di RITA CODA DEIANA
Ci sono storie di vita umili prive di nomi, cognomi, indirizzi, indicazioni stradali. Storie, dove è presente solo una strada, che è quella che ha percorso fin dall’infanzia la protagonista di questa storia: la strada verso la casa. Questa strada è fatta di pietra, è lastricata, ciottolata… molto accidentata, senza barriere laterali, senza strisce pedonali. Non c’è niente se non una donna, che fin da piccola non ha desiderato altro che un luogo sicuro nel quale vivere e intorno al quale creare i propri immaginari.
Questo luogo, che si è soliti definire casa, Marilena M., 38 anni nata a Cagliari, preferisce definirlo piuttosto come un involucro, un endometrio dal quale ci si può allontanare, ma in fin dei conti è là che sempre si ritorna, in un continuo viaggio a ritroso. E in questa storia, l’endometrio e la casa vanno di pari passo, in un susseguirsi di albe e tramonti che spargono qua e là colori a riempire la tela. Si, perchè se la casa è un luogo sicuro in cui vivere e crescere, una specie di arca di Noè che riuscirà a salvarci dall’ondata di piena, l’endometrio altro non è che un simbolo organico di questo luogo sicuro, di questa imbarcazione. L’endometrio è l’involucro caldo e sicuro… quell’involucro che ogni mese si modifica in base agli andamenti ormonali, si sfalda e si riforma per gonfiarsi e sfaldarsi nuovamente, ciclicamente fino alla menopausa. Questo involucro rappresenta simbolicamente la casa della femminilità, la dimora della fertilità, là dove tutto ha origine. Nella strada di Marilena , la ricerca della casa è legata indissolubilmente all’endometrio, entrambe dimore di una donna in continua scissione, tra il viaggio di andata e il viaggio di ritorno.
“Ogni trasloco da una casa all’altra si trasformava in una carovana fatta di oggetti e bagagli a mano sempre più pesanti ed ingombranti. Dentro quei bagagli non c’erano solo vestiti, giocattoli, posate e vettovaglie. C’erano anche gli odori e i sapori della casa che ci apprestavamo a lasciare, abbandonandola all’incuria del tempo o all’incuria delle persone“.
Così esordisce Marilena , la protagonista della storia. Ogni casa aveva un odore e un colore e un suono ben preciso. Ognuna sapeva di qualcosa. Forse era solo lei ad accorgersene, eppure lo sentiva perfettamente e distingueva le case grazie a questi elementi sensoriali così soggettivi, spesso sdrucciolevoli. La prima casa di cui ha memoria sorgeva nel paese natale dei suoi genitori, nel campidano della Sardegna. L’abitazione si trovava in una via stretta che terminava con una rampa di scale che conducevano alla piazza della Chiesa principale. Il rintocco delle ore e il suono delle campane scandivano la sua vita da bambina piccola, intenta a giocare con bambolotti di colore di seconda mano, seduta nel sottoscala. Quella casa aveva due piani, non era piccola, anzi ai suoi occhi infantili dava l’impressione di essere immensa, persa nelle sue mattonelle color mattone. Aveva anche un piccolo giardino sul retro, un albero di non ricorda cosa, ma che comunque dava i suoi frutti. Racconta che avevano un cane e ricorda che stava fuori, in quel piccolo ma grande giardino.
Del piano superiore ricorda davvero poco, forse la stanza matrimoniale, ma il ricordo assomiglia ad una nuvola che cambia le sembianze a seconda della posizione dalla quale la osservi. Ricorda il camino in cucina, non troppo grande, bianco, un camino che spesso faceva i capricci e li riempiva di fumo. Ricorda la fuliggine di quel camino e il suo colore grigio misto al nero della brace ancora calda. L’andito e il sottoscala erano le parti migliori della casa, spaziose e accoglienti. Giocava quasi sempre nel sottoscala, immersa nei suoi mondi fantastici fatti di mamme e di bambini obbedienti che non piangevano mai e che rispettavano gli orari. Nell’andito c’erano alcune piante da interni che la giovane madre curava e teneva in bella vista per ravvivare l’ambiente e dare un tocco di verde a quelle mattonelle opache. Le giornate trascorrevano lente e la casa placida rispecchiava la tranquillità che giaceva tutto attorno. Rimase in quella casa per circa 4 anni, prima di trasferirsi in quella che poi sarebbe diventata la casa dell’adolescenza, del cambiamento e della crescita personale; la casa in cui visse più a lungo che in tutte le altre. Marilena definisce la sua prima casa, come la “Casa Mattone”, perchè è questa la sensazione sensoriale che le attribuisce, il caldo, il colore, la rugosità e la porosità del mattone. Il mattone come simbolo di tranquillità, una tranquillità senza strattonamenti, priva di scosse telluriche. La vicinanza con la Chiesa riempiva quella dimora di suoni, quotidianamente, senza sosta. Ogni ora, ogni evento, che fosse laico o religioso, veniva emanato da quel punto focale, veniva inviato nelle case, come in un bando incessante, e nel suo comune i bandi si davano spesso, anche diverse volte nell’arco della giornata. In un paese di soli 2500 abitanti, se non meno, è la piazza della Chiesa a rappresentare il collante della cittadinanza.
Tutto ruota attorno a quella piazza, ed è lì che si svolge. Le feste patronali, le processioni, le ricorrenze estive, le manifestazioni e gli incontri: ogni cosa veniva sapientemente diretta come in un cortometraggio in cui l’imprevisto, seppur dietro l’angolo, non è contemplato. E il regista viveva proprio in quella chiesa, in quella piazza, in quei vicoli.
La casa di Marilena partecipava, indirettamente, a questa regia, ne diventava comparsa, attrice a sua volta e a sua insaputa. Anche se controvoglia appariva in ogni singola scena, e non poteva farci granchè. E Marilena con lei, nascosta nel suo ventre. Si è soliti credere che quando si cambi casa, quando avvenga un trasloco, sia la persona a lasciare la casa e non viceversa. Marilena, invece, aveva l’impressione che ad ogni trasferimento non fosse lei ad abbandonare la casa, a lasciarla, ma fosse la casa stessa a cacciarla, ad abbandonarla. Sembrava quasi che la casa sputasse fuori i suoi inquilini, con una grande smorfia sulla sua facciata, come a indicare che il cambiamento era inevitabile, necessario e implacabile.
Quando il cambiamento è repentino alcune cose si perdono per strada: si tratta principalmente di oggetti materiali, qualche foto dimenticata in qualche cassetto, qualche appendino lasciato dentro l’armadio. Ma spesso capita che si tratti di oggetti immateriali, oggetti della mente, di quella casa che ognuno di noi porta dentro di sè, e non sulle spalle come fa una tartaruga o una lumaca. Portarla sulle spalle, caricandocela addosso, sarebbe forse meglio, perchè nonostante il peso avremmo sempre la possibilità di fuggire da quella dimora, riusciremmo sempre a vederla e a decidere se abbandonarla o no, se ristrutturarla o lasciarla così. Marilena ad ogni modo era convinta che non fossero gli esseri umani a decidere il cambiamento, ma fosse lei, la casa, a prendere decisioni in merito. Racconta che del suo primo trasloco non ricorda granché, i dettagli si perdono, un pò come quelle foto nei cassetti. Non riesce a visualizzare l’esatto momento in cui lasciò quella casa, nè quello in cui entrò in quella nuova, nella Casa Bianca.
Ricorda però che il cambiamento non fu particolarmente traumatico, e probabilmente perchè era piccola e quando si hanno all’incirca 3-4 anni i ricordi sono labili e sfuggono tra le dita, e si è incapaci a trattenerli nella mente. Una cosa però la ricorda: il cane non era presente nella Casa Bianca, o per lo meno non lo ricorda in quel giardino, che dell’altro aveva ben poco. Il primo cambiamento si era verificato senza che Marilena nemmeno se ne accorgesse. Era l’infanzia a donarle il privilegio della cecità. Marilena racconta che è stata la Vita a renderla forte, ad indurirla e a renderla coraggiosa. La vita l’ha plasmata, costruendole attorno una corazza con la quale potesse affrontare le avversità che le si sarebbero presentate davanti con l’avanzare degli anni. Non ha deciso lei di essere forte, lo ha deciso la vita. Perchè la Vita a volte è così: ci cambia.
Così ha fatto con Marilena , l’ha cambiata per riuscire a farla sopravvivere a questo mondo. Ha preso la sua indole, per niente forte e coraggiosa, e ci ha dipinto sopra incurante dell’immagine già disegnata, dei lineamenti già decisi. A lei non importava, voleva solo dipingere una nuova donna che fosse diversa da quella originale, una donna capace di espandersi e di creare il Nuovo partendo dall’esistenza quotidiana, mai scontata. L’ha plasmata in quella che oggi è: una donna che riesce a trovare la forza e a risalire dai pozzi neri entro i quali spesso tende a ricadere, cronica. La corazza ha caratterizzato i suoi cammini, caricandoli di pesi spesso insopportabili, tanto da farle inarcare la schiena e renderla ansimante dopo appena qualche chilometro. Marilena confessa che ha sempre pensato che avere una corazza fosse una benedizione, una specie di fortuna che le era stata concessa da questa pazza Vita il cui senso si perde tra i viali dei giorni. Grazie alla corazza, infatti, è riuscita a salvarsi da varie situazioni, interpretando una parte ben precisa nello spettacolo degli eventi, indossando la maschera della freddezza, dell’ironia e del sarcasmo più allucinante che possa esistere. Come una bellissima dama questa casa si stagliava al centro del paese, nel mezzo della bolgia cittadina. Era stata una caserma in passato e per questo al piano inferiore si trovavano delle piccole celle, che Marilena definisce “prigioni”, con alle finestre delle sbarre in ferro ormai arruginito dal tempo. Era un edificio maestoso, con intorno diversi giardini disseminati di aranci, limoni, alberi di fichi e pergolati di uva da tavola. Il verde di tutta quella vegetazione metteva ancora più in risalto il bianco dell’edificio, la sua luce chiara dava un senso di pace fredda, quasi metallica. Marilena e la sua famiglia, abitavano al primo piano, che si raggiungeva dopo una rampa di scale parecchio fastidiose.
Un unico piano interamente bianco, pareti, piastrelle lucide, porte in legno a vetrata, caminetto, cucina, mobili delle stanze da letto. Tutto bianco. Non grigio, color perla, tortora…no: Bianco. Il suo interno si caratterizzava per un lungo corridoio stretto al lato del quale stavano le varie stanze, un salotto, una camera dei giochi, uno stanzino, il bagno, due camere da letto, e in fondo al corridoio la cucina col camino. Una casa grande, per essere su un unico piano. Una casa che doveva essere riscaldata a dovere da qualche impianto di riscaldamento centralizzato, efficiente…invece era solo il camino ad assolvere la funzione di riscaldamento. Scontato sottolineare quanto potesse essere fredda una casa in inverno con un solo camino, oltretutto piccolo. Diciamo che quando l’inverno arrivava si faceva sentire, e non come succede nelle case di oggi, nelle quali sembra estate tutto l’anno. Il freddo non la disturbava più di tanto, adorava scaldarsi davanti al camino e accumulare la sua personale riserva di calore da sfruttare nelle altre stanze. E poi si sa, scaldare troppo un’abitazione fa male sia alla casa, sia a chi ci abita. L’eccesso di calore porta sempre a delle conseguenze non proprio positive. Almeno il freddo ti rinforza e non ti lascia addosso quella sensazione di malattia perenne. Certo, la mattina a volte era difficile alzarsi ed abbandonare il tepore delle coperte per prepararsi ed andare a scuola, eppure quanto era piacevole assaporare gli ultimi minuti prima della sveglia avvolti in quel calore fatto di lenzuola di cotone, coperte di lana e copriletti imbottiti? Quella sensazione da sola bastava a farle piacere il freddo.
Era molto peggio in estate, quando la casa diventava rovente e si stava male dall’afa che si creava, soprattutto in quei pomeriggi di agosto, quando non si poteva aprire nessuna finestra per prendere aria perchè fuori c’erano 40 gradi all’ombra e non soffiava un filo di vento. Marilena racconta che chiudevano le persiane, e si chiudevano in casa, in attesa che arrivasse la sera per poter aprire almeno qualche finestra e far arieggiare un pochino le stanze per riprendere fiato, per ripulire dall’afa. Quelle attese erano infinite: la sera non arrivava mai. Momenti interminabili. L’attesa, però, aveva un sapore dolce perchè era attesa verso un miglioramento, attesa di un cambiamento positivo. L’attesa è sempre il preambolo ad un cambiamento. L’attesa permette di riflettere su ciò che sta per accadere, istruisce, diciamo così, al cambiamento.
E poichè la Vita intera è cambiamento, gli esseri umani si trovano in una continua attesa, in una eterna sala d’aspetto che ci accoglie e ci permette di sederci con calma ad aspettare. E’ nella “Casa Bianca” che Marilena ha trascorso la maggior parte dei suoi anni, i suoi anni migliori, quelli della crescita personale, dell’adolescenza, dei mutamenti interiori ed esteriori. La si potrebbe definire “Casa del Mutamento“, ma preferisce chiamarla Bianca, e lasciare che il mutamento non diventi una caratteristica di una casa soltanto, lasciando che sia un elemento comune a tutte le sue case. Mutamento come Crescita e come Differenziazione. Marilena si trasferì in questa casa all’età di 5 anni circa, e quando la lasciò aveva ormai 20 anni. In questi 15 anni quella casa era diventata un punto di riferimento, essenziale per il suo bisogno di stabilità. In quella casa ha vissuto alcuni dei momenti più belli ma anche più terribili che lei ricordi. Ed è proprio in quella casa che la sua strada ha incrociato quella dell’endometrio. Come Marilena , anche lui, era alla ricerca di una dimora definitiva, conscio del fatto che senza un punto di riferimento, un punto a cui far ritorno, l’esistenza stessa avrebbe perso di significato.
L’endometrio in questione era il suo, e le strade che percorreva alla ricerca della casa erano dentro il suo corpo, silenziosamente celate. Le strade di Marilena , e le sue, si incrociarono all’età di 12 anni, e già dal primo incontro capì che la loro storia sarebbe stata lunga e tortuosa, costellata di litigi e di dolori. Marilena parla col senno del poi, al tempo non aveva nemmeno idea di cosa fosse l’endometrio e di cosa stesse cercando. L’endometrio un tessuto, un rivestimento che ricopre e protegge, la casa per eccellenza, la dimora della fertilità e della pienezza femminile. Da lì si genera la vita, da lì deriva il potere di procreare, di creare. La donna crea, è una grande artista incompresa e misconosciuta, ma la sua è arte ed è l’arte della vita. Quel tessuto protegge la sua arte, il suo potere, è come un guardiano che ogni mese, fino alla menopausa, controlla e preserva la sua attività creatrice, moderandola attraverso la produzione di ormoni. E’ l’endometrio a decidere quando e come dare il via all’opera, scegliendo quali ormoni produrre e in quali quantità. Ogni mese si creano i presupposti per una potenziale opera d’arte, e se non viene concretizzata, l’opera d’arte si sfalda, si autodistrugge e i suoi scarti vengono riversati all’esterno. Ad ogni potenziale creazione si associa una distruzione, ad ogni attesa un cambiamento. E’ un circolo vizioso, incessante, che avviene ogni 28 giorni, ma che mai rispetta le regole. Nel caso di Marilena , le regole non ci sono mai state: faceva sempre di testa propria, mai puntuale. E ad ogni distruzione seguiva il dolore, e l’impossibilità a capirne le cause. “Sei una donna, è normale che si soffra un pò”. Così le dicevano, facendole capire che la donna era destinata a soffrire, e che tutto fosse normale. Dentro di lei sentiva che non poteva essere così, non poteva essere così doloroso, una cosa così naturale perchè doveva diventare un incubo? “Non pensarci, cerca di distrarti e vedrai che passa” ,e allora cercava di non pensarci, ignorando i messaggi che il suo endometrio le stava inviando a gran voce. L’indifferenza, ecco la vera malattia dell’umanità. Il “pensare ad altro” ignorando i segnali, i messaggi in codice e quelli cifrati, il “passarci accanto e far finta di niente”, è un grande male che ci inghiottirà tutti prima o poi. L’indifferenza non cambiava di molto le circostanze: l’endometrio stava cercando di mostrarle i suoi tentativi di fuga, stava abbandonando la sua guardiola per vagare dentro al suo corpo alla ricerca di una nuova casa, della sua dimora definitiva, e facendo questo le arrecava dolore, spasmo, contrazione, congestione.
Ogni suo tentativo di fuga era una pugnalata in pieno ventre, un dolore lancinante che gli analgesici sopprimevano così come si sopprime un ribelle che ha avuto il coraggio di mettersi contro il regime. Inascoltato, l’endometrio, ha agito per conto suo, costruendo nidi entro cui nascondersi per non essere trovato, nidi in terre lontane, terre non sue. Oggi finalmente Marilena , ha compreso quale usurpatore vive dentro di lei e quali accorgimenti deve adottare per affrontarlo ogni mese, condividendo, quella che entrambi cercavano...una casa. Il conoscere…il vedere concretizza la decisione, la rende viva e quindi possibile. Se una cosa non la vedi, ma la senti comunque parte di te, dentro di te, è più difficile prendere decisioni in merito, proprio perchè non puoi toccarla con mano, non riesci a vedere se le crepe stanno per causare il crollo, o se l’intonaco reggerà ancora per qualche anno. La senti, se ne stà dentro di te e se le fondamenta non sono salde prima o poi ci sarà il crollo, e quel crollo assomiglierà al suono di un cuore che si spezza o di un’idea che va in frantumi.