di SERGIO PORTAS
Ci vuole un bel coraggio a presentare un tuo libro, un tuo scritto, alla Casa della Cultura di via Borgogna, appena dietro la milanesissima piazza San Babila. Scendendo gli scalini di quella che, nella Milano del ‘48 era una cantina che, scriverà Rossana Rossanda nella sua imperdibile autobiografia: “La ragazza del secolo scorso” (Einaudi ed.): “…della quale si dovettero ingegnosamente occultare le tubature e sfidare gli enormi topi” (pag.155), sbatti il muso su di una serie di foto in bianco e nero , di non grande formato, di gente che l’ha frequentata negli anni. Nel fare il gioco del riconoscimento, risulta facile dare un nome a Umberto Eco, a un giovane Massimo Cacciari dalla barba nerissima, a Norberto Bobbio più magro e occhialuto che mai, e Margherita Hack con la sua aurea paciosa di casalinga friulana, o Fernanda Pivano che sta tra Cesare Musatti e un Bettino Craxi assolutamente irriconoscibile, tanto è magro e tirato e ancora ricco di capelli. E ancora, Montanelli e Michele Serra, Giorgio Bocca e Moni Ovadia, più difficile riconoscere Zygmunt Bauman o Vincenzo Consolo. La foto della Rossanda la ritrae di lato, i capelli prematuramente bianchi, mentre prende appunti. Lei l’avrebbe diretta per dodici anni, sin dal 1950. Era nata nel 1946 (siamo coetanei) come “rinascita culturale antifascista”, da una iniziativa di Antonio Banfi, filosofo e docente comunista, e un numeroso gruppo di intellettuali (uno per tutti: Vittorini) decisi a dar vita ad una associazione di persone che “ hanno sempre creduto e credono nella democrazia culturale, che hanno cercato di approfondire e far amare valori come la libertà, l’autonomia, la consapevolezza, la tolleranza”. Debbo dire che la Casa della Cultura porta benissimo i settant’otto anni di vita, è ancora uno di quei posti di Milano dove, senza dover pagare biglietto alcuno, puoi davvero assistere a dibattiti che si svolgono su di una miriade di problematiche che spaziano dalla politica, alla letteratura, alla psicanalisi, alla poesia. Da un po’ di anni Duccio Demetrio, pedagogista e filosofo milanese, che dirige un suo laboratorio di scrittura autobiografica, mandando in stampa una rivista, che prende spunto dai seminari universitari della Statale, intrattiene un rapporto privilegiato con la associazione milanese di via Borgogna. Scrive Demetrio: “ La narrazione non è un modo come gli altri per descrivere il proprio essere adulti, per spiegarsi e porsi interrogativi di senso. Il racconto, nelle sue manifestazioni intime, pubbliche, ed emozionali è il più importante indicatore e dispositivo discorsivo che ci consente di agire e vivere la propria e altrui adultità. Attraverso la parola si esprime la nostra soggettività irriducibile, la nostra idea della vita e dei suoi significati immantinenti o trascendenti. Parole queste che ben si attagliano all’evento che ha visto protagonista Giorgio Pisano, cagliaritano che vive a Milano sin dal 1968, nel presentare un suo scritto: “Le fotografie ritrovate, una storia cagliaritana” (Europa Edizioni). A fargli da contraltare: Giacomo Mameli, che ne scrive anche la prefazione, giornalista e scrittore che dalla sua Perdasdefogu ha saputo elevarsi a vette di scrittura di assoluto rilievo nel panorama letterario sardo, Franca Pizzini, ricercatrice, titolare del corso di sociologia della medicina all’Università degli Studi di Milano, scrittrice di numerosi libri sulla salute riproduttiva, nonché numerosi articoli su riviste italiane e straniere, e Margò Volo, attrice che da trentacinque anni di lavoro mette in scena in modo poliedrico i propri monologhi (comici) ma anche drammatici, in una continua evoluzione e ricerca. In teatro, in tv, alla radio, come docente di recitazione e arti sceniche. Ne è nato un pomeriggio piacevole in cui si è dipanata una storia, con sottofondo la Cagliari degli anni di guerra, quando veniva bombardata dagli aerei alleati perché centro strategico di quella “portaerei mediterranea” che era la Sardegna, con deviazioni assolutamente cervellotiche, tipiche delle guerre d’oggi tempo, come quelle che portarono alla strage di Gonnosfanadiga, dove al solito morirono civili e bambini (118 morti, 17 febbraio 1943, pag.9). Lo stesso, in scala ben più industriale, sta succedendo oggi a Gaza, dove l’esercito israeliano, nel tentativo di cancellare Hamas dalla faccia della terra, bombarda a tabula rasa e, a oggi, tredicimila bambini palestinesi sono morti di bombe e case loro crollate addosso. Il resto per arrivare a trentacinquemila soprattutto vecchi e donne. Anche Cagliari subì una serie di bombardamenti che ne distrussero le sedi abitative, chiese e edifici pubblici, al porto fu riservato un trattamento tutto particolare ovviamente. Fortunatamente gli abitanti non avevano intorno carri armati che li costringessero al mare, né muri che li contenessero a forza nelle rovine degli edifici, quindi se ne fuggirono “in campagna”, nei paesi in cui avevano parenti o amici che potessero agevolarli nel cercare un alloggio. Non furono, né potevano esserlo, tutte rose e fiori, scrive Pisano a pag.39: “ I cagliaritani (is casteddaius) non erano molto amati nel resto dell’isola; un po’ per la consueta invidia delle campagne per la città, un po’ perché la distanza tra la città e la campagna era a quei tempi ben più marcata di quanto non lo sia oggi”. E quando in quel paesello, distante 60 chilometri da Cagliari, arrivarono i Pisano, mamma incinta ( nascerà Piera) attorniata da altri otto marmocchi, il babbo in giro per le sedi dove era destinato dai suoi obblighi di lavoro, non trovarono certo un comitato di benvenuto pronto ad accoglierli. Corrado il più grande e il più incorreggibile, destinato a castighi memorabili in cui le cinghiate non erano i mezzi di correzione usati i peggiori, Maria Carla la “sorella maggiore” sui dodici anni, eppure caricata di responsabilità troppo più gravi della sua giovane età: memorabile la scorpacciata di fichi d’india, nel mentre portava Piera dalla balia: “…quella miriade di spine era penetrata dentro il fagottino. La povera Piera pianse per non so quanti giorni e notti ininterrottamente. Memorabile restò la bastonata che si beccò Maria Carla” (pag.46). Bastonate democratiche, sia per maschi o sia per femmine, nessuna differenza per genere. La “tribù” doveva essere disciplinata, le botte ( di mamma) servivano a tenere tutti in riga. Si mangiava in rigoroso silenzio, che babbo doveva sentire il suo radiogiornale quotidiano. Dice Giorgio Pisano di non avere ricordo di baci materni, nella sua fanciullezza, tranne di uno che doveva rimanergli stampato nella memoria: alla partenza del treno, nella stazione di Cagliari, che doveva portarlo a Olbia, e di qui in continente, verso Imperia e una sua vocazione, assai poco salda in verità, ( tornò in famiglia l’anno dopo) che lo avrebbe dovuto instradare nella carriera religiosa. Da che Lev Tolstoy iniziò la sua “Anna Karenina” meditando sulla “infelicità delle famiglie” ( ma ci sono, per lui, anche famiglie felici) intere biblioteche sono state scritte su codesta istituzione che porta noi sapiens a essere quello che siamo. Nel dopoguerra nacquero due altri bimbi in casa Pisano e, nel novero dei figli, tocca metterne altri tre che non erano sopravvissuti. E che il babbo fotografò, così come aveva fotografato le rovine di Cagliari, quelle foto “ritrovate” che ci permettono ora di vedere la capitale sarda in ginocchio. E buona parte del libro ce la descriverà nella sua rinascita. Per chi conosce la città è un vero spasso vedersela dipingere dallo sguardo di un ragazzino per cui tutto è meraviglia di scoperte e novità. La guerra? Rimane in sottordine, quella che davvero non si può dimenticare è la fame, onnipresente almeno fino al periodo della “rinascita”. Quando il babbo, lasciato l’impiego sicuro, si volle trasformare in commerciante, con alterna fortuna in verità. Dice Giacomo Mameli: “Cagliari non ha mai avuto una narrazione di questo periodo storico, le foto scattate dal padre di Giorgio sono una sociologia visiva. Appaiono finalmente gli uomini, con sotto-sfondo cumuli di macerie, nei nostri libri di storia l’uomo in carne e ossa non c’era mai, non c’era la società civile. L’importanza del cibo di ogni giorno. Ne ho scritto anche io nel mio: “ La ghianda è una ciliegia” (CUEC, 2006). Nel febbraio del’43 bombardieri sopra Perdasdefogu, ammazzano tre vacche: finalmente una scorpacciata di carne macellata. Ho avuto la fortuna di avere un maestro in prima elementare che veniva da Dorgali e che ci spingeva ad andare a sentire i comizi, e mio padre che da giovane si era scoperto sardista mi portava al cinema a sentire Mario Melis che parlava. Io sono un industrialista convinto, quando negli anni ‘70 è finalmente arrivata l’industria in Sardegna in miniera erano già morti 2874 lavoratori. L’industrializzazione cambia la prospettiva e Cagliari diventa una calamita di chi cerca lavoro. Dalla solitudine del pastore al consiglio di fabbrica”. Dice Giorgio Pisano che senza quella rompiscatole della sua amica Franca Pizzini ( che anche legge e corregge) il libro non sarebbe mai venuto al mondo, lo ha anche convinto a non intitolarlo:”Cagliari mon amour” . Al sentire Margò Volo evocare con voce intonata gli episodi della sua vita, Giorgio Pisano si commuove; di questa sua Cagliari che pur ha lasciato per venire a lavorare in continente doveva essere un poco innamorato, e come dice il proverbio: “Il primo amore…”