di GIANRAIMONDO FARINA
Dopo una giornata di viaggio per l’Italia, finalmente ho avuto la fortuna di ascoltare i circa nove minuti del discorso della neopresidente della Giunta regionale sarda Alessandra Todde per “Sa Die de Sa Sardigna”. Tante le aspettative. Mal riposte. Mi sono subito reso conto dell’amorfia e della superficialità “anestetizzante” di un simile proclama. E mi sono chiesto se questo non sia stato dettato più da ignoranza che da subdola volontà di “annacquare” e confondere la storia. Personalmente preponderei, da storico economico, per la via di mezzo. Ben resa in due passaggi. L’ignoranza, “in primis” (nel senso buono di “non sapere”). Essa si fa palese quando la presidente sbaglia il riferimento al famoso pamphlet sardo della fine de XIX, uscito nel periodo della Sarda Rivoluzione ed intitolato “Achille della Sarda Liberazione”. Il secondo aspetto della “storia sarda da anestetizzare” e non fare conoscere o, meglio, confondere, è ben evidente, nel passaggio finale quando si fa esplicito riferimento al desiderio di “raccontare una storia diversa”. Cosa vuol dire? Vuol dire che il ricordo di un evento centrale e drammatico della nostra storia, è diventato “da evitare” e da non fare conoscere fino in fondo.
Come se se ne avesse vergogna. Un po’ il motivo per cui qualche decennio fa’ un’illustre docente universitaria sarda di Storia della medicina, nonché editorialista di un quotidiano isolano, abbia cercato invano di iniziare un’azione revisionistica de “Sa Die”. Senza alcun fondamento storico. E forzatamente. Facendo un impossibile paragone con la Festa della Toscana, istituita con legge regionale 26 del 2001. Una festa che vuole ricordare la riforma penale promulgata nel 1786 dal Granduca Pietro Leopoldo e ricadente il 30 novembre di ogni anno. La storica della medicina sarda in questione scriveva che “Sa Die de Sa Sardigna non era una festa per ma una ricorrenza contro”. E che, quindi, sarebbe stato necessario sostituirla con un’altra celebrazione, più positiva e più propositiva per il popolo sardo. In tale articolo, apparso sulla Nuova Sardegna del 14 Maggio 2006, a firma di Andrea Mameli, nello specifico, si affermava che “Sa Die de Sa Sardigna vera, se mai ci fosse stata (?), sarebbe dovuta essere il 14 Maggio 1946 quando si diede inizio alla lotta per l’eradicazione della malaria. Tanto da parlare per l’isola di un “prima e dopo malaria”. Presa di posizione certamente acuta e provocatoria. Che, comunque, ben riflette l’andazzo di come “Sa Die” sia colta e vissuta da una parte (si spera minoritaria) dei sardi di oggi. Senza nulla togliere alla “lotta alla malaria”, “Sa Die” è “Sa Die”. E non ci sarebbe stata “lotta alla malaria” se non ci fosse stata “Sa Die”. E tutto il movimento autonomista ed indipendentista che essa ha fatto scaturire. Per la costruzione della Sardegna moderna e della sua presa di coscienza di popolo. Anche con la lotta. E con la lotta armata. Di popolo. Perché tale essa fu. Che piaccia o no. Con martiri, esuli e confinati. Ed è questa l’ora di ricordarli. Dagli impiccati sassaresi del periodo 1796- 1802. I cui nomi, grazie al dovizioso lavoro archivistico dell’amico prof. Pietro Atzori riemergono finalmente dall’ oblio. E sono: Bangio Fadda; Antonio Mura Carta, conciatore, Giovannico Devilla, commerciante; Antonio Vizzenti Perfetto, commerciante. Questi furono impiccati nel settembre 1796. Seguono cronologicamente Giovanni Antonio Morellas Cao, calzolaio di Florinas, torturato e morto il 29 marzo 1797; Sarvadore Quessa e Filippo Serra Dettori, notaio di Osilo, impiccati il 6 aprile 1797. E Giuanne Pintus Tola, calzolaio di Florinas, impiccato il 6 settembre 1797. Senza dimenticare i martiri fuori da Sassari. Ossia Ambrogia Soddu di Bono, donna di 60 anni seviziata ed assassinata dalla soldataglia mercenaria sabauda nel luglio 1796, inviata per reprimere la rivolta del paese natale di Giovanni Maria Angioy. Ed i 16 martiri thiesini morti nel 1800 durante la sanguinosa rivolta del loro paese del Meilogu, ultima, in senso cronologico, ad essere definita “antifeudale”. Senza dimenticare ancora Francesco Cillocco, notaio cagliaritano, impiccato ancora a Sassari l’11 agosto 1802, dopo la repressione sanguinosa del suo tentativo insurrezionale in Gallura, portato avanti con l’ex parroco di Torralba e teologo don Francesco Sanna Corda (morto nell’ assedio sabaudo di Longonsardo), e maturato durante il loro esilio in Corsica. Ancora, nel 1802 e 1803 conosceranno il patibolo Domenico Pala ed il frate Gerolamo Possa. Da Sassari a Cagliari la repressione non si ferma. Prosegue, implacabile. E giunge all’ ottobre 1812, con la “rivolta di Palabanda”, allo stesso tempo “ultimo atto” della Sarda Rivoluzione e primo assoluto “colpo” della Restaurazione europea. Prima anche del Congresso di Vienna. Cosiccome la rivolta di Palabanda è da intendersi come il primo moto liberale sorto nell’ Europa moderna. In Sardegna. Ed anche qua i nomi di tutti questi martiri sono da ricordare. Salvatore Cadeddu, Raimondo Sorgia, Giovanni Putzolo, impiccati. Gaetano Cadeddu, Giuseppe Zedda ed Ignazio Fanni, condannati a morte in contumacia. Giovanni Cadeddu ed Antonio Masia all’ergastolo. Giovanni Floris e Pasquale Fanni al remo a vita. Passando agli esuli, capeggiati, naturalmente, da Giovanni Maria Angioy, va ricordato il martire don Gioacchino Mundula, assassinato in Francia. Oltre, naturalmente, a don Michele Obino, deceduto nel 1839 e la cui tomba è stata ritrovata al “Pere Lachaise” dall’ inossidabile Adriana Valenti Sabouret. Passando per il medico di Arbus, Pietro Leo. Ed un po’ meno per il giurista ed accademico sassarese Domenico Azuni, invece ricordato, al pari di Giovanni Maria Angioy, dalla nuova presidente della Regione Autonoma della Sardegna. Quasi che le loro vicende fossero le stesse. Questo per cercare di fare capire ai sardi che sarebbe ora di raccontare una “storia diversa”. Con una differenza sostanziale, però. Azuni sarà un esule a Parigi, rimpatriato e continuerà a ricoprire importanti cariche accademiche nell’isola.
Angioy, capo indiscusso della Sarda Rivoluzione e padre della Sardegna moderna, nell’ esilio parigino morirà. Non accettando compromessi. E per una causa. La libertà della sua terra. Fino in fondo. Ultimo appunto sui nomi da conoscere dei martiri, testimoni della Sarda Rivoluzione.
Se poi si vorrebbe scrivere una “storia diversa” sarebbe anche il caso di rivedere l’esempio di Vincenzo Sulis, scrittore e militare sardo, rinchiuso per vent’anni, dal 1799, nella torre dello Sperone ad Alghero. Fino al 1820. Uno che nella città catalana, purtroppo, le guide turistiche locali continuano a propinarci come “tribuno cagliaritano”. E non come patriota sardo. Quale egli realmente fu. Con l’intento di annacquare la storia.
Per capire e per parlare de “Sa Die” occorre partire da qui. Senza remore. E senza fraintendimenti. Dalla storia. Quella vera. E non romanzata.
Complimenti al Prof.Farina per l’articolo.E’ una bella lezione di storia sarda (vera). Ogni tanto una rinfrescatina non guasta. Vale per tutti.