di MICHELA MAGLIONA
Brava Silvana Mulas che con il suo romanzo storico è riuscita a parlare molto di più che una frana. Un evento drammatico dalle cui macerie vengono fuori storie di donne che lottano per autodeterminarsi, per non essere oppresse da una società che le tiene ai margini, che le vuole piegate, mute e ubbidienti. Una società che le disprezza, le umilia, le maltratta, le sfrutta e poi le getta via come un oggetto di nessun valore. Alcune storie sono così crude che mentre le leggevo, scalpitavo nella speranza di una ribellione, di un riscatto che qualche volta, come nella vita reale, arriva glorioso e fa tirare un sospiro di sollievo. Silvana ci fa amare ognuno dei personaggi che animano i diversi racconti, insieme ai quali si ripercorre la memoria storica di un paese messo in ginocchio da un evento straordinario, forse preannunciato ma impossibile da evitare, soprattutto in un paese oppresso dalla povertà, dove non c’è spazio che per la sopravvivenza.
Luisa dopo sessant’anni ritorna nel suo paese, teatro di dolci ricordi legati all’infanzia ma anche di un dolore che è più simile a un tradimento:
“Il suo paese era quello di cui aveva conservato nella memoria le strade, la piazza, la chiesa, le case, i vicinati, i visi e i nomi delle persone. Aveva conservato le loro storie di vite semplici e faticose, sempre ai margini, schiacciate sotto il peso del lavoro e della miseria ma anche dagli sguardi malevoli della gente, qualche volta. (…) Sentiva gli odori dei fiori, della terra, degli animali. L’odore intenso del letame, quello penetrante del frantoio e delle olive appena macinate, quello caldo e morbido della farina che usciva dal mulino, l’odore dolce del mosto e dell’uva macinata nelle cantine, l’odore aspro e amaro del vino nero che si diffondeva nelle strade. (…) Tutto sepolto sotto i detriti della vecchia frana, sotto l’erba che si riprendeva lo spazio, mentre il paese ritornava campagna”. E pian piano riaffiorano i ricordi di una vita passata, quasi appositamente accantonata in un angolo di cuore, perché Luisa è scappata da quel suo paese per fuggire non dalla frana ma da un passato di sopraffazione.
“Meglio andare altrove a cercare un po’ di vita e di libertà, lì dove nessuno ti conosce e dove nessuno ti può giudicare, per condannarti e gettarti in faccia la tua vergogna.”
Questo libro è uno spaccato di vita del passato, di una società dura, a tratti crudele in cui la donna vive una condizione di abuso, sottomissione e rassegnazione che oggi risulta insopportabile ma poi c’è la speranza che in ogni pagina viene fuori attraverso una figura affascinante che è la maestra del paese. Ausilia spicca tra tutte le altre donne per la sua orgogliosa modernità, lei è colta, libera, è il simbolo di un futuro rivoluzionario. Rappresenta lo spiraglio di vita a cui aggrapparsi per liberarsi di un’esistenza prigioniera della privazione, del sopruso e della sofferenza in cui vivono i figli dell’ignoranza, della chiusura mentale, della povertà di spirito. È la finestra su un mondo possibile a cui aspirare o affidare i propri figli. Quelli che subiscono ingiustamente, quelli maltrattati, deprivati di ogni diritto o protezione. Figli gettati in un mondo che li rifiuta per colpe che non hanno commesso, che non possono nemmeno comprendere fino in fondo ma alle quali devono sopravvivere con ogni mezzo possibile.
Paradossalmente per Luisa è proprio la violenza a donarle l’unica possibilità di rinascita, di vita vera che va oltre il già scritto, un po’ come se Silvana ci avesse voluto dare un messaggio di resilienza attraverso la storia di Luisa.
Anche dalle macerie può nascere qualcosa di buono.
La frana, Silvana Mulas, Catartica Edizioni, Collana Hic Nos, 2023.