Sergio Naitza
di SERGIO PORTAS
Milano Fashion Week, tale Francesca su “Cliomakeup” (ci tiene a precisare che il suo articolo è scritto da una persona, non da una macchina, e questo la dice lunga sull’avvento infestante dell’intelligenza artificiale nel mondo dell’editoria) scrive dei giorni ”infuocati” che vive la metropoli milanese con le più acclamate modelle di tutto il mondo che sfilano per le “Maison” più seguite. Di Antonio Marras (acclamato stilista sardo, sic!) dice che si è ispirato, per la sua nuova collezione, al mondo del cinema, concludendo quello che definisce il suo show insieme a Marisa Berenson, che fu grande modella e grande attrice qualche stagione fa, indimenticabile per me nel “Barry Lyndon” di Stanley Kubrik. Lo stilista algherese le fa indossare un davvero sontuoso abito vagamente ispirato a un kimono da geisha e soprattutto le mette in capo unna tiara di diamanti da far invidia a un papa medievale o, per restare in clima cinematografico, non sarebbe parsa stonata per una diva come Liz Taylor, che dei diamanti di Bulgari faceva collezione, specie ai tempi della sua burrascosa relazione con Richard Burton, iniziata quando lui era Marco Antonio e lei Cleopatra; galeotto fu il film di Mankiewicz dall’omonimo titolo che li buttò l’una nelle braccia dell’altro anche nella vita. Ma non è a quel film che si è ispirato Marras, lo racconta lui stesso al cinema “Mexico” dove si proietta un documentario: “L’estate di Jo, Liz e Richard” diretto da Sergio Naitza, anche lui presente in sala, reduce dall’aver ottenuto con la sua pellicola, un prestigioso premio quale il Kingston International Film Festival di Londra. A sentire Marras la sua infanzia algherese si è divisa tra i tre cinematografi che erano allora in città, il suo primo film accompagnato da mamma: “Marcellino pane e vino” (ne ho un ricordo pauroso). E da allora non riesce a vedere un film se non proiettato sul grande schermo (odio vedere film su computer, dice). “Boom” gli è apparso subito caro perché girato nella sua Alghero nella primavera estate del 1968 e anche perché tra le maestranze sarde che furono assunte per girarlo, comparse comprese, c’erano alcuni parenti di suoi amici. Gli stessi costumi disegnati da una sartoria romana si erano avvalsi dell’opera di un bravo artigiano sardo. Non può sfuggire a Marras che la coppia protagonista del film avesse voce in capitolo quasi quanto il regista, che pure era Joseph Losey ( tra i suoi numerosi film: “Don Giovanni”, un “Galileo”, “Messaggero d’amore”, palma d’oro a Cannes), uno a cui l’enciclopedia del cinema dedica numerose pagine, e giustamente: “Il mondo cinematografico di Losey è segnato dalla ricerca inquieta delle ragioni morali, psicologiche, politiche dell’agire sociale, percorso da ombre e interrogativi sulla complessità dei rapporti interpersonali, di classe e di potere, un continuo indagare sull’ambiguità di fondo dell’identità umana e della condizione esistenziale”. In tempi di maccartismo hollywoodiano gli toccò di subire il destino di Charlie Chaplin, etichettato come “comunista”, dovete emigrare a Londra, dove per mangiare si adattò a dirigere film sotto falso nome. Gran regista quindi, grandi attori, il meglio che si potesse trovare allora e, a completare l’opera: la sceneggiatura di un altrettanto grande scrittore, drammaturgo, sceneggiatore e poeta statunitense: Tennessee Williams (Un tram che si chiama desiderio, Lo zoo di vetro, La gatta sul tetto che scotta). I suoi drammi ancora oggi nei maggiori teatri del mondo. “Quella di Tennessee Williams, uomo e drammaturgo, è una partita a carte, un gioco con il destino baro e crudele. Al tavolo con lui ci sono prostitute, folli, gigolò, giovani squattrinati, bestie travestite da umani, uomini e donne perduti, derelitti. Un’America dolente e spietata, dal sapore amaro e polveroso…” (Rebecca Ramacciotti su “Maremosso”, sul web). A far da quinta a tanti talenti lo strapiombo di Capo Caccia, l’imponente promontorio di roccia calcarea che si erge a intramurale per difendere la zona di Alghero da un mare colore del blu che, quando non di rado fa la lotta coi venti, butta in alto sbuffi di spuma a schiaffeggiare le rocce emergenti, nella speranza di allagare la pianura soprastante, incurante che questi tentativi si siano per ora dimostrati vani e velleitari, lui che ha tempo per reiterarli, secoli e millenni. Sopra il promontorio, a sottolineare che la ricchezza può comprarsi i panorami più belli del mondo, se vuole, fu costruita una villa: grande, candida di marmi pregiati, isolata da ogni altro tipo di manufatto, a farsi beffe del mare sotto, che si staccava prepotente nell’azzurro estivo del cielo di Sardegna. Da dire che in un primo tentativo di costruzione in cui si era esagerato nell’uso del cartongesso, una delle frequenti “maestralate” aveva fatto subito capire che ci voleva ben altro, se si voleva evitare che alle prime folate di quelle che hanno piegato ulivi e ginepri abbarbicati alla terra da radici possenti, tetti e masserizie andassero sparsi per le campagne circostanti. E ogni mattone, ogni tegola, ogni cosa dovette essere portata su a mano, magari si saranno fatti aiutare da un qualche asinello, che di strade praticabili che andassero sul promontorio allora non ce ne erano affatto. Le maestranze del posto iniziarono così a beneficiare dei rivoli di denaro che sarebbero scaturite da un “budget” milionario che non badava a spese, quattro milioni e mezzo di dollari, la metà dei quali solo per pagare la prestazione dei due attori principali. Fa parlare i protagonisti di allora Naitza, i ragazzi che furono coinvolti nell’impresa, alcuni per il lavoro di pochi mesi misero via il tanto da pagarsi una “cinquecento”. Dice uno di loro: “A quel tempo guadagnavo cinquantamila lire al mese, mi chiamarono per sgorgare non so che lavandino sullo yacht con cui erano giunti Liz e Richard, mezz’ora di lavoro e mi diedero diecimila lire”. Lo yacht era un regalo che Burton fece a Liz per il suo secondo premio Oscar, una superbarca motoscafo lunga 45 metri ribattezzato con l’acronico delle iniziali delle figlie: Kate, Liza e Maria, da cui: Kalizma. Gli interni e le cabine tutto un legno di mogano e ottone splendente, per la cronaca è stato restaurato da poco, è ormeggiato alle Maldive e può persino essere noleggiato, il salone ospita un tavolo con dodici sedie, quindi potete portarci degli amici, alla modica di 12 mila dollari americani a ora. Al tempo del film era pieno di figli e di cani, figli e figlie da matrimoni svariati ( lei ne contò otto), Liz e Richard si sposarono due volte, ma continuarono a litigare per tutto il tempo della loro unione, quando lui voleva farsi perdonare un qualche torto più grave del solito, volava a Roma da Bulgari, e tornava coi diamanti, spille, collane e braccialetti. I cani talvolta dovevano starsene in barca ( la legge inglese prevedeva una quarantena di sei mesi per gli animali che avessero sbarcato sul suolo britannico, per prevenire la rabbia), uno di loro comunque, causa un litigio sul set, fu “rapito” e portato a Barcellona. Lo racconta nel documentario il giovane fotografo Gianni Bozzacchi, che fu incaricato di riportarlo in Sardegna. Noleggiato un aereo per Barcellona e scoperto il fedifrago che al suo arrivo minacciava con un coltello alla gola il cane da salvare, venuti a più miti consigli, si noleggiò un altro aereo per il ritorno: questa volta due i passeggeri: il fotografo e il cane. Tutto è bene… Per una scena in cui doveva apparire un cesto ricolmo di frutta, si scoprì con disappunto che l’uva che cresceva in Sardegna non aveva chicchi abbastanza “grandi”: solito aereo questa volta con destinazione Grecia e arrivarono i grappoli coi chicchi giganti che voleva il regista. Durante le riprese il tasso alcolico dei protagonisti era tale che persino le maestranze sarde, tutta gente che come è noto non conosce neppure il significato della parola astemio, era presa da grande stupore. Liz e Richard avevano l’abitudine di iniziare la giornata buttando giù drink a base di vodka e whisky, altro che vermentino! Lo stupore comunque aumentava ancor più quando Liz, palesemente ubriaca, riusciva mirabilmente a girare la scena che le toccava quel giorno, con una professionalità impressionante, quasi mai la prima doveva essere ripetuta. Burton ebbe per buona parte della sua vita problemi di alcolismo, secondo una sua biografia arrivava a bere tre-quattro bottiglie di superalcolici al giorno. Ma non fu l’uso di alcol che determinò il “flop” del film al botteghino, stroncato anche dalla critica ufficiale voltate le spalle dal pubblico, fu presto messo da parte e dimenticato. Un vero fallimento. Le cui ragioni vengono oggi rimesse in discussione da critici importanti, e se l’americano John Waters ( regista, drammaturgo ecc:) può essere sospetto in quanto da “re del trash” ha fatto della sua vita e del suo lavoro una provocazione continua, il francese Michel Ciment è un critico a tutto tondo, che ha scritto innumerevoli libri sui più importanti registi cinematografici, specie gli americani. Ambedue parlano di “capolavoro in anticipo sui tempi”. Waters poi ne fa addirittura il suo film di culto. Davvero può essere letto come metafora di una borghesia cafona sull’orlo di un declino che pare inarrestabile? Col movimento impetuoso del‘68 che sembra sul punto di darle l’ultima spinta sull’orlo di un burrone? Sull’orlo di Capo Caccia? La direttrice della Società Umanitaria- Cineteca Sarda di Alghero Alessandra Sento ricorda che aveva due anni quando il progetto fu realizzato a “casa nostra”, lasciandosi dietro un’eredità che ha toccato tutte le generazioni. E quando Sergio Naitza, cinque anni fa ha presentato loro il suo di progetto non c’è stato bisogno di convincerli, tanto è parso subito originale. Col rischio che di della vicenda venisse trasmessa una sorta di leggenda, solo orale, che finiva per trasformarla in bugia. Anche per Francesca Alfano Miglietti, che di mestiere è critica d’arte, molto amica di Marras, dice che il film è molto bello, lucidissimo, con due “dei”, due enormi professionisti. Liz poi: una sorta di icona, che non passa attraverso l’erotismo. Che poi sia stato un fallimento, tutta la storia della cultura è fatta di fallimenti (Vedi van Gogh). “La mia vera scoperta è stato Sergio Naitza, il documentario non è un genere facile. Quando lo guardiamo è con gli occhi del regista che lo stiamo seguendo passo passo. Lui qui ha fatto un lavoro da detective, usando un modo di raccontare che fa diventare cinema il documentario stesso”. Dice bene Antonio Marras: “Come per magia Hollywood atterra nella terra più selvaggia e pura, sulla scogliera di Capocaccia, Alghero, Sardegna”