di GIANRAIMONDO FARINA
Il breve excursus storico- contemporaneo, relativo alla “lunga marcia” femminile italiana verso il compimento di una democrazia piena di uomini e donne, non può non partire da un momento focale della nostra democrazia: l’Assemblea costituente. Tuttavia, occorre precisare che la prima occasione di voto femminile non fu il Referendum del 2 giugno 1946 per scegliere tra monarchia e repubblica, bensì furono le amministrative di qualche mese prima, quando le donne risposero in massa e l’affluenza superò l’89 per cento. La stessa partecipazione ci fu per il Referendum del 2 giugno. Le donne elette alla Costituente furono 21 su 226 candidate, pari al 3,7 per cento: 9 della Democrazia cristiana, 9 del Partito Comunista, 2 del Partito Socialista e una dell’Uomo Qualunque. Cinque deputate entrarono poi a far parte della “Commissione dei 75”, incaricata dall’Assemblea per scrivere la nuova proposta di Carta fondamentale. E qui parliamo del contributo di poche, ma tenaci donne elette il 2 giugno 1946 per scrivere le regole fondative del nostro vivere civile. Erano solo 21, ma non fallirono nell’obbiettivo: far dire alla Costituzione che donne ed uomini hanno pari dignità e diritti in ogni campo della vita (famiglia, lavoro, sfera pubblica). Un altro momento qualificante era stato quello di opporsi al graduale “sgretolamento” di quello che, assieme all’art. 3, diventerà il “baluardo” della parità di genere in Italia: l’art. 51 della Costituzione. Si trattava di opporsi al ricorso, molto pericoloso, all’utilizzo di una serie di deroghe che ne avrebbero alterato la portata. Una su tutte l’utilizzo del concetto di “attitudini” che avrebbe intaccato significativamente il concetto di “uguaglianza”.
Il successivo momento parlamentare, in cui il concetto di parità di genere riappare è il biennio 1958- 60. E qua intervengono anche due importanti sentenze della Suprema Corte che hanno segnato per decenni il tema. In primo luogo, la sentenza n. 56 del 1958. Essa stabilì che la Costituzione sanciva la parità, ma il principio avrebbe potuto subire “deroghe sulla base di discrezionali valutazioni del Parlamento”. In secondo luogo, invece, di ben più ampia portata fu la sentenza n. 33 del 1960. La Suprema Corte dichiarò l’ illegittimità dell’art. 7 della legge 17 Luglio 1919, n. 1176, che escludeva le donne da una serie di importanti uffici pubblici implicanti l’esercizio di diritti e potestà politiche. Decisione che rappresentò un passaggio fondamentale per l’ammissione delle donne in magistratura, come avverrà con la legge 9 febbraio 1963, n. 66.
E’ soprattutto con gli anni Novanta che il legislatore capisce di dover “dare concretezza” non solo al principio di uguaglianza formale, ma anche sostanziale, con l’unico scopo di consentire alle donne di accedere a condizioni di parità effettiva ai ruoli apicali del settore economico e politico, in modo da partecipare ai processi decisionali. E’ questo, sostanzialmente, il “lungo periodo” che porta al percorso di revisione del ricordato art. 51 della Costituzione, conclusosi con la legge costituzionale n. 1 del 2003 e con l’aggiunta del nuovo comma, pilastro della parità di genere nell’ordinamento costituzionale: “La Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra uomini e donne”.
Gli anni immediatamente successivi son quelli tesi a “suggellare” il principio di uguaglianza sostanziale, corroborato da alcune altre pronunce fondamentali della Corte. A partire dalla sentenza n. 4 del 2010, in cui, per la prima volta in assoluto, in seno all’ordinamento italiano, viene ricondotto esplicitamente il nuovo art. 51 della Costituzione al principio sostanziale, quando si afferma che il nuovo quadro costituzionale è ispirato “al principio fondamentale dell’effettiva parità tra i due sessi nella rappresentanza politica, nazionale e regionale, nello spirito dell’art. 3, secondo comma della Costituzione, che impone alla Repubblica la rimozione di tutti gli ostacoli che di fatto impediscono una piena partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica del Paese”.
L’ingresso del principio di eguaglianza sostanziale ha portato, poi, il legislatore, sebbene dopo tanto tempo di inerzia, a mettere il proprio focus sulla “materia viva” in cui si dovrebbe realizzare la parità di genere: la legge elettorale nazionale.
In primo luogo vi è stata la legge 6 maggio n. 52 del 2015, il cosiddetto Italicum. Legge che rimase in vigore fino al 2017. Pur non venendo mai applicata, ebbe quasi da subito una particolare attenzione alla parità di genere, come, per esempio, la proporzione di genere prevista per i capolista “bloccati”. Nell’ Italicum, poi, nonostante fossero previste diverse norme volte a garantire la parità di genere in Parlamento, soprattutto alla Camera, erano, invece, rimaste inapplicate le norme antidiscriminatorie per il Senato. Senato in cui, peraltro, era rimasta in vigore la precedente legge 270 del 21 dicembre 2005, la cosiddetta “Legge Calderoli”.
L’abrogazione dell’Italicum ha portato alla legge 3 novembre 2017 n. 165, detta Rosatellum, valida per Camera e Senato. Nell’attuale legge elettorale una delle caratteristiche che, proprio in tema di parità di genere emerge, è la presenza delle “quote”. La norma prevede che nelle liste dei collegi plurinominali della Camera i candidati debbano essere collocati secondo un ordine alternato di genere. Prima del 2017, le quote di genere per le elezioni politiche non erano mai state inserite nell’ordinamento italiano, ma alcuni partiti le avevano utilizzate per la composizione delle proprie liste. Nonostante la presenza femminile in Parlamento sia cresciuta nelle ultime tre legislature, l’effetto delle quote è stato probabilmente inferiore alle previsioni.
Ma la parità c è già anziil 40 x 100 degli uomini sono manovrati dalle donne e devono stare zitti certi uomini fanno finta che comandano loro, sicuro,quando la moglie non c è si vede bene la terra sta andando a rottoli