di PAOLO PULINA
Il Circolo culturale sardo “Logudoro” di Pavia, presso la sede sociale, ha proposto ai soci e alla cittadinanza pavese la Festa per la Giornata Internazionale dei Diritti delle Donne, celebrata per questioni organizzative nel pomeriggio di sabato 16 marzo, quindi una settimana dopo la rituale data dell’8 Marzo.
In apertura della manifestazione Paola Pisano, presidente del “Logudoro” e componente del Comitato Esecutivo della FASI (Federazione delle Associazioni Sarde in Italia), ha ricordato il travagliato percorso registrato dalla conquista da parte delle donne, nel mondo e in Italia, dei diritti storicamente riconosciuti solo al genere maschile (voto attivo e passivo, potestà genitoriale, accesso alle professioni di comando nei diversi ambiti di maggiore prestigio sociale – politica, magistratura, medicina, amministrazione pubblica, ecc. – ).
Per la Sardegna, attingendo in particolare alle notizie presenti nel volume di Bruna Bertolo “Prime…sebben che siamo donne. Storie di italiane all’avanguardia” (edito da Ananke nel 2013, presentato dal “Logudoro” in una precedente edizione della Festa della Donna), la presidente Pisano ha citato la sarda Grazia Deledda (prima, e finora unica, donna italiana ad aver vinto – nel 1926 – il Premio Nobel per la letteratura); Adelasia Cocco Floris (seconda donna sarda laureata in medicina e prima donna medica condotta d’Italia nel 1914; fu anche la prima donna in Sardegna a prendere la patente nel 1919); Margherita Sanna (prima donna sarda sindaco, precisamente del Comune di Orune; eletta il 7 aprile 1946, detenne l’incarico fino al 1956 e nuovamente dal 1964 fino al 1966);Maria Rosaria Marinelli, prima donna magistrato in Sardegna, esattamente a Cagliari nel febbraio 1971; si tenga conto che l’ingresso delle donne in magistratura in Italia risale al 1963).
La manifestazione è stata allietata dalle musiche dal vivo del cantautore sardo-pavese Antonio Carta, che ha proposto anche alcune canzoni in limba.
A conclusione della manifestazione aperitivo, con dolci e torte confezionate dalle socie (e anche da qualche socio) del Circolo.
Nota personale. Tra quelli che si sono cimentati nel canto di qualche canzone seguendo gli accordi della chitarra di Carta anche chi firma questo resoconto. A seguito delle mie frequetazioni in Sicilia (terra di mio suocero), ho memorizzato da tempo la canzone più popolare del repertorio tradizionale dell’isola: “Vitti ’na crozza”. E ho fatto anche qualche opportuna precisazione.
Come scrive Sara Favarò nel volume “Storia di ‘Vitti ’na crozza’: autori, misteri, morte, miniere” (Giambra, 2024): «Chi ascolta la celebre canzone siciliana “Vitti ’na crozza” crede che l’allegro motivo, il trallallero, sia una sorta di inno alla vita, ma basta prestare attenzione alle parole per rendersi conto che si tratta di altro. Protagonista della canzone è ’na crozza, ossia un teschio, che, attraverso il suo racconto, si fa promotore di una forte denuncia sociale, rivolta principalmente contro determinate usanze della Chiesa cattolica di un tempo».
Spiega il professor Francesco Meli nella prefazione al libro: «Si tratta dell’ostracismo della Chiesa, cessato solo verso il 1940, nei confronti dei minatori morti nelle solfatare. I loro resti mortali non solo spesso rimanevano sepolti per sempre nella oscurità perenne delle miniere, ma per loro erano precluse onoranze funebri e perfino, insiste il teschio della canzone, un semplice rintocco di campana! La maggior parte delle persone ha sempre ritenuto che il famoso “cannuni” dove si trova il teschio, protagonista della canzone, fosse il pezzo di artiglieria cilindrico utilizzato per fini bellici, e che la canzone si riferisca ad un tragico evento di guerra. Ma così non è! Il “cannuni” altro non era che il boccaporto delle miniere».
L’8 Marzo è la giornata simbolica per ricordare l’itinerario accidentato che hanno dovuto seguire i diritti delle donne per arrivare alla parità con quelli da secoli appannaggio dei soli uomini. Mi è sembrato giusto, in questa occasione, commemorare anche il tragico destino dei minatori siciliani morti nelle solfatare, ai quali fino a 80 e passa anni fa non era neanche riservata la «“pietas” dell’onoranza funebre e di una degna sepoltura» (come si legge nel libro qui sopra richiamato).