UNA RICCA CORRISPONDENZA: IL PRIVILEGIO DI ESSERE PALLIATIVISTA, LA FATICA D’ESSER FIGLIA, LA FORTUNA DI AVERE UNA COMPAGNA DI VIAGGIO CON CUI CONDIVIDERE LACRIME E RIFLESSIONI

da sinistra, Barbara e Denise

C’è un po’ di autocompiacimento in questo scritto a 4 mani. Le autrici, entrambe operatrici sanitarie in cure palliative, “si compiacciono” del dolore della perdita, del distacco per la morte delle loro madri avvenuta a poche settimane di distanza e vissuta con note di comunione di sentimenti e fatiche, per le malattie del genitore e per mille altre vicissitudini che costellano le vite di chi la vita cerca di viverla. Non sono contente della loro sofferenza ma la legittimano, “se la concedono”. Passano dall’altra parte della scrivania, riducono l’asimmetria tra curanti e curati e provano, insieme a conferire al loro lutto i connotati che spesso offrono ai lutti di chi curano. Non è letteratura, è cronaca. Ma è catarsi.

Di Denise Vacca e Barbara Corrias. Un frammento di una delle tante chat telefoniche tra due operatrici in cure palliative, una psiconcologa, una palliativista. Due donne che hanno costruito ‘da grandi’ un’amicizia ‘grande’. Unite nel credo nella medicina palliativa. Unite nella quasi sincrona esperienza di assistenza della parte ultima della vita alle loro madri, avvenuta per motivi diversi ma nel medesimo contesto fisico e affettivo: la casa. Unite in sperimentazioni quotidiane di ricerche di significati senza necessariamente trovarli, ma capaci così di appassionarsi a ciò che sta subliminale, al dettaglio che fa la differenza.

Del lutto ne parliamo agli altri. Della normalità della morte nell’istante che è la vita. Sappiamo scorporare dall’oggettività le soggettività. Distinguiamo, da San Martino moderni, le specificità. Vediamo in ‘ogni altro’ una persona unica e per questo speciale. Conosciamo le regole del gioco, le solide radici dell’antropologia, della psicologia e del dolore che la cultura palliativa conosce come globale. Ci cimentiamo in ‘tempo’ e facilitiamo le ‘ricerche di senso’. Abbiamo fatto e facciamo una full immersion negli altri non necessariamente per comprenderli, opportunità tra l’altro estremamente rara, ma per accoglierli in quei livelli umani che si toccano con le grandi sofferenze, come ad esempio le malattie inguaribili e le morti.

Abbiamo impostato la nostra formazione professionale a spiegare agli altri la naturalità del processo morte e dell’evento “ultime ore”. Ci siamo impegnate a non fermarci mai nell’arte dell’apprendere, sia quando siamo discenti, sia quando siamo docenti. Abbiamo letto libri e frequentato corsi, ci siamo messe in gioco con role-playing. Abbiamo guardato in faccia noi stesse e ci siamo parlate, patteggiando con le paure, facendo armistizio con l’angoscia ed esercitando l’arte dello stare oltre che quella del fare. Ci siamo sedute e ci sediamo ogni giorno ai banchi delle vite degli altri. Le osserviamo rispettose, dosando le domande e le risposte, perseguendo modelli di empatica comprensione che non coincide con acritica giustificazione. Completiamo spesso le mezze verità dei Curanti che ci hanno preceduto nella relazione con chi è ammalato, e camminiamo al suo braccio con la Presenza che solo lui vuole, in quantità e tempo. Ma alleniamo la capacità di esserci fino a quando spieghiamo che la sofferenza del distacco e del fine vita ci sta e che anzi è anche doverosa, sia per chi muore sia per chi resta.

Ci cimentiamo nel fare tutto questo con la ‘giusta vicinanza’ che Schopenhauer ci descrive coi porcospini. E lo sappiamo: non è abitudine alla sofferenza degli altri quanto bagaglio di strumenti atti a gestire il dolore altrui.

Ma resta comunque il dolore degli altri.

Fino a quando tocca a noi…

 “Il lutto oggi è un qualcosa da saltare, non c’è il tempo di viverlo, non ti viene consentito dall’esterno perché devi reagire. Il lavoro, la famiglia ecc. non devono subire cambiamenti in termini di efficienza.

Insieme alla morte che deve avvenire velocemente, il lutto rappresenta l’altro tabù; il reale tabù è che non abbiamo spazio per accogliere e per stare dentro un dolore senza soluzione pratica, un dolore che ti porta alla disperazione e attraverso quella ti riappropri di ciò che manca.

Il lutto scombina le carte, cadono tutte quelle carte che si reggevano attraverso la malattia, la routine, il temperamento, la vitalità di chi è morto, ma lutto è anche esserti liberato di tutto questo e andare avanti più leggeri o più vuoti?

Il lutto oggi viene negato, se si tratta di una presenza dentro di te di pochi mesi ancora di più, se si tratta dell’anziano o di chi “tanto era malato” sembra quasi una fortuna che ti è capitata, ma cosa potrebbe succedere se concedessi all’altro di sgretolarsi, rompersi, distruggersi, perdersi? Cosa significa stare a con-tatto?

Il lutto è fuga, assenza di rituali familiari di condivisione che permettono di maneggiare insieme quel dolore.

Ci sono attimi in cui viene accennata l’apertura e ti viene chiesto come va? Ti emozioni e vorresti infilare lì dentro tutto ciò che provi, ma nel momento in cui stai cercando di tradurre razionalmente in parole l’emozione, dall’altra parte arriva la chiusura del “ci vuole tempo, non si risolve così, datti tempo”

Ci vuole tempo per poter elaborare una morte o per poterti occupare di chi si vive quella morte? Non c’è tempo per attendere quella risposta che mi potrebbe dare impegni in termini di presenza.

Il lutto è scomodo, è l’impegno in più che mi sporca le giornate; stare nel momento del morire mi da il ruolo dell’esserci stato, orgoglio che si traduce in curriculum da narrare nei giorni dedicati ai rituali funebri, ma dopo devo riprendere velocemente quello che ho perso e che non è la persona che è morta, ma è il lavoro, la carriera, l’efficienza nei rapporti sociali.

Il lutto è dignità di vita di chi resta e di chi muore, non dev’essere velocizzato, sminuito, banalizzato, spiegato e tappato. Il lutto deve respirare”.

“Amica mia, sorella di spirito, co-pilota di ricerche di senso, stai vivendo, anzi masticando il tuo lutto e con queste tue riflessioni mi dai una giustificazione in più dei numerosi lutti in cui navigo in questo momento.

A mio parere e spero di non sbagliarmi, non siamo patologiche. Siamo consapevoli che nella nostra morte interiore per le morti esteriori che ci sono capitate, fisiche o metaforiche, necessitiamo di scandagliarlo questo lutto. Ci soffermiamo e a momenti ci blocchiamo. Ma probabilmente non c’è esperienza più vitale della nostra per gestire il lutto.

É l’esperienza di chi si guarda allo specchio ma non vede il proprio riflesso perché è sottratto dalle morti capitate, perché di fatto abbiamo perso un pezzo di noi.

Sto imparando da un po’ a lasciarmi tempo, a farlo scorrere saltando i flutti dei miei mari agitati quando sono pronta a prendere la rincorsa ma anche facendomi travolgere dall’onda quando sono fuori tempo rispetto al tempo esterno…

Ecco le tue riflessioni hanno abbracciato le mie e forse mi aiutano anche a non sentirmi in colpa del mio mal-vivere, che è comunque una tensione a procedere.”

Non ci siamo chieste perché, né abbiamo detto “lo sapevo ma non così tanto”. Non ce la siamo prese con nessuno. Abbiamo cercato solitudini che abbiamo riempito di lacrime; le abbiamo alternate a condivisioni che abbiamo sancito di caffè ai chioschi della spiaggia, di cibo greco in un ristorante in città, in un breve ma intenso corso di letteratura per bambini che danno chiavi di lettura anche ai grandi… Tutto scorre come l’acqua, ma certe volte è come l’acqua delle fontane dei presepi: la stessa che gira e rigira.

“È esercizio a scomporre per trovare gli incastri giusti dei nuovi tasselli.

Ancora una volta è però prova di congiunzioni astrali, allineamenti tra menti, le nostre, che in un consapevole e a volte doloroso mutuo aiuto, cerchiamo non la via di fuga ma il nuovo sentiero da battere”.

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3 commenti

  1. Stefania Altea

    Non solo grandi competenze, ma insieme grande forza e grande risorsa per le cure palliative ❤️❤️❤️❤️❤️

  2. Siete meravigliose Denise e Barbara

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