di GIANRAIMONDO FARINA
I diritti feudali nella Regia Contea del Gocéano
dai documenti dell’Archivio di Stato di Cagliari: nuovi spunti di lettura storico- economica alla base ed oltre la Sarda Rivoluzione (1720- 1820).
La questione ademprivile, quindi, che sottendeva sostanzialmente l’equilibrio economico d’ancien régime, cui il Gocéano era tornato dopo i “torbidi”, mai sopiti, della Sarda Rivoluzione, rimaneva, immutata, sullo sfondo, anche nei decenni successivi. E tale era, alla vigilia della promulgazione di un Editto “famigerato” e famoso come quello delle Chiudende che avrebbe toccato, sebbene con connotati diversi, la proprietà fondiaria di un territorio prevalentemente regio e demaniale da secoli. Per capire, quindi, quello che nei primi decenni del XIX° stava accadendo nella Regia Contea occorre rifarsi alle reali preoccupazioni che i responsabili del Governo vi nutrivano. Queste preoccupazioni rimanevano vive e vivide fin dal primo decennio della dominazione sabauda sull’isola e ben si possono dedurre dall’esame fatto dal sottoscritto di un vasto e consistente materiale documentario riguardante la Sardegna conservato sia presso l’Archivio di stato di Cagliari che presso l’Archivio di Stato di Torino. Materiale solo in parte esplorato. Per quel che ci riguarda assume, pertanto, un particolare rilievo, dal punto di vista storico economico ed amministrativo, quanto rinvenuto nelle sezioni Antico Archivio Regio, Regio Demanio– affari diversi, Segreteria di stato – II serie e Reale Udienza- cause civili dell’Archivio di Stato di Cagliari. Ad esse vanno uniti i risultati di quanto rinvenuto nella Sezione Corte- Sardegna, fondi Materie ecclesiastiche e Materie feudali dell’Archivio di Stato di Torino durante l’arco temporale compreso fra il 1720 ed il 1820.
Nello specifico si tratta di un ingente materiale documentario, riguardante, per lo più, l’amministrazione della Regia Contea di Gocéano, che ben può spiegare, da vicino, la difficile situazione di questa contrada già delineata nelle due relazioni governative Mameli e Des Hayes . Con questo materiale si cerca, innanzitutto, di “entrare”, per la prima volta, nella conoscenza dell’amministrazione della Regia Contea in età moderna, con la citazione di alcuni governatori del feudo e la trattazione di vicende fiscali e fondiarie poco note.
E per affrontare questo passaggio non si può certamente non partire da quanto rinvenuto nell’Archivio di Stato di Cagliari per il periodo considerato. Partendo, appunto dai diritti feudali per il Gocéano..
Si parte dall’esame di un documento attestante l’esazione e l’esercizio dei diritti feudali nel 1779. Tale documento è di una certa importanza perché vi viene, da subito, delineata, la cosiddetta “gerarchia feudale” della Regia Contea di Gocéano. Nello specifico, a livello comunale, i poteri erano seguenti: maggiore di giustizia che, oltre a problemi di ordine pubblico si occupava delle liste feudali per pagarne i diritti; vicemaggiore di giustizia, detto scambio, ed i giurati del luogo. A questi si aggiungevano, “frutto” dell’allora recente riforma amministrativa locale sarda, il sindaco, il segretario del consiglio comunitativo ed i maggiori di vidazzone e di prato.
Il parroco, il censore dell’agricoltura facevano, poi, parte delle massime autorità del Monte Granatico. A livello generale la Contea era amministrata da un giudice feudale o reggidore per conto del Re, di stanza a Bono. L’esame di questa documentazione fa, altresì, emergere, il ruolo centrale assurto dalla figura dei probi uomini, probomines, saggi che intervenivano anche per acomodai le faide e asetiai is mortis, anche con atti notarili rogati per la pace (il desistiment dal clam criminal), con la cornice del perdono evangelico.
Molto interessante è quanto emerge nel fondo Regio Demanio, Affari diversi, volumi 244-265, proprio in merito alla dinamica degli appalti nel periodo in questione. Il primo arrendatore accertato nella Regia Contea del Goceano sotto i Savoia fu, nel 1724, Francesco Ignazio Satta per 750 scudi ciascun anno per due anni, con fideiussoreNiccolò Arras di Bono. Incarico riconfermato nel 1726 con fideiussori, questa volta, oltre il citato Niccolò Arras, anche Michele Carta di Benetutti e Niccolò Ambrogio Mulas di Bono. Si arriva al 1765 con le rendite del Gocéano assegnate a Giacomo Angelo Scanu (Escano) per sei anni per 2250 lire ogni anno. Fideiussore dello Scanu risultava essere il nobile Gavino Tealdi di Sassari, proprietario di vari beni a Sassari e nel contado: come un palazzo nel centro cittadino del valore di mille scudi, una casa con due appartamenti in S. Gavino a Portotorres, sei case, terreni ed un palazzetto in via San Nicola e nella corte denominata dei Pittalis, di un valore di 750 scudi. A questo si aggiungevano vacche, maiali, capre e pecore per il valore di tremila lire e ricchi mobili per mille scudi
Dall’esame dei documenti afferenti alla seconda metà del XVIII, per la precisione dal 1766 al 1792 emerge, invece, il passaggio dell’amministrazione delle rendite che la garanzia della fideiussione in mani totalmente “goceanine” e bonesi o, meglio, delle famiglie che maggiormente, nel territorio, si troveranno ad affiancare la rivoluzione angioyana del 1793-1796 come gli Arras Minutili o i Mulas Rubata. Per la precisione, il 12 dicembre 1766 veniva nominato arrendatore della Regia Contea del Goceano, per quattro anni, don Taddeo Arras Minutili per 2625 lire. Non si trattava di un personaggio qualsiasi, ma dello zio materno di Giovanni Maria Angioy (1751- 1808), l’Alternos della Sarda Rivoluzione, che lo educherà ai primi rudimenti della grammatica. Molto interessante era, poi, anche la figura del fideiussore, quel don Antonio Mulas Rubatta che, dai registri parrocchiali di Bono risulta come Don Antonio Sisinio Mulas Rubata (1721-1779) (“Albero genealogico della famiglia Mulas Rubatta di Bono”, in Araldica Sardegna, pp.1-6). Il titolo nobiliare dei Mulas Rubata ha origine da don Nicolò Ambrogio Mulas (1689- 1754), che aveva ottenuto il titolo di cavaliere nobiliare nel 1729. Figlio di don Antonio Mulas Rubatta era don Andrea, sposato con donna Agostina Carta di Oristano che fu assassinato a Bono, il 7 febbraio 1798 nei “torbidi” successivi alla sarda rivoluzione come esponente del partito angioyano. Suo fratello era don Felice (1760- 1826), cognato di Giovanni Maria, sposato con donna Maria Grazia Angioy in prime nozze, sorella dell’Alternos, e, poi, alla morte di quest’ultima, con Anna Crobu, anch’egli afferente al partito angioyano. La fideiussione di don Antonio Mulas Rubata metteva in gioco una tanca (terreno) a Bono del valore di 800 scudi, 200 starelli di seminativo, sempre a Bono, del valore di 200 scudi, due vigne alberate di 600 scudi, il palazzo padronale in Bono del valore di mille scudi (si legge più precisamente nel testo: “(…) fideussore don Antonio Mulas Rubata di Bono” per hallarse con bastantes bienes semoventes, una tanca serrada para apasentar ganado” a Bono del valore di 800 scudi “por razon que abastaria 100 bueyes cada anno”, 200 starelli di semina “labranza” a Bono del valore di 300 scudi, due vigna “arboladas de sepas y arboles fructiferos”, 600 scudi, “dominario de casas en que abita”, dentro l’abitato di Bono del valore di mille scudi, “20 comunes de varios ganados”, del valore di due mila scudi, “sin otro muchos ragiros, hombre bastante caudales y combenientes).
Nel 1771 a don Taddeo Arras succedeva come arrendatore il notaio Antonio Maria Manca per 2620 lire annue con, immutata, la garanzia di don Antonio Mulas Rubatta. L’esame ulteriore dei beni posti a garanzia metteva in luce il cospicuo patrimonio già dichiarato in precedenza, cui si aggiungevano una tanca del valore di più di mille scudi fra Bono ed Anela ed altri starelli di terre aperte, sempre fra Bono ed Anela per 70 scudi (muchos comunes de cada specie de ganado, hombre adinerado y de muchissima combeniencia).Con gli Arras e la garanzia fornita dai Mulas Rubatta, si può, sostanzialmente, leggere ed interpretare anche la fine del controllo ed amministrazione diretta sulle rendite del Gocéano di quello che, poi, diverrà il partito angioyano e rivoluzionario, avente nel Gocéano uno dei suoi maggiori epicentri.
In effetti, la lettura più approfondita anche di queste carte con dati economici e fiscali, accompagnata dal raffronto del materiale già rinvenuto e pubblicato a suo tempo dal compianto storico Lorenzo Delpiano in Salvatore Frassu e i moti rivoluzionari della fine del ‘700 a Bono (Ed. Chiarella Sassari), non fa altro che rimarcare e mettere in evidenza l’importanza e rilevanza economica di questo rilevante parentado rappresentato dagli Arras minutili e dai Mulas Rubatta che, sostanzialmente, avevano, in un primo momento, cercato di amministrare le rendite del Gocéano per un piccolo frangente della seconda metà del XVIII° secolo. Si tratta di una storia, certamente locale, utile però a ben inquadrare il rilevante problema economico che dominava la Contea dovuto alle continue malversazioni. Don Taddeo Arras, pertanto, zio e padrino dell’Alternos, il 26 maggio 1762 sposa donna Maria Ambrogia Mattia Mulas Rubatta (1747- 1823), comunemente detta donna Mattia, sorella di don Felice ed Andrea e che, dopo la morte del marito, sarà lei a guidare e cappeggiare il partito angioyano.
Immediatamente successivo a questo contesto risulta essere un documento molto importante, contenuto nel fondo Cause Civili della Reale Udienza , esplicante anche la situazione amministrativa, politica ed economica del Gocéano riguarda la complessa nomina dei capitani dei barracelli. Si tratta di un documento datato 1781, molto interessante, inviato da Franco Francesco Calvo, procuratore dei comuni della Regia Contea, contro don Pietro Corda, regio arrendatore nel periodo dei beni del Gocéano.
Dal 1792 al 1802 l’amministrazione delle rendite passa, sostanzialmente, al partito governativo cappeggiato da don Giacomo Fara, cognato di Giovanni Maria Angioy (ne aveva sposato la sorella Giovanna Angela) che, allo stesso tempo, era anche consigliere comunale. Nel 1792 diventa arrendatore dei beni del Gocéano il notaio Pasquale Podda per 5 mila lire annue, con la garanzia non solo del detto Fara, ma anche del notaio Bonifacio Cocco e di Stefano Serra. In tal senso, in questo frangente, diventava cruciale la figura di Bonifacio Cocco che, proprio in qualità di sindaco di Bono, dapprima, nel luglio 1796, sarà uno dei protagonisti della rivolta antipiemontese per poi, successivamente, venire annoverato fra i sostenitori del partito governativo. Sull’ambigua figura del Cocco, si rimanda anche all’interessante lavoro di ricerca condotto, come tesi di laurea, da S. Mecucci Contu, Le chiudende del distretto di Bono nella vecchia provincia di Nuoro, tesi di laurea dattiloscritta discussa nell’anno accademico1952-53 alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Cagliari. In quelle pagine emerge come la figura di Bonifacio Cocco fosse comparsa, fin dal 1789, fra quelli che più si distinsero nella chiusura spesso abusiva delle terre.
Altre carte sui diritti feudali, quelle relative al Gocéano- diritti feudali, ci raccontano, sempre con riferimento a Bonifacio Cocco, amministratore e suddelegato patrimoniale del Gocéano, la figura di un funzionario “provvedente all’ esazione ed amministrazione delle rendite e vendite dei bestiami al maggior offerente”. Evidentemente è ancora lontano quel che l’anno successivo accadrà a Bono con i “torbidi” della Rivoluzione. Tuttavia questo “stato delle cose” in merito alla situazione del Gocéano “pre-rivoluzionario” ed ai diritti feudali ivi pagati ci fornisce un ottimo ed illuminante “spaccato”. Vi è, innanzitutto un elenco, documentato di pastori che han pesato il formaggio, per poi venderlo, senza preavvisare l’amministratore (que han pesado queso per averlo venduto ad alcuni (particolari) senza aver dato avviso all’amministratore). Fra di essi si segnalano ben 36 pastori di Bono, con altri di Esporlatu, Illorai, Bugos e Benetutti. Le liste venivano depositate, ovviamente, presso i maggiori di giustizia di ogni comunità, dove vi era poi da pagare anche il deghino per i maiali (deguinos de cochinos). Nel medesimo documento risultavano essere specificati anche i diritti di Burgos, Esporlatu, Anela, Bultei, Benetutti. Fra il maggio e l’agosto 1795, l’amministrazione di Bonifacio Cocco, registrava, in primis, la raccolta degli affitti (arquileres), avvenuta tra il 14 ed il 22, delle pecore dei villaggi, eccetto Bono ed Orune che secondo costume non pagavano. Sempre lo stesso periodo veniva segnalato il deghino per il pagamento delle pecore secondo questa entità: Bono 31, Botidda 3, Illorai 4, Burgos 3, Esporlatu 1, Anela 5, Bultei 10, Benetutti14, Orune 21. In data 23 maggio venivano presentati gli affitti del villaggio scomparso di Bortiocoro consistenti in un centinaio di pecore e vitelli affittati a sette pastori. Il 25 maggio venivano registrati, sempre dal Cocco, gli affitti di pecore “forestiere” di Bolotana e di Orotelli. Mentre Il 27 e 28 maggio si verbalizzavano gli arquileres (affitti) delle pecore di Nughedu di San Nicolò (15 pastori). Il giorno successivo, 29 maggio, invece, si procedeva ad un’asta per 258 pecore con acquirenti la vedova Gavina Sanna di Bultei, Nicola Molotzu e Pietro Giuseppe Denti di Bono al prezzo di 3.5 lire cadauna, per un totale di 903 lire. Interessante è, poi, l’annotazione sui diritti per i maiali nell’importante ghiandifero montano del Gocéano. Parliamo, per la precisione, dei cosiddetti derechos de las suertes de los cochinos de compra introdotti nell’ottobre 1795. Si tratta, nello specifico, di un maiale di tale Lorenzo Lisai di Bottidda comprato ad Uras il 9 ottobre 1795 segun bolletin nella curia i maiali sono venduti a Juan Carta macellaio(carenisserio )della citta di Cagliari lire 10 ognuno , di altro maiale del notaio Pietro Bissiri di Bottidda (comprato a Bonorva e venduto a Giovanni Schirru, macellaio cagliaritano, al costo di 10 lire), di altro capo di Giovanni Antonio Congiu di Bono ( comprato a Ghilarza e venduto a Nicola Pinna di Nughedu a lire 10) ed, infine un cochino di Antonio de Fenu, Totoy Corda e Fedel Sole di Bottidda (comprato a Sardara in data 11 ottobre e venduto a don Pietro Prunas di Bonorva a lire 10.5).
In data 9 agosto 1795, infine, il suddelegato provinciale della Contea del Goceano comunicava al maggiore di giustizia di Benetutti il nome di quei pastori che non avevano pagato il diritto di pesatura del formaggio (peso de queso). E per non pagare si recarono furtivamente verso Orosei. Orosei rappresentava, a quell’epoca, il più importante sbocco al mare per i prodotti agro-pastorali dell’interno da commerciare con il resto del continente. In effetti, proprio nel XVIII secolo il porto di Orosei era diventato il più importante della costa orientale, avvantaggiato anche dall’apertura della dogana portuale, voluta da Giovanni Battista Lorenzo Bogino, in precedenza ministro per gli Affari di Sardegna. E’ chiaro che i pastori che non volevano pagare il diritto sulla pesatura del formaggio, avrebbero voluto commerciarlo interamente nel porto di Orosei. Si trattava, nello specifico di sei pastori benetuttesi che, in nove viaggi, erano riusciti a trafugare 28 quintali di formaggio del valore di 17.10 lire. Bonifacio Cocco, in qualità di suddelegato, imponeva loro il pagamento in carico a ciascuno dei contravventori di 50 scudi per non aver pesato con il peso reale. Per tale motivo si procedeva alla confisca dei beni “meno dannosi” come garanzia. Ma l’elenco dei contravventori al pagamento di questo diritto, non comunicato all’amministratore, proprio in quest’arco di tempo, deve “allargarsi”, se è vero che vi risultano essere anche ben 36 pastori bonesi e diritti di pesatura del formaggio non rispettati neppure ad Esporlatu e Burgos.
Altri documenti di un certo interesse che riguardavano l’amministrazione interna della Regia Contea nel periodo considerato, concernono il fondo Regia Segreteria di Stato dell’Archivio di Stato di Cagliari (Archivio di Stato di Cagliari, Regia Segreteria di Stato e di Guerra, 2° serie, volume 1696, fondo 204). Un fondo, che tra l’altro, ha conosciuto lo studio approfondito di un grande del calibro di Francesco Loddo Canepa (cfr. F. Loddo Canepa, Inventario della Regia Segreteria di stato e di Guerra del Regno di Sardegna, Roma, 1934). In questo senso vengono ricostruite particolari vicende amministrative locali. Come il ricorso dei sindaci e consiglieri dei comuni di Benetutti, Bultei ed Anela che, con supplica del 7 marzo 1800 segnavano che il bestiame moriva di fame in quanto l’arrendatore del contado affittava i pascoli a pastori forestieri. Altra questione nodale riguardava la gestione delle terre indivise. Alla richiesta del ricordato Fara di poter affittare i vacui delle viddazzoni, si replicava che ciò si sarebbe potuto fare solo dopo che i ministri di giustizia ed i censori locali avessero eseguito una ricognizione degli stessi terreni, ed avessero stabilito quante pecore vi si potevano immettere senza pericoli di danni per le colture e per quali canoni.
La garanzia di don Giacomo Fara al notaio Podda, sostituto procuratore dei poveri veniva confermata nel 1800, questa volta per 4379 lire annue. Ancora nel 1802 l’amministrazione delle rendite dei diritti feudali del Gocéano, sempre in capo al Fara, risaliva a 5 mila lire annue, con questa volta la garanzia del potente notaio Pietro Bissiri e di Antonio Maria Corda entrambi di Bottida. Il primo mallevadore risulta proprietario di case, terre, tanche, vigne per duemila scudi, sposato alla sardesca, senza dote, con bestiame nel vicinato di Corte per 200 scudi. A questi si aggiungevano due piccole case in località San Pietro, un orto per 80 scudi, mezza tanca a Muselighes per 600 scudi, due vigne a Masinu per 150 scudi ed a Palau per 60 scudi e terre a Tipari e Monte Niveri seminate a grano e ad orzo, per 18-20 starelli di Cagliari del valore di 35 scudi.
Dal canto suo Antonio Maria Corda aveva case , vigne, canneti , terre aratorie, serrados, vacche, maiali , quattro case con corte a Bottidda, nel vicinato (vesindado) de Corte per 200 scudi sardi, sette case ed un orto (huerta) a Santa Maria per 300 scudi, vigna a Sa Rocchitta per 100 scudi, vigna a Masinu per 170 scudi, quattro canneti coltivati a canapa di due starelli, del valore medio di quaranta scudi, un canneto di canapa in quel di Santu Bilianu del valore di 8.10 scudi (un canaveral a S. Bilianu a sembro de canamo mezzo starello misura di Cagliari del valore di 8.10 scudi), orto del proprio giardino a Bottidda del valore di 30 scudi, una dorsale di tre starelli col risultavano tivata a grano del valore di tre scudi ed un altro appezzamento di due starelli de su riu de Cresia di cinque scudi. A questi si aggiungono una collina di gelsi di uno starello e mezzo (su montigu de sas quessas ) del valore di dieci scudi, il capro-fico di due starelli cagliaritani per otto starelli, un orto nel suo giardino di Bottidda del valore di trenta scudi. Ad esso si dovevano aggiungere il costone seminato a grano dell’estensione di tre starelli del valore di tre scudi (sa pala a sembro de trigo) ed un altro costone in località riu de Cresia dell’estensione di due starelli del valore di cinque scudi. Non meno significativo, sempre da parte del Corda, era la garanzia esercitata sulla produttiva estensione della collina di lentisco (su montigu de sas quessas) di uno starello e mezzo e del valore di dieci scudi. A seguire, sempre in quel di Bottidda, su crabu figu dell’estensione di due starelli cagliaritani del valore di otto scudi. Per concludere con altra consistente estensione di 29 starelli di grano del valore di 60 scudi compresa tra S’Ispinarva e Su ludosu
Per sottolineare, ormai, il sopravvento del partito antiangioyano, anche nel periodo 1804- 1811, l’amministrazione delle rendite del contado risultava essere saldamente nelle mani filogovernative con Bonifacio Cocco, impegnato per 5 mila lire annuali. E la garanzia, anche in questo caso, in un primo momento, veniva offerta dal già ricordato notaio bottiddese Pietro Bissiri. Molto interessante, rispetto all’ingente patrimonio precedentemente impegnato, la segnalazione di alcune variazioni. Il notaio risulta possessore di un corpo di case nella contrada di S.Antonio di Bono con 6 stanze ed un cortile del valore di 600 scudi e di una vigna attigua con altre sette case del valore di 300 scudi, tutti a Bono. Per quanto, invece, concerne le possessioni bottiddesi messe a garanzia per la Contea, si segnalavano una vigna di 80 scudi e Sa Tanca Noa di 100 scudi. Dall’atto con il quale il Bissiri verrà surrogato nella fidejussione da Niccolò Molotzu Piu, datato 16 giugno 1805, le proprietà risultavano essere ancora consistenti sempre, però a Bottidda, come peraltro emerge dalla lettura del relativo processo verbale. Parliamo, infatti, di un corpo di case con tre stanze, un cortile del valore di 150 scudi e di altro corpo di case di due stanze con un orto attiguo, dette case di pibiu , di cento scudi. Rimaneva confermato, con una leggera perdita di valore, la metà del tancato di Muselighes, questa volta per 500 scudi. Ad essi si aggiungevano una vigna di 200 scudi a Tanca e Pedde , vigna a Masinu di 200 scudi. A questi si aggiungono possedimenti a Su Cantaru di Bottidda, a Funtana Colorasdi Burgos per un valore di 50 scudi , e terreni aperti a Monte Oniferi , sempre a Bottidda, per 30 starelli di grano .
L’ “entrata in gioco” di un patrimonio importante come quello di Niccolò Molotzu , ben si esplicava anche con il fatto che egli possedesse rilevanti proprietà a Bono nel quartiere di S. Giovanni (corpo di case con dieci stanze e due cortili chiusi del valore di 800 scudi). Ad essi si aggiungevano i possedimenti in S’ispetumadorgiu, Sa figu ranchida, Sa turudada, Caddu irde, S’aligarza, Sa cugiana de su cantone e Sos cannisones per 60 starelli cagliaritani del valore di 140 scudi. Altri possedimenti erano ancora quelli detenuti nella viddazzone di Bottidda in località Mavoddi e due orti a Isteleviu ad Anela.
Dal 1811 al 1819 diventa arrendatore della Regia Contea del Gocéano Pietro Vincenzo Rugiu, impegnandosi su un patrimonio di 5100 lire annue. A garantire su questo patrimonio intervenivano sia Pietro Tiloca di Bono che il notaio Pietro Bissiri di Bottidda. Personalità entrambe ricordate e conosciute nel Gocéano di allora. Il primo “metteva sul piatto” a garanzia la sua abitazione di quattro stanze e la vigna attigua di Biccole a Bono di 966 scudi, la vigna a Borrieri per 80 scudi, terre a Birunele per 15 starelli da trenta scudi. Seguivano ancora terre aratorie a Nigola Addes per 40 scudi, terra a Murui di 45 starelli da 20 scudi. Terre ancora a Callito e Frantzischeddu , ognuna di 5 starelli da venti scudi. Risultava, poi, un’altra terra possessione in quel di Bottidda, in località Mavoddi, per 8.10 starelli. Altro possedimento risultava essere quello di Esporlatu con vigna a Su pastinu. Altra vigna con bosco di pioppi a S. Giovanni d’Eriddo con Su pastinu mannu di 4500 scudi. Altra casa con cucina da 100 scudi, un canneto a Piralada, Sa tanca e Corigone del valore di 100 scudi. Senza tralasciare la terra aratoria a Pedru Pes di cinque starelli, di 10 a Chiriatas. Per arrivare ai 5 starelli de Su cunzadu mannu del valore di 30 scudi con molti mobili, branchi di bestiame di pecore, vacche, porci, capre.
Dal canto suo, la garanzia del più volte ricordato notaio bottiddese Pietro Bissiri rimaneva impegnata su una mezza tanca di Muselighes di 800 scudi, sulla casa situata nella centrale corte de sa Carrela Majore con sei stanze, sull’orto attiguo e sul cortile del valore di più di 300 scudi. Si aggiungevano, poi, una vigna situata presso la località Sa Rochita di 100 scudi, un’altra a Masinu di 120 scudi, con quattro canneti per l’allevamento del bozzolo da seta, di 80 scudi, situati sotto il convento francescano di S. Maria degli Angeli (a suta de cumbentu). L’impegno poi si estendeva a 100 starelli di terra aratoria nella viddazzone di Monte Oniveri per una consisenza di 100 scudi, senza tralasciare mobili di casa e vari branchi di bovini, ovini e suini.
Gli ultimi dati relativi all’amministrazione delle rendite della Regia Contea sono riferite al periodo 1819- 1831 e coincidono, quasi perfettamente, con il 1838, anno di abolizione definitiva del Feudalesimo a seguito delle due Carte Reali del 1835 e del 1836 (Carta Reale 26 febbraio 1839 n. 21, Approvazione del Regolamento per la divisione dei terreni del Regno di Sardegna). Un periodo in cui, come peraltro si può comprovare per tutte le altre aree dell’isola, si nota progressivamente il venir meno del potere baronale centrale, in Gocéano rappresentato dai funzionari viceregi con le amministrazioni delle rendite affidate e garantite da personalità, per lo più locali e di loro fiducia. Nell’ultimo decennio di vita del Feudalesimo vi è da rilevare l’emergere, come amministratore, del bonese Pietro Francesco Tilocca e come fideiussore di Salvatore Manchinu, altro proprietario di rilievo. A garantire la prima amministrazione del Tilocca furono il sempre ricordato notaio Pietro Bissiri, Costantino Corda di Illorai ed i nobili bolotanesi Sebastiano Marcello e Giovanni Maria Sulas. Alla prima amministrazione Tilocca, però, nell’agosto del 1819 dovette sostituirsi, con le medesime ricordate garanzie, quella del notaio bonese Giovanni Mulas, impegnato per sei anni per 5990 lire annue.
Si arriva, quindi, all’ultimo periodo di amministrazione affidata il 21 settembre 1824 a Pietro Antonio Tilocca per sei anni al fitto annuo di 5770 lire. Fra gli assicuratori rimanevano i citati Marcello di Bolotana e Corda di Illorai cui si aggiungeva Giovanni Maria Tilocca di Illorai. E ad essi si aggiungeva don Salvatore Manchinu di Bono, definito testualmente, “teste abbonatore ed uno dei soggetti primari di questo questo dipartimento ricco e benestante”. Egli possedeva un corpo di case di venti stanze tra casa e cucina, scuderia e cortile nel vicinato di Carrela de zosso del valore di mille scudi. Senza dimenticare una tanca a Bottida in località Mavoddi del valore di scudi otto mila. Altra tanca di tre porzioni in località Pedru De Luna di Bono, confinante con i nobili fratelli Raimondo e Giuseppe Angioy per sei mila scudi. Per finire con una vigna in località Pera Pianu del valore di mille scudi e terre aperte, ed orti a Biccole per più di 300 scudi.
Da Alà viene ad abitare a Bono Antonio Giuseppe Curtu Satta, figlio di Pietro Curtu e Maria Satta. Lo fa perchè si sposa con Giovanna Antonia Rubatta Sotgia Cocco. La coppia avrà due figli, nati a Bono, di cui il primo si chiama Aurelio “Satta” Curtu. Penso che Giovanna Antonia sia cognata del citato cavalier Nicolò Ambrogio Mulas, in quanto sorella minore della prima moglie di quest’ultimo, ossia Geronima Rubatta Sotgia. Chiedo all’autore dell’interessantissimo studio se mi può dare certezze in tal proposito, e nel caso l’ipotesi sia valida, se conosce le generalità dei genitori delle due presunte sorelle Giovanna Antonia e Geronima. Grazie