Cesira Atzeni
di FULVIO TOCCO
Raccontarsi attraverso l’utilizzo dell’intervista diretta spesso non è semplice. Preciso che il mio interesse è limitato all’intervista nella ricerca sociale. Però, ora che ho incontrato tantissimi anziani, posso dire che essi amano far conoscere le loro esperienze di vita e raccontano il loro vissuto con una commovente libertà di pensiero. L’intervista in questione, per esempio, mette in evidenza esperienze di una giovane donna che trovò la prima occupazione nella cernita del materiale minerario e sulle sue successive esperienze di madre di 12 figli con la particolare passione per i lavori realizzati con l’intreccio. Le testimonianze e i documenti relativi alla società mineraria, ormai quasi del tutto scomparsa, rievocano le condizioni di vita dei minatori e i sacrifici che hanno dovuto fare per mettere su casa e famiglia. Cesira Atzeni (classe 1930) figlia di Luigi Atzeni (1895) e Giulia Zanda (1903), con la sua testimonianza mi ha fornito notizie sul lavoro, sulle retribuzioni e sulle differenze di genere nelle attività minerarie tra Montevecchio e Ingurtosu.
Il minatore Egidio Marras, marito della signora Cesira, conosceva il rischio del lavoro in miniera perché addetto, per più di vent’anni, alle attività di armatura. Poi venne promosso caporale. Sapeva che costante era il pericolo della caduta di massi o del crollo della volta, come sapeva che maneggiare esplosivi comportava il rischio che qualcosa non andasse per il verso giusto. Le ragazze spesso facevano le cernitrici mal pagate. Nel racconto di Cesira emerge che la retribuzione della donna cernitrice, nella miniera di “Telle” che comprende il pozzo Amsicora e la laveria Lamarmora, era pari ad un terzo della retribuzione degli uomini. Durante la piacevole chiacchierata sono venuto a sapere che Cesira, oltre che accudire la casa e la famiglia, grazie alle sue abili mani e soprattutto per la sua capacità di apprendere un mestiere senza aver ricevuto un insegnamento professionale, ha saputo affinare l’arte del confezionamento dei cestini secondo la tradizione rurale della Sardegna. La grande produzione della “cesteria” che custodisce nella sua casa di abitazione di Via Cervi, 4, è la riprova della sua dedizione ad un’arte utile e sopraffina.
IL RACCONTO «Ho trascorso la mia infanzia tra Montevecchio e Ingurtosu. In quell’ambiente minerario a 17 anni iniziai le mie prime esperienze lavorative. Lasciata la frazione di Montevecchio, a 20 anni, andai a lavorare nella “Miniera di Telle”, situata più a ovest rispetto alla Miniera di Sanna comprendente il Pozzo Amsicora, e la Laveria Lamarmora. La miniera di Ingurtosu, in parte, era gestita con metodi manuali. Nel ciclo di lavorazione furono impiegate anche giovanissime donne, soprattutto addette alla cernita del minerale».
IL DURO LAVORO DI SELEZIONE DEL MINERALE «La selezione del materiale minerario sui nastri trasportatori era un lavoro duro e mal pagato con turni di 8 ore che consentivano solo 30 minuti di pausa per lavarsi le mani dalla polvere, mangiare e fare i bisogni personali. Si mangiava quel poco che portavamo conservato all’interno di un contenitore. Si lavorava in mezzo alla polvere, ma nel mio turno trovavamo il modo cantare durante il lavoro; ci abbassavamo la protezione della bocca e si cantava. Quel canto spesso veniva interrotto dal caporale che ci controllava perché veniva disturbato dall’udire il regolare funzionamento della tramoggia che teneva costantemente sotto osservazione».
L’INCONTRO COL FUTURO MARITO «Eravamo un bel gruppo di amiche, sempre allegre, e io conobbi mio marito Egidio Marras in quella circostanza di lavoro. Lui, appassionato di ciclismo, a fine turno, ci affiancava e inseriva una lettera nella borsa di una delle mie amiche. Poi guardavano l’indirizzo e me la consegnavano. Come vedi non me la dava direttamente. Chissà perché? Comunque all’età di 20 eravamo già marito e moglie».
L’ACQUISTO DEL TERRENO «Nonostante il lavoro di mio marito non fosse ben retribuito, grazie a un consiglio di un suo compare di Sanassi, Luigino Sanna, avevamo acquistato, con 200mila lire, il terreno dove abbiamo costruito pian pianino la casa di abitazione».
IL TRASFERIMENTO A SAMASSI «Nell’area dell’attuale via Fratelli Cervi vi era un’aia e solo un’altra casa e senza illuminazione pubblica. Alla fine del 1956, anno del nostro trasferimento, si viveva da isolati anche dentro casa; nei giorni in cui mio marito non era presente ti assicuro che non era semplice. I mascalzoni non mancavano neanche a Samassi. Certe volte ho dovuto interessare anche i carabinieri contro coloro che cercavano di arrecarmi disturbo bussando la finestra di notte».
LA RETRIBUZIONE DEL LAVORO IN MINIERA «Come abbiamo potuto abbiamo completato la casa di abitazione. I soldi non erano tanti. Quando mi capitava di contarli, la mensilità che percepiva mio marito arrivava, di norma, a 39 mila lire al mese; qualche volta superava le quaranta ma a cinquantamila lire mai. Le donne erano pagate una miseria. Quando lavoravo al nastro di selezione della miniera di Ingurtosu mi davano 13.000 lire al mese. Con la prima mensilità ricordo che comprai un copriletto da corredo con delle parti in velluto».