Salvatore Niffoi
di SERGIO PORTAS
Ma come farà Salvatore Niffoi, da Orani che è terra di Barbagia, a scrivere sempre lo stesso libro e a vendercelo come fosse un’assoluta novità? Al di là dei personaggi che si inventa e fa agire capitolo dopo capitolo, immutabile e dolorosa c’è sempre lei: la Sardegna della sua infanzia perlopiù, che di pastori col telefonino non ne compare nei suoi scritti, hanno ancora tutti una “rasoia” con cui si tagliano un pezzo di salsiccia da ingollare con pane carasau, e vino nero, dentro una di quelle zucche svuotate che fanno da contenitore insuperabile anche per l’acqua, che si mantiene fresca come fosse riempita da una fonte che non si scorda mai delle sue origini, lassù su quei monti argentati. La rasoia oltre che per il formaggio spesso e volentieri, in Niffoi, scatta a squarciare pance e a tagliare gole, che i personaggi maschili non hanno mai perduto quella ferinità che li fa scattare per orgoglio, per “balentia”, al di là di ogni calcolo o prudenza. Verrebbe da dire che il mondo che Niffoi predilige è senza dubbio alcuno quello femminile, nei suoi numerosi romanzi sono le donne che tessono la tela dei rapporti, anche e spesso per i loro uomini, figli o mariti che siano. Che agiscono dopo aver pensato e valutato le conseguenze d’una azione, di una risposta importante, anche verso un approccio che magari voleva essere galante ma si rivela invece povero e meschino. Intollerabile per Niffoi che l’uomo non sia almeno un poco poeta, anche se magari analfabeta, non merita di vivere su quella terra che è paradiso per natura e magnificenza di rocce che si alternano a macchie verdi solcate da ruscelli trasparenti, l’inferno sono gli altri che con te sono insieme a contendersela codesta terra, coi muretti a secco meravigliosamente predisposti per agguati di fucile a pallettoni, muri di fichi d’india a cercare di proteggere armenti sgarrettati per sfregio, i guaiti dei cani sgozzati prima del delitto. Gli è che Niffoi è del ‘50, gente del dopoguerra la sua generazione, famiglie numerose ( il Duce che sapete aveva in mente che il numero fosse sinonimo di potenza e ci spendeva qualche regalia) che, lo dice lui ma me lo ricordo bene pure io che sono nato quattro anni prima, la carne lessa la vedeva in tavola una volta al mese, il brodo con quelle macchie di unto che pure lo diversificava dall’acqua calda, una manciata di formaggio grattugiato a ingentilire una zuppa con più pane che si può, a riempire la pancia, che la razione di carne da dividere dopo sarebbe stata poca cosa per ognuno. Una mela per frutta, solo i ricchi potevano permettersi di mangiare banane. Allora i sacrifici di una famiglia erano per “far studiare i figli”, anche Salvatore era destinato a essere ragioniere, un mestiere “sicuro”, con stipendio dignitoso, persino più di quello di un maestro. Che pure ogni fine del mese incassava di che mangiare e pagarsi la pigione di una camera ammobiliata. Non come gli altri del paese, quasi tutti, che dovevano andare a disossare terre altrui, pascere greggi d’altri con paga di latte e formaggio, vendersi come aiuto muratore, carpentiere, sarto, ciabattino, minatore. Salvatore che recalcitrava nello studio della partita doppia, fu mandato per un’estate a spaccare pietre, splendido espediente per fargli prospettare con ansia il ritorno sui banchi di una scuola. Con in tasca il sospirato diploma a Roma si iscrisse a lettere e si laureo “magna cum laude”( tesi sulla poesia sarda) con i meglio insegnati dell’epoca : Salinari e Tullo De Mauro, quest’ultimo avrebbe avuto un passato come ministro della pubblica istruzione, certo provenire da un paesetto come Orani alla corrusca bellezze di una Roma che seppure non più imperiale era comunque un fulcro di modernità e di possibilità culturali, deve essere stato inebriante per un ragazzo che mai prima era uscito dalla Sardegna.
Trovò comunque amici che come lui non disdegnavano uscite serali per bar che tiravano giù le serrande sul far dell’alba. Più whisky che cannonau, ma che magia quella chitarra di Fabrizio (De Andrè) e che canzoni venivano fuori al chiaro di pochi lampioni ancora accesi. Ancor oggi quell’amicizia fondata su quei vagabondaggi serali Niffoi la rivendica: “La seconda donna più importante della mia vita, dopo mia moglie, è Dori Ghezzi”. Sua moglie poi riconosciuta subito come tale al primo incrociarsi di sguardi, anche se gli amici di sempre avevano decretato essere lei per lui “una ragazza troppo bella”. Una settimana dopo eravamo insieme, ricorda ghignanado Niffoi. E lo sono tuttora, una vita. Deciso a passarla nel suo paese natale, insegnerà per decenni nelle scuole medie di Orani, e che insegnante deve essere stato, uno di quelli che ti segna per la vita, che sì sa di storia e di latino, ma anche di come si chiamano tutte le erbe selvatiche che crescono spontanee, appena fuori nelle campagne, nomi in italiano e in sardo, quella lingua che ancora formava tutte le infanzie dei piccoli scolari. E che era da mantenersi come un tesoro inaspettato, capace di svelarti il mondo con colori e scorci differenti, misterioso di storie che venivano tramandate oralmente da nonni e zii che sapevano a mente la Divina Commedia anche se faticavano a compitare il loro nomi sui documenti. Una Sardegna aspra di fuoco di legna e camini fumosi, ricca di poeti (in limba) che venivano travolti loro malgrado da una natura troppo esuberante per non essere anche crudele, periodi troppo siccitosi voleva dire fame, e se arrivavano cavallette a mangiarsi il seminato toccava pensare di andare a sfangare la vita in continente. E a tanti toccò quella sorte. Niffoi era scrittore da subito, ci è nato, non ha avuto bisogno di laurea. Anche lettore ostinato, di giornaletti e romanzi dei russi e francesi, ma scrittore della realtà che sapeva cogliere mirabilmente nella gente del suo paese, umile o importante che fosse. Ne coglieva i tratti più nascosti, i vezzi che venivano impietosamente messi a nudo dai soprannomi che il paese affibbiava un po’ a tutti. Marcati per tutta la vita, crescevi come “su fillu ‘e…”, se non riuscivi a meritarne uno tutto per te. Ne sono zeppi i suoi romanzi di questi soprannomi, che Salvatore il sardo l’ha usato da subito come substrato imprescindibile del suo narrare, intercalandolo con una prosa italiana immaginifica e lussureggiante di metafore le più ardite e poetiche. Il più “sardo” degli scrittori contemporanei, capace di vincere i premio Campiello, che è sempre (o quasi) andato agli scrittori italiani più puri, da Primo Levi a Dacia Maraini, da Antonio Tabucchi a Maurizio Maggiani. Eppure i suoi libri sono pieni dell’intercalare in sardo dei suoi personaggi, qualche volta traduce in nota , ma spesso si accontenta dell’armonia che la parlata sarda suscita nel lettore, senza che il senso italiano della frase ne sia inficiato più che tanto. Un torrente di libri, uno più bello dell’altro che, beato lui, le storie gli si palesano da un nonnulla, da un’odore di sterco di buoi, un gironzolare di rondini dopo un temporale violento che ha dato una mano di fresco ai tetti del paese. Tra il 2022 e 2023 un uno-due del tutto inatteso: prima “L’apostolo di pietra”, uscito per Giunti, l’anno dopo per “La nave di Teseo”: “Nate sotto una cattiva luna”. Che se Niffoi ha una specialità è quella di zampettare per editori, dal “Maestrale” dei suoi primi libri, ai più prestigiosi “Adelphi” e “Feltrinelli”, ora dice lui ha trovato nella casa editrice della Sgarbi un modo di lavorare con i suoi scrittori più umano di quanto non fosse quello delle “prestigiose” case editrici precedenti. In tutte e due questi ultimi lavori ci sono, al solito, degli accadimenti “esagerati”, che so nel primo una notte tutti gli abitanti del paese fanno lo stesso sogno, va bene che era la notte di San Lorenzo, ma a quale scrittore “sano di mente” verrebbe da inventarsi una tale stranezza, eppure il romanzo fila via liscio e senza intoppi senza che quel primo motore che ha dato inizio a tutte le altre storie appaia inverosimile, infine non siamo in Sardegna? Dove se non lì può apparire dall’oggi al domani un apostolo di pietra che non faccia scandalo: “Alla fine lo chiamarono San Tomè. Il giorno del suo battesimo le colline di Oropische tirarono un respiro di sollievo e il sole capì che avrebbe dovuto lavorare più del solito. Per molto tempo ancora sfarinò le sue manciate di luce sopra gli uliveti di Murisina e di Biriai” (pag 34). E le eroine “nate sotto una cattiva stella” sono addirittura in numero di sei ( e meno male che tre maschi usciti dallo stesso parto non ce l’abbiano fatta a sopravvivere): insomma cosa c’è di strano se in tempi in cui le pillole per curare l’infertilità erano al di là non dico di venire, ma neppure di essere immaginate nei romanzi di fantascienza, cosa c’è di strano se siamo in Sardegna il 25 luglio del 1929, giorno di San Giacomo Apostolo. “Quel lunedì di luglio la luna rimase nascosta dietro le quinte per lasciar brillare nel cielo le sei stelle più luminose del firmamento” (pag.38).
Continuerà per accadimenti truculenti il libro, ci sarà uno stupro e pagine di vendette postume per la banda di disperati che insieme lo commisero. Addirittura una relazione amorosa tra due donne che durerà lo spazio di poche notti d’amore. E di poche righe nel libro. Ma quanto dolore e vergogna sarà costato. Alle sei gemelline il compito di “fare un po’ di giustizia”, quella che nei libri di Niffoi si nasconde spesso nel codice barbaricino che sovraintende al vivere della gente, spesso in piccoli paesi dell’interno: “Visto da Punta Liada, dove un ginepro secolare sogna ancora di sfiorare con le sue mani scorticate una nuvola di passo, il paese di Bodoloi somiglia ad un catino arrugginito pieno di sassi e fango che col passar del tempo sono diventati case” ( pag.25). C’è un ritmo in queste pennellate di parole che ti culla e ti costringe allo stesso tempo a buttarti sulla frase che segue. Come una malia di flauto magico che si tira dietro tutti topi del paese, e poi i bimbi anche. E’ la magia di Salvatore Niffoi, quest’anno dopo dieci che non si faceva vedere era al salone del libro di Torino, si può seguire su YouTube una sua intervista dove tuona (anche) contro il cosiddetto “narcisismo identitario” dei ( non tutti) sardi. Che non porta da nessuna parte. Ne ha anche per coloro che “vivono sui social” (miserabili, che vivono di niente). Contento di tornarsene a Orani a fare il nonno: le storie più belle e che non scrive sono di certo quelle che racconta a Ludovica, la sua nipotina, e un’altra fortunata è in arrivo. Ninnate in italiano e in sardo, ci scommetto.
Non vedo l’ ora di leggerlo
❤️
Bellissimo! Molto originale per scrittura e argomento. Molto coraggioso
Lo adoro❤️
Laia chefidu lezzer iscriende in Sardu
Voglio leggerlo,lo comprerò
Grazie della segnalazione. Un abbraccio a tutti voi.
Totus impari, o forza paris o tutti insieme.
Ma “centu concas e centu barritas” ma su questo scrittore non si può mettere dubbi sia grande e autentico.
Io che i suo libri li leggo prima che lui gli scriva grande su ziu
Bravissimo complimenti ♥️
Appena letto
Già letto..bellissimo!ho tutti i suoi libri!
Non vedo l’ora di leggerlo. Complimenti allo scrittore ❤️
Leggetelo, è un bellissimo romanzo. Particolare come tutti i libri di Niffoi.