UN BARATTOLO DI ORSERA: DALL’ISTRIA ALLA SARDEGNA, INTERVISTA A MARISA BRUGNA

Quest’articolo avrebbe dovuto parlare dell’integrazione e del ruolo che gli abitanti di Alghero e Fertilia hanno avuto nella drammatica vita degli esuli giuliano-dalmati, ma, nell’imprevedibilità del caso, mi sono imbattuta in un barattolo di terra.

Era un semplice barattolo, con all’interno una manciata di terriccio, attaccato aveva un’etichetta recante la scritta: “Orsera, terra di Moscate”.

È stata una delle ultime cose che ho visto uscendo dall’Ecomuseo “Egea” di Fertilia. Ma è da quella terra che inizia il nostro racconto, perché, nel 1942, in quel paese dell’Istria meridionale, è nata una bambina.

Il suo nome è Marisa Brugna, e questa è la sua storia.

È il 19 febbraio del 1949, quando, all’età di soli 6 anni, la sig.ra Marisa è costretta a lasciare la sua terra, per via dell’occupazione Jugoslava, iniziata nella primavera del ’45.

“Sono stata presa da sotto le ascelle e depositata su un peschereccio. Ero contentissima perché stavo andando in Italia, dove c’erano anche le mie amiche. Se tutti erano in Italia, e le nostre case erano occupate, noi cosa ci facevamo lì?”

Quella curiosità iniziale che proveniva dal cuore di una bambina alle prese col suo primo viaggio, però, non poteva essere condivisa dai suoi genitori, affranti dal dolore di lasciare tutto ciò che avevano costruito.

– Papà, dove ‘ndemo?

– Via, lontan!

– E per cossa ‘ndemo lontan?

– Perché no semo più paroni in casa nostra! “Sti qua i ne ga ciapà pe’l colo; i ne ga tirà via anca e ‘l fia! No se pol più viver in ‘sto mondo! I ga fato de tuto per farne scampar! No i ne vol, noialtri italiani!

(Marisa Brugna, “Memoria negata. Crescere in un centro raccolta profughi per esuli giuliani”, Condaghes, 2002)

È da quel viaggio che Marisa cambia, matura in lei la consapevolezza di star andando incontro a un destino di incognite: non sa dove andrà né cosa succederà a lei o alla sua famiglia.

Su quella barca c’era una parte del loro paese! In una semplice valigia, fosse di cartone o di legno, in un fagotto che altro non era che un canovaccio, ognuno portava via un’immensità di affetti e di ricordi. (..)

 (..) «Qua su’ste nostre tere no restarà nissun de noialtri, nissun de la nostra rassa!».

(Marisa Brugna, “Memoria negata. Crescere in un centro raccolta profughi per esuli giuliani”, Condaghes, 2002)

Arrivano a Trieste, dove alloggeranno in un silos, per circa una quindicina di giorni.

“Eravamo in un silos, una stalla enorme. Potrai immaginare lo stato d’animo, c’era chi piangeva e chi gridava, e chi invece stava in silenzio. Qua entrai in contatto con la prime promiscuità: noi eravamo al primo piano, ma a quelli superiori vi abitavano delle persone già da anni che stavano aspettando costruissero le case per i profughi. L’igiene era particolarmente carente, c’era puzza”. 

Da lì sono stati smistati dallo Stato in 109 campi profughi, e Marisa giunge con la sua famiglia a Latina. Arrivatici a bordo di un treno adibito al trasporto di profughi (con annesso cartello, come a voler sottolineare la diversità dagli “altri cittadini”) si vedono costretti ad abitare in un luogo che non ha pareti, ma tende di fortuna, e nessuna privacy. Nonostante ciò, questa povertà imposta non gli ha mai impedito di mantenere salda la propria dignità.

Ed è proprio questa dignità che li ha portati a non protestare mai contro uno Stato che non li ha tutelati abbastanza: “Mai una baruffa; mai abbiamo organizzato un sit-in, per via del nostro animo gentile e non bellicoso. Volevamo mantenere la nostra dignità”.

Finalmente, dopo quattro lunghi mesi, arrivano al Centro di raccolta profughi di Marina di Carrara dal quale usciranno dopo dieci anni. Lì Marisa inizia la prima elementare perché “aveva sete”, voleva imparare a tutti costi, dato che la scuola era la sua unica via di fuga dalla disperazione del C.R.P.

Oltre ai pidocchi, pulci, cimici e scarafaggi arriva anche la tubercolosi, che porta alla morte tantissimi ragazzi.
“L’opera di assistenza post-bellica manda tutti noi ragazzi nei preventori di alta montagna per respirare aria buona e per essere maggiormente tutelati.”

In uno di quei preventori, precisamente quello di Cima Sabauda, inizia l’ennesimo calvario per Marisa, dovuto non alla malattia, ma alla crudeltà della direttrice.

“L’orrore che ho visto lì l’ho superato scrivendo il mio libro, ma una cicatrice mi è rimasta, sul dito. Mi sono tagliata segando della legna e non sono stata medicata. Ogni volta che la vedo ritorno sempre lì”.
(La direttrice n.d.r) Era solita scegliere alcuni bambini da trattare come principi, ma l’insoddisfazione della sua vita la portava a essere sadica con gli altri.”

Le angherie subìte portano Marisa a sviluppare un importante disturbo alimentare, aggiuntosi ai traumi già pregressi. Per dare un’idea della perversione della direttrice, tale Maria Venchia Rutta, la sig.ra Marisa ricorda che tutti i ragazzi erano costretti a chiamarla “mamma”, nonostante, molti, avessero una mamma che li aspettava a casa.

La travagliata vita di Marisa prosegue nel C.R.P, e dopo esser stata oggetto di attenzioni inappropriate da parte di “un orco”, si intravede un barlume di speranza, proveniente dalla scuola. È una bambina diligente e assetata e questo la spinge a lottare pur di essere preparata da un’insegnante privata per essere ammessa alle scuole medie.

“La scuola era un santuario per me, dimenticavo il reticolato, la differenza e la povertà che mi separava dagli altri.”

Passano all’incirca dieci anni, arrivano le prime circolari che offrivano un posto agli esuli in Sardegna, a seguito della bonifica agraria.

“Terra bruciata, tutta gialla, che ci facciamo lì?”. Ormai la speranza del padre di Marisa di tornare in Istria è persa, ma decide comunque di partire con la sua famiglia

Il podere che ottengono è di due ettari, uno dei quali pietroso e incolto, ma a Marisa va bene così, perché Fertilia, paese che li ha accolti, ha il sapore della libertà. Prendono casa a Maristella, frazione di Alghero, in cui le finestre sono piccole ma si possono spalancare, le stanze hanno le pareti e soprattutto, tutte le camere hanno una porta con la chiave, compresa la sua.

La cultura sarda e quella istriana si sono fuse da subito, i locali hanno imparato a parlare il loro dialetto e viceversa, nonostante le notevoli differenze nella mentalità e nelle usanze.

Marisa si iscrive all’istituto magistrale Margherita di Castelvì di Sassari, nel ’62 vince il concorso e passa di ruolo. Conosce suo marito proprio a Fertilia, e dal loro amore nasceranno due figli.

Marisa è tornata varie volte ad Orsera e ha rivisto i luoghi della sua infanzia negata, probabilmente per poter tornare a vivere ha dovuto perdonare e lasciare andare tutto questo dolore, ma gli spauracchi del passato tornano sempre a bussare nella sua memoria e questo non lo si può dimenticare.

La storia di Marisa, in realtà, è la storia di un intero popolo espropriato e torturato, dilaniato da una vera e propria pulizia etnica operata dal governo totalitarista di Tito. Queste persone, vittime di così tante barbarie, sono state uccise due volte: la prima dalla ferocia dell’invasione jugoslava, la seconda dall’Italia stessa, che ha deciso di lasciarli ai margini della società.

Eppure, Marisa e la sua famiglia non si sono abbandonati al vittimismo, e senza piangersi addosso hanno portato con loro un granello della propria terra, l’hanno custodito con cura, mantenendo vivo il ricordo di una vita passata. Nonostante lo sradicamento, le radici di questa comunità sono diventate elastiche e si sono espanse in tutto il mondo, creandosi un nuovo ambiente in cui ricostruire, granello dopo granello, una vita degna di essere definita tale.

Quest’articolo è per tutte le persone vittime delle pulizie etniche che, ancora oggi, si verificano in molte parti del mondo. Riflettiamo su ciò che è accaduto, per schierarci e non permettere che si verifichi di nuovo.

“Ci sono tanti modi di morire: l’anima di mio padre è rimasta a Orsera. Uno dei regali più belli che ho ricevuto da lui è stato per il mio sesto compleanno, l’ultimo festeggiato in Istria. Tra i mobili già imballati, mi insegnò a ballare il valzer fischiettando un’operetta. Da quel momento in poi mio padre, uomo straordinario, non riuscì più a fischiettare. Me lo disse da grande quando, un giorno, mentre si faceva la barba, gli chiesi perché non lo facesse più. Vidi il suo volto riflesso nello specchio e gli si riempirono gli occhi di lacrime. Lui è sempre rimasto lì, ad Orsera”.

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2 commenti

  1. Maria Giovanna Dili

    Sono figlia di una profuga istriana. Nel non “fischiettare” del padre rivedo i silenzi “rumorosi” di mia madre quando si parlava dell’Istria, ed io, bambina, non capivo…

  2. Manola Bacchis

    Complimenti a Camilla Maccioni per la delicatezza nel raccontare un pezzo di storia che ancora vive e viene portato alla luce grazie a chi sa dare voce alla memoria. E grazie a TOTTUS IN PARI, come sempre.

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