FAR SUONARE I SAPORI, FAR RISUONARE LE TRADIZIONI E IL RAPPORTO CON IL TERRITORIO CHE ESSI SPRIGIONANO: PAOLO FRESU E IL LEGAME CON IL CIBO

foto Sartini

Trentasette anni di Time In Jazz, il festival che ha fondato e che dirige a Berchidda e dintorni come presidio di arte, cultura, testimonianza della vitalità del territorio. Dove Paolo Fresu ha suonato insieme al pianista cubano Omar Sosa il concept album Food. Un lavoro che vede il contributo di Cristiano De André, del percussionista americano Andy Narrell, della cantante sudafricana Indwe, del violoncellista brasiliano Jaques Morelenbaum e del rapper americano Kokayi. Il disco, oltre a essere un’indagine sul piacere del gusto, dello stare insieme e sull’importanza di una sana alimentazione, è una riflessione sulla sostenibilità del cibo a livello mondiale. Quale aforisma di copertina il trombettista ha voluto una frase di Sandro Pertini, espressa da presidente della Repubblica nel messaggio di fine anno del 1979: “Si svuotino gli arsenali, si colmino i granai”. Lo abbiamo incontrato a margine del concerto per questa intervista. 

“La frase di Pertini è di una contemporaneità incredibile – sottolinea Paolo Fresu – Sembra essere perfetta per i nostri tempi in cui il cibo è una questione cruciale, forse la parte più importante del nostro pianeta. Nelle trasmissioni si parla di transizione ecologica ma non è trattato il concetto politico del cibo. Se fossimo in un mondo dove tutti possono mangiare ci sarebbero meno conflitti. E pensare che invece c’è spreco e ci sono ancora dei posti dove buttiamo l’acqua. Per esempio, quando l’altro giorno sono partito da Malaga con un cestino della colazione preparato dall’hotel, per passare i controlli in aeroporto ho dovuto buttare acqua e succo di frutta intonsi. Mi sono detto: chissà cosa darebbero per quella bottiglia nei luoghi del mondo dove ancora si muore di fame”.

Tra i suoi molteplici impegni e spostamenti quale formula applica per dare il giusto valore all’enogastronomia, come strumento di scoperta e piacere del buon vivere? “Il momento della tavola è un momento religioso, dà senso a una giornata magari faticosissima. Come musicista sono spesso in viaggio: quando parti non sai quando arrivi tra un aereo in ritardo, un bagaglio perso, un taxi da prendere per salire sul palco. Sedersi a tavola è convivialità, un momento di stacco in cui dividi la giornata tra fatica di viaggio e bellezza del concerto. In particolare il tempo della cena è importantissimo, se mangi bene e bevi un bicchiere di vino mentre comunichi con gli altri. Parli anche di enogastronomia, per esempio della ricchezza caleidoscopica del nostro Paese. Se salgo sul palco senza il momento della cena sarà di sicuro un concerto sbagliato”.

E si deve a un pasto con Omar Sosa l’album Food, dopo i precedenti Alma ed Eros insieme? “Nasce a cena proprio con Omar. Pensare che l’ho conosciuto quando non mangiava prima di un concerto poi, grazie a me, ha capito i benefici di farlo ed è diventato un grande appassionato di cibo e vini, specie dei naturali. In quella cena in cui abbiamo deciso di fare Food abbiamo anche deciso come affrontare il lavoro, cioè con un anno in giro per ristoranti e cantine a registrare i suoni caratteristici, dall’olio in frittura al vino versato nel bicchiere e alle voci di chi lavora. Abbiamo messo insieme i suoni e codificato in musica. L’album si compone della base musicale di suoni in cucina, voci narranti in diverse lingue e poi del contributo degli artisti ospiti. Una sorta di grande orchestra nell’idea di una pluralità di voci che raccontassero il mondo e indagassero il tema del cibo”.

Nel vostro album la cover di Fabrizio de André, Â çimma, con la voce del figlio Cristiano, propone una narrazione di voracità dei consumi nonostante la cura nella preparazione rituale di un piatto povero della cucina ligure. Viviamo in un’epoca dove la lentezza sembra un punto debole e dove si dà priorità alla foto da mettere sui social network anziché ai tempi dei profumi e del gusto? “Per me il cibo è come un concerto: è da vivere con la stessa intensità della musica. Non ho mai fotografato il cibo e, in generale, uso i social in maniera diversa. Conservi un momento preziosissimo in cui ricordare la persona là con te e cosa ti ha detto a cena: non si può ridurlo a un momento iconografico. Trovo quasi delittuosa l’idea di fermare con una foto tutta quella complessità”.

Nell’album c’è anche la Sardegna e la ricetta del vostro piatto tipico, la zuppa berchiddese, recitata in lingua sarda dal priore della chiesa di Santa Caterina di Berchidda. Se la zuppa berchiddese fosse musica quale sarebbe? “Sarebbe una musica molto succosa perché è una pietanza succulenta. È un piatto povero che mette insieme più cose diverse e che appartiene alla cucina mediterranea. Quando si mette insieme si parla di meticcio, quindi sarebbe una musica molto meticciata. I francesi direbbero musique du monde, gli inglesi world music, ma secondo me è insufficiente. ll meticcio non ha confini, ogni giorno cammina e si alimenta. Sì, la zuppa berchiddese è meticcia e Food è un album meticcio”.

Sapori e odori: qual è la tua Madeleine de Proust che evoca un ricordo familiare? “Molto semplice: su brou, il brodo di carne che mia madre mi faceva e di cui sono appassionatissimo. Oggi ha 98 anni e quando torno in paese, anche ad agosto, mi fa una minestra bollente con il brodo e ci mette il formaggio. Quella è la mia madeleine”.

Paolo Fresu ha sempre bisogno di contaminazioni musicali ma anche di sapori distanti in cucina. Se fosse nato altrove quale sarebbe la sua cucina? “Indiana o quella creola caraibica, piccantissima. Nel 1984 feci il mio primo viaggio all’estero per andare in India. Oggi è diverso ma allora fu uno shock prendere l’aereo e sbarcare a Nuova Delhi. A cena credo che stessi svenendo perché non avevo mai mangiato piccante. Poi mi è rimasta la passione per l’India. Oggi metto peperoncino ovunque e mi piace raccoglierlo a casa dalle mie bellissime piante”.

Le radici in Sardegna ma le ali per il mondo e anche a Bologna, città in cui vive. Quali piatti emiliani preferisce? “Le paste. Non lontano da dove abito c’è la Trattoria Croara. Ci ho portato chiunque dei grandi musicisti. Là fanno un elenco infinito di paste fresche e la mia grande passione sono i passatelli in brodo. Faccio ancora quello che una volta si faceva in campagna: nel brodo non metto il formaggio ma un quarto di bicchiere di Sangiovese oppure di Lambrusco”.

A proposito: è socio della Cantina sociale Giogantinu, cooperativa nata nel 1955. “Mio padre è stato sempre socio e lo siamo ancora. Era un pastore-agricoltore con animali, orto, vigna e oliveto. La campagna di Berchidda era infatti un unico strumento, non era scindibile. E il paese era stato uno dei primi a credere, negli anni ‘50, nel sistema cooperativistico. Nacque anche la cooperativa lattiero-casearia La berchiddese, un fiore all’occhiello tale che il fallimento fu una ferita profonda. Ricordo che, quando non andavo a scuola, aiutavo mio padre nella mungitura e ne ero fiero. In quel periodo sorsero, accanto a quelle del latte e del vino, anche le cooperative delle carni e dell’olio. Abbiamo scoperto che Fabrizio De Andrè era socio dell’oleificio: risulta da alcuni documenti”.

Va ancora in vigna? “Sì, mi capita. Soprattutto ho dei ricordi pazzeschi della vigna di mio padre e ancora prima di quella di mia nonna. Ho memoria di quando babbo piantò la vigna ad alberello: era una novità assoluta. O che mio nonno, a ogni vendemmia, diceva: “Raccogliete tutti gli acini perché un signore che conosco con gli acini ha fatto cento litri di vino”. Come per la tosatura, la raccolta era occasione comunitaria, di mutuo soccorso sincero tra famiglie. Oggi in vigna abbiamo soprattutto Vermentino ma in quella di mio padre, oltre a questo e alle uve da tavola, c’erano anche Muristellu, Monica e altre varietà antiche di cui non ricordo i nomi. Ci sarebbe da investire di più sulla biodiversità. Bisognerebbe reimpiantare vitigni antichi che oggi fanno la differenza in positivo: quando sei diverso in positivo hai una possibilità in più”.

Immaginiamo Paolo Fresu in una dimensione alternativa, dove fa il cuoco. Che tipo di cucina farebbe e per chi? “Se non avessi fatto il musicista avrei fatto il pastore, anche se mio padre mi diceva di fare quello che volevo ma non il pastore. Se oggi fossi cuoco userei lo stesso principio della musica: partirei dalla tradizione e addizionerei delle cose per farla diventare altro. Ma senza dimenticare i luoghi da cui sono partito. Per chi? È una domanda difficile. Non faccio musica per accontentare il pubblico, la faccio per me anche se sono contento quando la mia musica piace. Per la cucina farei la stessa cosa. In fondo cibo e musica sono due mondi sostanzialmente vicini: sono necessarie passione, artigianalità, curiosità. E serve visione: ti spinge a perseverare, a non tirarti indietro quando sbagli”.

https://foodculture.tiscali.it/ritratti/articoli/paolo-fresu-food-il-mio-rapporto-col-cibo-e-il-modo-in-cui-lo-faccio-suonare/

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Un commento

  1. Anna Maria Monti

    Grandeee da Alghero

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