La loro tradizione risale a tempi antichissimi. Il nome si fa risalire ai tempi dei fenici, che chiamavano i sardi “melameimones”: facce nere, che erano quelle che i colonizzatori attribuivano alle popolazioni locali. E i Mamuthones hanno i volti scuri, uno degli aspetti della maschera tradizionale del carnevale barbaricino che incute più timore. La maschera nera di ontano si chiama “visera”. E poi ci sono gli abiti di pelle di pecora nera – un gilet – che richiamano il profondo legame con le tradizioni agropastorali, l’abbigliamento in velluto, un cappello chiamato “bonette” e poi un fazzoletto chiamato “su muncadore”. Sulle spalle portano un gruppo di campanacci dal peso di 20, 25 chilogrammi, che durante il cammino rituale e i salti della sfilata generano quel rumore quasi infernale che viene attribuito in modo quasi iconico al carnevale di Mamoiada. Poi sul petto i Mamuthones hanno anche delle campanelle in bronzo legate a delle cinghie di cuoio.
Quella di Mamuthones e Issohadores è una tradizione con cui ormai l’Isola intera viene identificata, al punto che nascono manifestazioni tutto l’anno in cui vengono usate queste maschere tradizionali a scopo turistico. Ma è chiaro che il senso più profondo, autentico della loro sfilata è legato alla Barbagia e al periodo del carnevale: decontestualizzare le manifestazioni del folclore rischia di non fare un bel servizio a iniziative che hanno un loro senso specifico legato all’identità profondamente radicate nel tessuto connettivo di una comunità. Assistere al carnevale barbaricino è una esperienza molto intensa e non è un caso se ogni anno attiri migliaia di visitatori a Mamoiada, centro di 2.500 anime che è conosciuto anche per il suo Cannonau e la presenza di numerosi vignaioli e produttori di vino (praticamente ogni famiglia imbottiglia, anche solo per uso personale). Il gruppo di testa è composto da 12 Mamuthones, che si muovono insieme creando una specie di processione. Insieme a loro anche una decina di Issohadores, legati ma distinti da loro. Indossano una parte del costume tradizionale del paese: corpetto rosso, camicia bianca, calzoni bianchi di stoffa, calze nere di orbace. In testa hanno una “berritta” e un fazzoletto colorato cinge loro il viso. Lo scialletto intorno alla vita e sul petto una sonagliera in cuoio con delle piccole campanelle: sa soha, che usano per acchiappare chi assiste alla loro esibizione.
Mamuthones e Issohadores si muovono insieme divisi in due file: un Issohadore scandisce il tipico passo cadenzato della processione, una danza misteriosa che ancora oggi riesce ad affascinare, coinvolgere e inquietare. Si parte il 17 gennaio, ogni anno, in occasione della festa di Sant’Antionio Abate, che rappresenta l’inizio del carnevale barbaricino. Poi la domenica di carnevale e il martedì grasso. Ma cosa rappresenta il carnevale barbaricino? Certamente si tratta di un rito propiziatorio legato al ciclo della natura, a ricordare la natura pagana della manifestazione. I campanacci servono a scacciare gli spiriti maligni, insieme a riti legati alla terra e alla fertilità. Poi con la maschera nera e le pelli animali l’uomo si spoglia delle sue sembianze umane, con una doppia natura che lo mette in contatto con il divino. Alcuni rituali pagani sono stati piano sostituiti da una interpretazione cristiana della festa: a Sant’Antonio il rito viene affiancato alla festa cristiana, co il sacerdote che benedice il fuoco.
Alcune teorie recenti sull’interpretazione del carnevale barbaricino e di Mamutohes e Issohadores parla anche della lotta dei sardi contro i mori, o anche il richiamo a una festa bizantina, la Majuma, da cui avrebbe avuto origine il nome stesso del paese, Mamujada. Il rito del Carnevale coinvolge tutta la comunità, che sente la festa in modo profondo: parte di una identità di lunghissima data e di una partecipazione significativa, dai bambini – che nascono e crescono immersi in queste storie – e negli anziani che hanno trascorso la loro esistenza scandita dal rito del carnevale. Il vino naturalmente gioca un ruolo di primo piano e la tradizione enologica del paese è profondamente radicata, andando così a comporre una identità della comunità basata sull’intreccio di carnevale e vigne.
In paese sorge anche il Museo delle maschere del Mediterraneo, uno spazio che mette a contatto le tradizioni sarde con quelle che si affacciano sul ‘Mare nostrum’. Ampio spazio naturalmente alle maschere barbaricine ma l’attenzione è focalizzata anche sulla volontà di mostrare la matrice comune dei riti sardi e quelli di altre civiltà vicine alle nostre: maschere, abiti, gli oggetti che generano i suoni frastornanti della processione, un ampio apparato iconografico e visivo consentono di approfondire la cultura che c’è dietro al carnevale, una cultura che è patrimonio comune di tutta la Sardegna. E che rappresenta una suggestiva chiave d’accesso per turisti e visitatori alla scoperta dell’immenso patrimonio del folclore sardo.