Statua della giovane Jenny Nurchis nel Cimitero Monumentale di Bonaria
di ROBERTA CARBONI
Passeggiare tra i viali alberati del Cimitero di Bonaria a Cagliari è un’esperienza unica, che permette non soltanto di imbattersi nell’arte dell’Ottocento, ripercorrendone le principali tappe storico-artistiche, ma di conoscere le storie di donne e uomini del passato affidate all’immortalità della pietra.
Una volta varcata la soglia del campo antico, tra le cappelle funerarie che circondano i viali alberati, si scorge quella della famiglia Nurchis.
Sebbene versi in uno stato di decadenza e trascuratezza, per il quale si renderebbero necessari importanti interventi di restauro, lo sguardo è rapito dalla presenza di alcune pregevoli sculture realizzate nella seconda metà dell’Ottocento da due scultori di gran fama, richiamati in Sardegna dalle potenzialità di un mercato nascente – quello dell’arte funeraria – destinato a cambiare la mentalità comune. Ambrogio Celi, toscano, e Giuseppe Sartorio, piemontese, abbellirono numerosi cimiteri sardi, lasciando un’eredità scultorea di grande fascino.
Quando Napoleone Bonaparte, nel 1804, aveva promulgato l’editto di Saint Cloud, la sua visione della morte inaugurata nei primi cimiteri di Parigi era destinata a durare ben poco. Da luoghi asettici che ambivano all’ omologazione dei sepolcri, sulla scia dei diritti di uguaglianza emersi dalla Rivoluzione Francese, i cimiteri si fecero monumentali, popolati di sculture e mausolei d’inestimabile valore artistico, destinati a diventare lo specchio di cambiamenti sociali, culturali ed artistici dell’Europa ottocentesca, che esibiva con fierezza le sue innumerevoli contraddizioni.
Tra queste, una condizione ancora totalmente marginale della donna che, sebbene provasse a cercare un proprio posto nel mondo, era ancora ben lontana da un qualunque processo di emancipazione, soprattutto nella Cagliari della seconda metà dell’Ottocento.
É proprio in un contesto culturale borghese, civettuolo, ma al tempo stesso dominato dall’invidia e dalle malelingue, che si inserisce la storia di due sorelle, Amina e Jenny Nurchis, che di questa società ancora retrograda e pettegola portarono il peso, fino ad esserne schiacciate.
La famiglia Nurchis-Nonnis rappresentava un’eccezione rispetto alla mentalità comune. Due genitori progressisti, Antonio e Giuseppina, dalle idee aperte e liberali, che avevano tirato su due adolescenti curiose e appassionate, infondendo loro un gran coraggio e una immensa fiducia in sé stesse. Furono loro a spingere le ragazze a coltivare interessi e passioni: la lettura, la scrittura, la musica. E questi interessi maturarono presto, portandole a conseguire un primato oggi scontato: diplomarsi e conseguire la licenza ginnasiale in un momento storico in cui l’istruzione scolastica era appannaggio della sola classe maschile.
Erano poche, pochissime, le donne che raggiungevano un livello adeguato d’istruzione. Del resto, alle donne erano negati tantissimi diritti.
Se provenienti da una buona famiglia, alcune di loro ricevevano un’istruzione sommaria in forma privata, grazie ad un maestro che impartiva lezioni a fratelli e cugini in un contesto domestico e familiare. Si insegnava a leggere, a scrivere e far di conto. Le più fortunate avevano accesso a qualche libro di letteratura o filosofia nella biblioteca di famiglia, quando presente, ma l’elevazione culturale delle donne, si sa, non era certo una priorità sociale. Le donne dovevano pensare a trovare un buon marito, nella maggior parte adatto a soddisfare le aspettative dei genitori, e diventare “mogli affettuose” e “madri tenere”, come si legge in alcuni epitaffi riportati nei sepolcri femminili.
Eppure, leggendo l’epitaffio presente sulla tomba di Amina, si scopre che le donne, anche in una cultura misogina e intrisa di contraddizioni, potevano ambire a qualcos’altro.
Fu lei, Amina, appena diciassettenne, a lasciare questa terra, aprendo un incolmabile vuoto nella famiglia. Era il 29 Febbraio del 1884. Il suo monumento funebre, realizzato dallo scultore Ambrogio Celi, mostra un genio alato, che con raffinata compostezza di gusto ancora neoclassico, veglia il sepolcro della ragazza strappata alla vita troppo in fretta. Adagiato su una seduta sormontata da una croce, la sua mano scivola verso il basso, a mostrare fogli e quaderni, simbolo degli studi appena terminati, che riempirono d’orgoglio i genitori.
Due anni dopo, nel 1886, la seguì Jenny. Stavolta fu Giuseppe Sartorio, da pochi anni famoso in città, a realizzare il monumento funebre in onore della ragazza, dapprima attraverso una versione in gesso sistemata nel 1888 e poi con l’attuale scultura in marmo, che lo sostituì nel 1890.
Il monumento mostra a figura intera la giovane Eugenia, in ginocchio, vestita con abiti e un’acconciatura eleganti, che alza implorante verso il cielo le mani giunte: davanti a lei, per terra, giacciono alla rinfusa il violino e gli spartiti che aveva amato suonare, mentre una grande croce al suo fianco ne simboleggia la sofferenza e al tempo stesso la speranza di redenzione.
Il gesto di perdono, lo sguardo rivolto al cielo e la croce rappresentano il tentativo dell’artista di redimere la figura della ragazza di fronte all’ “insano gesto” del suicidio, che non meritava alcuna pietà da parte dei contemporanei, ma che senz’altro avrebbe incontrato il favore del buon Dio.
Jenny si tolse la vita, indubbiamente affranta dalla prematura scomparsa della sorella, ma c’era di più. Anche lei, come la povera Amina, aveva scelto di studiare, di diplomarsi, di sognare un futuro diverso.
Ma come potevano, due giovani donne, sperare di incontrare il favore di una società bigotta frequentando una scuola di soli uomini? Come potevano, tra quei futuri avvocati e quei futuri dottori, avere la pretesa di non essere giudicate, schernite e perfino ripudiate?
Le voci si spargono in fretta in una piccola città, le malelingue parlano, e perfino tra donne si arrivava ad incolparle per la loro ambizione. Fu così che in pochi anni, le due ragazze di buona famiglia che avevano scelto di studiare e che seguivano con passione i propri desideri, furono trasformate in donne di facili costumi, che tra i banchi di scuola irretivano i figli della classe borghese in ascesa e si abbandonavano a comportamenti lascivi.
Jenny, però, per un tempo sembrò trovare l’amore a consolarla. Un amore capace di colmare in parte il vuoto lasciato dalla sorella e ridarle la forza di sorridere. Almeno nelle sue aspettative. Perché quell’amore, in realtà, era troppo piccolo e fragile per resistere alla forza dirompente dei pettegolezzi, delle risatine, dei gesti di rifiuto. Eppure fu abbastanza pesante da schiacciarla e toglierle la speranza di una vita migliore di quella che aveva cominciato a conoscere.
E così, tra l’odio e l’indifferenza, se ne andò via anche Jenny, una ragazza innocente e sensibile, “buona e confidente”, la cui bellezza, affidata alle sapienti mani del Sartorio, colpisce ancora oggi.
Poco dopo, anche il padre delle due ragazze si spense nel dolore della perdita, lasciando ad un’altra donna, Giuseppina Nonnis, il difficile compito di custodirne e proteggerne il ricordo. Il suo monumento fu collocato tra quello delle due giovani.
Fu proprio Giuseppina, madre delle due fanciulle, a commissionare al Sartorio le ultime due sculture – quella di Antonio e Jenny Nurchis – scrivendo anche l’epitaffio che accompagna la tomba di Jenny e che ancora oggi suona come un rimprovero, di grande impatto emotivo:
Una storia drammatica, ancora oggi attuale, che è la storia di tante altre donne che ancora lottano per diritti che dovrebbero essere ormai acquisiti, ma che spesso vengono negati da una cultura e da una società che non dimostra di aver fatto grandi passi avanti.
Interessante questa storia!