di LUISA SABA
Ottima e lungimirante iniziativa de il GREMIO che, all’inizio di un nuovo percorso culturale, da affiancare a quello del cinema che porta avanti da sempre, ha proposto al teatro Aurelio, ad un numeroso e caloroso pubblico di sardi e non sardi un piccolo ma pregiato, interessante e divertente esempio della commedia sarda in lingua sarda, attualmente rappresentata nell’Isola, e non solo: un faro di luce su un mondo scomparso ma ricco di valori, sempre presenti nella memoria e nel ricordo.
ll linguaggio è cultura, ci parla, ci racconta di un’epoca, dei modi di pensare e di agire delle persone, delle abitudini e caratteristiche delle comunità a cui appartengono le stesse persone che in quella epoca vivono. Il sipario da cui ci parlano e in cui si incontrano i protagonisti della pièce In sa duttoressa è rappresentato da un antico comune sardo della provincia di Sassari, Ittiri, nella regione del Logudoro. Regione in cui si parla il logudorese, una delle più importanti varianti della lingua sarda, lingua che possiede una enorme ricchezza di parole e suoni, che muta spesso da un paese all’altro, pur raggruppandosi nelle grandi famiglie delle varianti, logudorese nel caso di Ittiri, catalano aragonese, gallurese, nuorese, campidanese, tabarchino.
Mai come in questa rappresentazione il vero protagonista è un linguaggio che descrive il contesto sociale in cui si muove una comunità che ha appena attraversato la seconda guerra dove ha perso gli uomini più validi, contadini, artigiani, dove son rimaste le donne casalinghe indurite dalla fatica e dai lavori, che deve fare i conti con una nascente burocrazia e organizzazione comunale, ma soprattutto deve confrontarsi con l’ arrivo e l’accettazione di una nuova lingua, l’italiano che voluta dall’alto come strumento di unificazione di realtà regionali culturalmente molto diverse, rischiava di tracciare nuove divisioni sociali tra città e campagna, centro e periferia, classe colta alfabetizzata e popolazione in larga misura ancora analfabeta. Avvenne di fatto che un dettato costituzionale lungimirante, teso a garantire uguaglianza tra cittadini di sesso, religione e lingua diverse, gestito in maniera centralistica e burocratica, non impedì l’impoverimento fino alla quasi scomparsa di alcune lingue madri minoritarie, tra cui la lingua sarda.
La scena de In sa duttoressa è ambientata negli anni 50, interpretata per la maggior parte da attori locali, non professionisti ma davvero bravi e puntuali, di una età che permette loro di esprimersi, imprecare, litigare, inveire, farsi beffe, irridere, dubitare, giudicare con la padronanza d’uso di una Limba appresa da piccoli e a lungo parlata. La regista riesce a cogliere questa ricchezza linguistica, focalizzando modi di dire, sottolineando gli appellativi e gli aggettivi più coloriti e faceti, curando un dialogo che costituisce la chiave per capire lo spirito dell’epoca e le problematiche dei protagonisti che animano l’evento, ambientato nella sala d’attesa di una condotta medica. Lo spirito dell‘epoca è quello di una lingua locale, quella sarda, che affronta un confronto culturale, che si rivelerà perdente, con la lingua nazionale. Diversi studiosi, di matrice autonomista e non solo, attribuiscono il mancato sviluppo de sa Limba alla responsabilità di una classe dirigente dell’Isola, succube della dominanza linguistica, politico e burocratica di Roma. Nella storia era già avvenuto altre volte, alle comunità sarde, di dover soccombere politicamente e linguisticamente ai poteri esterni Romani, Bizantini, Castigliani e Catalani; ma mentre dallo scontro era nata semmai una coscienza linguistica fortemente legata alle istanze di autonomia, negli anni 50 lo stigma della italo fonia si identifica con quello dell’unita politica dell’Italia e della sua modernizzazione, mentre parlare la lingua locale diventa simbolo di arretratezza, di ignoranza e marginalità sociale. Emblematico, nella sala d’attesa de sa duttoressa, è il linguaggio della madre del ragazzo che va a scuola: la donna si rivolge al figlio storpiando in maniera grottesca parole e grammatica, ci presenta un adolescente piagnucoloso e viziato, ma portatore di un privilegio speciale, il riscatto di chi va a scuola e finalmente può parlare l’italiano! Quante persone della generazione di cui io faccio parte, nata durante la seconda guerra, hanno vissuto in famiglie dove gli adulti parlavano tra di loro in sardo mentre si rivolgevano ai figli in un italiano necessariamente stentato o, come si diceva in logudorese “porcheddinu”. con conseguenze sociali molto gravi: la dialettizzazione del sardo, pagata da bambini che a scuola si vergognavano di genitori arretrati che parlavano in sardo, e da genitori che hanno dovuto negare una parte di se stessi e della propria identità. Accanto a parole crude e amare che raccontano di matrimoni avvenuti per fame e bisogno, di preghiere colorite affinché mariti vecchi e bifolchi muoiano al più presto liberando le mogli dalla loro presenza puzzolente e disgustevole, sentiamo le donne di quel tempo definire il sesso in maniera quasi francescana, sa natura, che dona figli a prescindere dalla bontà di rapporti coniugali consenzienti. Ma ciò che appare più evidente e il crearsi dello stereotipo moderno arretrato tra chi usa la lingua nazionale e chi usa il sardo: il venditore di strumenti sanitari, simbolo di una nuova piccola borghesia di commercianti che viaggia in Continente e la sa lunga, vuol proporre l’uso innovativo del clistere ma viene irriso dalle donne arretrate che hanno sempre usato il fuso per certi servizi e non si fanno ingannare dalle novità. Oppure il piccolo (?) potere rappresentato dalla dottoressa che anticipando il mal costume di molti pubblici ufficiali, fa i propri affari destinando l’ufficio a cui è preposta ad una semplice elargizione di ricette! La dicotomia moderno/ arcaico e la dialettizzazione del sardo passerà inevitabilmente per una divisione tra classi sociali: chi sta bene manderà i figli a scuola essi parleranno italiano, faranno i medici o altri servizi pubblici e diventeranno la futura classe dirigente, mentre i pastori e i contadini dovranno aspettare ancora degli anni perche Alberto Manzi ( 1960 ) riesca a contrastare con l’educazione linguistica i fenomeni di arretratezza ( questa Si!) descritti da Gavino Ledda, scrittore poeta e grande conoscitore della lingua sarda. in Padre Padrone (1975).
La dialettizzazione del sardo inoltre ha portato sa Limba a dividersi in cento dialetti incomprensibili anche tra loro e al parziale fallimento della creazione di una LSU, lingua sarda unica.
La forza dell’opera In sa dottoressa, che è stata ascoltata con enorme interesse e attenzione anche da chi non ne coglieva il significato delle parole ma certamente ne coglieva il senso, consiste nel fatto che essa, al di là della divertente e spassosa rassegna di tipi umani, ruolo delle donne, antropologie di ieri o anche di oggi ci interroga sul destino della nostra lingua e sui valori culturali legati alle lingue madri.
Tema attualissimo in epoca di globalizzazione e di comunicazione digitale, tema che ringraziamo gli amici di Ittiti ad averlo riproposto alla nostra attenzione con straordinaria leggerezza e profondità.
Grazie 😘
Bravissimi!!!!!Complimenti!!!!
C ‘ero anch’io 🤩
Mi congratulo con l’ autrice di questo pezzo, per aver restituito una lettura puntigliosa e illuminante sul testo che la nostra compagnia teatrale, ha messo in scena. Le sue parole ci onorano e ci mostrano che siamo percorrendo la strada giusta.❤️
Siamo travolti dalla vostra gentilezza, dalle vostre parole di stima per noi tutti.
Grazie infinite!
Grazie tante♥️