UN TUFFO NEL PASSATO: RISCOPRIRE LA STORIA DIMENTICATA DELLE ANTICHE MINIERE

Ci fu un tempo in cui la Sardegna era uno dei principali poli metallurgici d’Europa. Migliaia di minatori si inoltravano nelle viscere della terra per estrarre zolfo, rame, piombo, zinco, argento. I minerali, caricati su grandi navi, venivano poi esportati in tutto il mondo. Di quei tempi rimangono imponenti vestigia, strutture che sono rimaste semi abbandonate per decenni e che oggi sono parzialmente visitabili grazie a un’importante opera di rigenerazione. Sono testimonianze di una storia collettiva in larga parte rimossa, di fatiche e di sudore, di sfruttamento delle persone e delle risorse del sottosuolo.

La gran parte dei siti si trova nel Sulcis-Iglesiente, nella parte sudoccidentale dell’isola. È dalla miniera di Rosas, vicino al paese di Narcao, che il viaggio può avere inizio. Arrivarci equivale a fare un tuffo nel passato: perfettamente conservato, l’ex villaggio sembra il set di un film western. Nato intorno alla miniera alla metà dell’ottocento, ospitava 750 minatori con le loro famiglie. C’era un ufficio postale, un centro direzionale, lo spaccio alimentare, la scuola elementare per i figli degli operai (dalle medie venivano impiegati in miniera). Oggi le case dei minatori sono state convertite in alloggi per turisti e visitatori, il centro direzionale in un ristorante, la fucina del fabbro è un bar.

Nell’Ecomuseo miniere di Rosas si ripercorre la storia della miniera, cominciata ufficialmente nel 1851 con la firma della concessione da parte di Vittorio Emanuele II, re di Sardegna e di Cipro. Si vedono gli strumenti utilizzati per l’estrazione, i minerali, le interviste video in cui gli ex minatori raccontano come si svolgeva il duro lavoro di scavo. Sopra il museo c’è la laveria, il luogo dove il materiale estratto veniva lavato per purificare i minerali. I macchinari sono perfettamente conservati, i grandi mulini a sfere possono essere azionati, in una suggestiva cornice multimediale che cerca di ricreare l’ambiente di lavoro dell’epoca.

La storia recente di Rosas è legata alla determinazione di un uomo, Gianfranco Tunis, più volte sindaco di Narcao e oggi presidente dell’associazione miniere Rosas. Fu lui che nel 1980 si oppose allo smantellamento del sito, quando la società che gestiva la miniera iniziò a dismetterlo. Minacciando di citarla in giudizio per disastro ambientale, costrinse la società a vendere il sito al comune al prezzo simbolico di mille lire. Grazie a lui l’ecomuseo è oggi una realtà che dà lavoro a trenta persone e accoglie 12mila visitatori ogni anno.

Il viaggio prosegue verso Monteponi, il villaggio minerario più importante di tutta la Sardegna. Qui ci si può inoltrare all’interno della galleria Villamarina, vera e propria vetrina di un sito estrattivo che conta 80 chilometri di tunnel. L’itinerario ha due ingressi a 70 metri l’uno dall’altro e incrocia i due grandi pozzi di estrazione, il pozzo Vittorio e il pozzo Sella. Se il primo deve il suo nome al re, il secondo omaggia il deputato e ministro piemontese Quintino Sella, che nel 1869 viaggiò a piedi e a cavallo tra i vari siti per i lavori di una commissione parlamentare d’inchiesta sulle miniere sarde.

Ingegnere minerario prima che parlamentare, Sella scrisse una celebre relazione pubblicata nel 1871 in cui mise in luce le condizioni di lavoro degli operai ma anche il potenziale di queste miniere, che mostrano “l’effetto di un risveglio industriale così vivo ed operoso”. Proprio il viaggio di Sella ha ispirato il cammino di Santa Barbara, un trekking ad anello di 500 chilometri da compiere a piedi o a cavallo a partire da Iglesias lungo i principali siti d’estrazione, la cui prima tappa tocca proprio Monteponi (per informazioni su tragitto e ospitalità: camminominerariodisantabarbara.org).

Poco più a nord, lungo la costa che si snoda tra paesaggi da cartolina e tornanti a strapiombo, si arriva al villaggio fantasma di Nebida abbarbicato sulla montagna con la sua celebre laveria Lamarmora proprio in riva al mare, da dove il minerale veniva caricato sulle navi. Il complesso è in rovina ma la vista a picco sull’acqua è davvero suggestiva. Ancora qualche curva e si raggiunge Masua. Qui è possibile visitare il sito di Porto Flavia, una specie di porto sospeso tra cielo e mare. Lo compongono due gallerie sovrapposte: nella prima correva un treno che scaricava i materiali estratti nelle miniere vicine in gigantesche cavità scavate nella roccia. Queste si aprono sulla galleria sottostante, attraverso la quale i materiali venivano caricati sulle navi con un braccio meccanico.

Il sito, inaugurato nel 1924 dall’ingegner Cesare Vecelli e così chiamato in onore della sua unica figlia Flavia, ha rappresentato un’enorme innovazione: fino ad allora i minerali erano caricati a mano sulle galanze, le navi a vela che li trasportavano fino alla vicina isola di Carloforte, da dove poi erano trasportati sul continente. Dallo sbocco della galleria, la vista a picco sul mare è impressionante: proprio di fronte a Porto Flavia si staglia il Pan di zucchero, il faraglione più alto di tutto il Mediterraneo, così chiamato per la somiglianza con il colle che sovrasta Rio de Janeiro.

Bisogna continuare lungo la provinciale che si snoda lungo la costa per raggiungere Buggerru. Soprannominato all’apice della saga estrattiva la “piccola Parigi” per l’ambiente culturale raffinato ricreato dai dirigenti minerari, questo villaggio lega il suo nome a un evento dimenticato ma assai rilevante per la storia nazionale. Qui, il 4 settembre 1904, venne organizzato uno sciopero dei minatori che fu represso dall’esercito nel sangue, con tre morti e decine di feriti. Proprio per i fatti di Buggerru fu proclamato il primo sciopero generale d’Italia, che andò avanti in tutto il paese dal 16 al 21 settembre.

Questo viaggio sulle tracce del passato minerario della Sardegna non può che concludersi a Carbonia, la città costruita dal nulla nel 1937, quando Benito Mussolini decise di rispondere alle sanzioni per l’invasione dell’Etiopia con la politica dell’autarchia. I minatori chiamati a sfruttare la gigantesca miniera di Serbariu vennero attratti nella nuova città grazie a condizioni di vita molto agevoli per l’epoca, con case dotate di bagni privati e piccoli giardini.

Ma alla Carbonia di sopra corrispondeva quella di sotto, in cui gli operai erano pagati a cottimo e cacciati da un giorno all’altro se non avessero estratto una quantità minima di carbone. Il museo del carbone mostra fin dal suo ingresso tutte le contraddizioni di questa città duplice, che arrivò negli anni cinquanta a contare 52mila abitanti.

All’entrata del sito si può leggere una scritta fatta apporre dallo stesso Mussolini: “Coloro che io preferisco sono quelli che lavorano duro, secco, sodo, in obbedienza e, possibilmente, in silenzio”. Condizioni di lavoro che portarono, nei trentacinque anni di attività, a 357 decessi – senza contare i morti successivi per malattie polmonari.

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