura, durante le operazioni di casermaggio venne aggredito con lanci di pietre dalla folla, i militari reagirono sparando sui manifestanti uccidendone due e ferendone 13, due feriti moriranno per le ferite riportate in ospedale.

Buggerru era un grosso borgo minerario i cui abitanti giunsero nei periodi floridi sino a novemila. Era il quinto centro dell’’isola, quando Cagliari contava poco più di cinquantamila abitanti. Ogni cosa apparteneva alla società proprietaria della miniera, la “Societé anonime des mines de Malfidano”, costituita a Parigi nel 1866 suoi i pozzi, le laverie, le officine, i magazzini, sue le case, il suolo, sul quale a nessuno era consentito costruire neppure la più povera delle baracche, piantare un albero o raccogliere legna per il focolare, suoi l’ospedale, le scuole, la chiesa, il cimitero.

I privilegiati, i dirigenti e gli impiegati di grado elevato, praticavano usi raffinati e conducevano intensa vita mondana, abitavano da un lato del paese, quello più lontano dalle miniere: tutti gli altri in misere catapecchie o in case scavate nella roccia dall’altra parte della breve vallata che ancor oggi divide in due il centro minerario. Al borgo minerario veniva dato il nome di “Petit Paris”, quasi a significare la vicinanza con le abitudini d’Oltralpe.

Il plenipotenziario della società mineraria era il direttore, che in quei primi anni del secolo era un greco di Costantinopoli, l’ingegnere Achille Georgiades, la cui autorità prevaleva in larga misura su quella degli stessi depositari dei poteri istituzionali.

Dopo anni quel direttore greco, dipendente di padroni francesi in terra sarda si suicidò, quasi a voler scontare il dramma che lo vide protagonista.

opera di Liliana Cano

La residenza era una piccola reggia. Il direttore fu forse il primo in Sardegna a possedere un’’automobile, massiccia e vistosa quanto era necessario; governava un vasto popolo di minatori di oltre 2.500 unità; ad essi si aggiungevano i lavoratori della cernita, che erano in maggioranza donne, non di rado adolescenti, bambine e ragazzi. I salari andavano da un massimo di due lire e settantacinque centesimi al giorno per gli armatori che lavoravano nelle gallerie, agli ottanta centesimi per le cernitici.

Ma la società aveva tutto in paese, compresi i negozi dove c’erano i generi alimentari, vi imponeva i prezzi, per cui quello che i minatori guadagnavano lo dovevano restituire se volevano vivere.

Un sistema più vicino alla servitù della gleba che ai giorni nostri. Spaventose le condizioni umane di lavoro: non vi erano contratti di garanzia, pesantissimi i turni di lavoro, di almeno otto ore; non vi era un giorno di riposo settimanale. Tutto accadde all’improvviso, ma evidentemente il fuoco covava sotto la cenere, e quella che un tempo si chiamava coscienza di classe doveva essere ben presente, se lo sciopero per i diritti di una parte dei minatori coinvolse alla fine tutto il paese.

Il direttore, il 2 settembre, dispose l’entrata in vigore dell’orario invernale, che riduceva di un’’ora, dalle undici all’’una invece che dalle undici alle due del pomeriggio, la pausa del lavoro concessa a coloro che lavoravano fuori dalla miniera, nelle ore centrali della giornata.

A settembre però c’’era ancora caldo, e la riduzione di un’’ora di riposo sembrava impossibile. All’’una di quel giorno nessuno si presentò al lavoro. I pozzi, le laverie, le officine, i magazzini, restarono deserti. I lavoratori, in una massa che si andava ingrossando via via, si diressero verso l’’abitato e la direzione della miniera e lì si riunirono.

Quella sera giunsero a Buggerru i capi riconosciuti della federazione sarda dei minatori, Giuseppe Cavallera, giovane medico piemontese che s’era stabilito a Carloforte, e il socialista Alcibiade Battelli. Il direttore trattò con la commissione operaia, ma in realtà cercò di prendere tempo in attesa dell’’arrivo da Cagliari, come promesso dal viceprefetto, di un battaglione dell’’esercito.

Gli aiuti invocati giunsero, infine, nel pomeriggio della domenica 4 settembre. Erano costituiti da due compagnie del 42° reggimento di fanteria; i soldati, partiti all’alba in treno da Cagliari, avevano poi percorso a piedi la lunga strada da Iglesias a Buggerru.

Si decise di alloggiarli nel vasto locale della falegnameria, che tre minatori dovevano sistemare. Dalla folla degli operai si gridò perché i loro tre compagni uscissero dal fabbricato e si unissero a loro. Partirono le prime sassate, mentre i soldati disposti a presidio della falegnameria spianavano i fucili. Fu il segnale della sparatoria, che fu breve e intensa.

Sulla terra battuta della piazza giacevano una decina di minatori. Due, Felice Littera di 31 anni e Salvatore Montixi di 49, erano morti, un terzo, Giu- stino Pittau, morì dopo quindici giorni in ospedale. Un quarto minatore dell’’Oristanese morì dopo venti giorni, ma non si riuscì mai a collegare quella morte alla sparatoria.

L’’impatto fu immediato, in Sardegna e non solo. La Camera del lavoro di Milano indette proprio a seguito dei fatti di Buggerru il primo sciopero generale d’’Italia. E da quello sciopero nacque poi l’idea della prima centrale sindacale. Un momento della storia centrale per il mondo del lavoro, a cui purtroppo ne seguirono tanti altri, anche in Sardegna, con morti e feriti, soprattutto nel Sulcis-Iglesiente, per mano dei carabinieri o dei soldati.

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