Luciano Marrocu
di SERGIO PORTAS
Giuliana Pias, che occupa la cattedra di italianistica all’università di Paris Nanterre, chiude così il suo saggio: “Su Sambenau” e “Su Strangiu”: nativi e stranieri nel giallo sardo contemporaneo scrivendo: “Si può quindi affermare che i giallisti sardi sembrano considerare l’identità sarda un processo in corso, una costruzione, una decisione, anche quando si ha l’impressione che essi riproducano stereotipi del Novecento sardo. La loro rappresentazione identitaria non è né rivendicazione né denuncia, ma diventa materia di narrazione. Cita, a tal proposito, svariati libri di Marcello Fois, Giorgio Todde, Giulio Angioni, il classico “Procedura” di Salvatore Mannuzzu, “Scarpe rosse, tacchi a spillo” di Luciano Marrocu. Ecco é su arrocu che mi voglio soffermare, intanto perché come me è guspinese di nascita, lui due anni più giovane di me che sono del ‘46, di settembre, a referendum già svolto quindi cittadino di una Repubblica nuova di zecca. Mi viene comunque da pensare che anche per Luciano abbia molto contato venire alla luce in quel “paese di comunisti” che si erano fatti una cultura marxista lavorando nelle miniere di Montevecchio non già nelle università, ma lavorando sin da ragazzini, e da ragazzine, a cavare minerale e a separarlo dalla roccia, partendo ogni giorno dal paese giusto prima dell’alba, a piedi naturalmente, per farvi ritorno, sempre a piedi, a sera inoltrata. Intanto Marrocu non nasce “giallista”, o forse sì, i suoi primi libri pubblicati fanno comunque riferimento al tipo di studi intrapresi, sfociati in una laurea in Storia Contemporanea, materia che poi insegnerà alla “Sapienza” di Roma e all’Università di Cagliari. I primi sul movimento operaio inglese (ma anche ”La Sardegna socialista”), e assieme a Manlio Brigaglia: “La perdita del Regno. Intellettuali e costruzione dell’identità sarda tra Ottocento e Novecento”. Debordando poi con una scrittura letteraria meno “ufficiale”, specialistica, per libri che trattano di tutt’altro: la “Deledda. Una vita come un romanzo”. “Orwell. La solitudine di uno scrittore”. “Il salotto della signora Webb. Una donna nel socialismo inglese”. Da ultimo mi piace citare: “La sonnambula. L’Italia del Novecento”, Bari Laterza del 2019, che mi è piaciuto un sacco. In mezzo a tanta scrittura, e non gli ho citati tutti, Luciano nel 2000, se ne esce con “Fàulas”, per il Maestrale di Nuoro. Il primo dei suoi gialli, ambientato nell’Italia del ventennio fascista, periodo che Marrocu ha molto frequentato nelle biblioteche e nei saggi universitari, di cui si può ben dire che è uno specialista. E molto ne ha scritto. In “Faulas” fanno la loro comparsa una coppia investigativa direi “tipica” del genere, si pensi solo a Sherlock Holmes e al dottor Watson, Nero Wolfe e Archie Goodwin, ma se ne potrebbero citare molti altri; il “trucco” letterario consiste nel far agire nel medesimo tempo e di fronte agli stessi avvenimenti, due punti di vista per lo più divergenti, a seconda dei caratteri con cui l’autore intende vestire i suoi personaggi. Qui già i nomi sono un programma: il “pensatore”, il capo, il più anziano dei due, dirigente dell’OVRA, la polizia fascista che avrebbe schedato milioni di italiani, a protezione della “rivoluzione”, è un meridionale che risponde all’ improbabile nome di Eupremio Carruezzo, il suo sottoposto è sardo, di Cagliari che ha lasciato per vincita di concorso, non è riuscito a continuare gli studi in giurisprudenza, viene da una famiglia povera, il padre questurino, al liceo “Dettori” gli insegnanti, già dal cognome per nulla “nobile”, avevano capito che “non poteva essere da liceo classico”, e il criterio è senz’altro opinabile, si pensi allo studente che avrebbe davvero frequentato le medesime aule, dal nome altrettanto improbabile: Gramsci, Antonio, Nino per gli amici. Marrocu chiama il suo personaggio Luciano Serra (come il protagonista del film di Amedeo Nazzari, in cui è pilota) e nello scorrere delle indagini che inevitabilmente caratterizzano i gialli, ne svela mano a mano il carattere accidioso, neanche triste, proprio per una sua scelta di vivere nella tetraggine, derivante da una disamine di sé che non lo soddisfa per niente. Però è bello, attraente, i baffetti sottili alla “Nazzari”, ha successo con le donne, ma se ne fa scappare una che forse resterà l’unica di cui si innamora veramente, e questo proprio in “Fàulas”, nel mentre investiga sulla morte del padre di lei. Carruezzo con le donne è un vero disastro, ne ha una paura fottuta, in compenso è colto e riflessivo, a Serra vuole bene davvero, anche se tende a smorzare una sua idea di giustizia troppo “alta”, che possa essere eguale per tutti. Cosa che in tempi di totalitarismo, il regime (leggi Duce) che controlla i magistrati e decide della carriera dei giudici, è una favola che non si bevono neppure i bambini. Da qui molti percorsi investigativi che si perdono nei meandri di una quotidianità fatta di tirare a campare, con risultati finali che si devono più a delazioni o lettere anonime (nel periodo floridissime) che a deduzioni particolarmente acute da parte dei due. Impagabile però è l’atmosfera che si respira leggendo di questi “gialli”, capace davvero di far rivivere situazioni che paiono essere sfuggite da una macchina del tempo difettosa, tanto sono credibili. Per caratterizzare i tempi che corrono Marrocu butta lì riflessioni che dire appropriate è dir poco: siamo nel 1939: “L’anno precedente Bartali aveva compiuto sull’Izoard il suo capolavoro, dando venti minuti di distacco al suo rivale per la maglia gialla, il belga Felicien Vervaecke. A Serra, che pure era tifosissimo di Bartali, il corridore belga stava simpatico, forse perché era un “domestique”, un gregario…A leggere Orio Vergani sul “Corriere della Sera”, i corridori belgi tracannavano circa sei litri di birra per ognuno, questo senza scendere dalla bicicletta” (in “Fàulas”, pag.190). E’ capace Marrocu di far intervenire, nel dispiegarsi degli avvenimenti, un personaggio letterario di altro autore, il Ciccio Ingravallo che Carlo Emilio Gadda avrebbe immortalato nel “Pasticciaccio brutto de via Merulana”, in cui un altro investigatore, commissario di polizia, sarebbe assunto a protagonista assoluto della letteratura italiana del Novecento. E come mena, Ingravallo, che ceffoni, che manrovesci (pure Serra non scherza al riguardo) quando il sospettato si rifiuta di venire al dunque, e dà risposte interlocutorie. Tra i personaggi “veri” non poteva mancare il Duce, naturalmente (“Il caso del croato morto ucciso”, Dalai ed.,appare a pag.163), il suo fido Arturo Bocchini, capo della polizia, gran mangiatore, gran puttaniere, che mette insieme un suo gruppo di “fedelissimi” ( per sapere tutto di loro: “Affari Riservati”, Dalai editore, in cui si cerca, invano, con lettera taroccata dai nostri servizi di far sì che l’Italia non entri in guerra con quel bel tomo di Hitler). Insomma il fascismo, inteso come regime, dispiegato a una platea che non deve essere uniforme anzi si suppone composita, un linguaggio comprensibile a tutti, anche a chi sia digiuno dell’argomento, che non abbia nulla studiato nelle scuole frequentate, o sia troppo giovane anche per averne una pallida idea, di cosa sia vivere con un’informazione che non sia quella “ufficiale”. E dire che sarebbe bastato mettere la camicia nera per stare tranquilli, il sabato fascista, andare alle adunate di tutti, magari a piazza Venezia quando Lui avesse tuonato dal balcone che il regno italiano sarebbe diventato presto un Impero, come ai tempi fatali in cui Roma dominava il mondo. E il mar Mediterraneo era “tutto nostro”. Per arrivarci l’italico popolo avrebbe dovuto vendere la sua già non immacolata anima al demonio della sopraffazione di altre genti, più scure di pelle, ma non meno ricche di storia, che gli etiopi fanno risalire le loro origini ai tempi biblici della regina di Saba, che con l’ebreo Salomone figlio di Davide, allora re in Gerusalemme, ebbe storia d’amore da cui nacque un figlio a cui (forse) sarebbe stata regalata l’Arca d’oro dell’alleanza. Serra e Carruezzo sono da quelle parti per quanto si sfoglia “ Debrà Libanòs”, io ho l’edizione per Maestrale, qui vi si può leggere di Rodolfo Graziani, che vi esplica le funzioni di Vicerè (Re è naturalmente il Savoia che ha permesso a Mussolini di farsi padrone d’Italia). Si veda cosa di lui scrivano gli storici: Carlo Spartaco Capogreco nel suo: “I campi del Duce”, l’internamento civile nell’Italia fascista, Einaudi editore, a pag.54: “ Anche l’Italia espresse un suo “colonialismo concentrazionario”. Nell’estate del 1930, dopo quasi quattro anni di guerra, il generale Rodolfo Graziani portò infatti a termine la “pacificazione” della Libia con la deportazione e l’internamento di circa centomila civili costringendoli a vegetare, insieme a 200.000 capi di bestiame, dietro il filo spinato di 15 tendopoli impiantate nella Sirtide…di essi costretti all’inazione o sottoposti al lavoro coatto, rimasero in vita meno di 60.000” (pag.54/55). E a pag.67 di “Debrà Libanòs” due telegrammi del suddetto generale che ha fatto carriera: “ In conseguenza miei ordini generale Maletti ( il figliolo di lui avrebbe avuto un triste ruolo nella strage di piazza Fontana, e se ne dovette andare a morire in Sud-Africa, ndr.) oggi ore tredici habet fatto passare per le armi duecentonovantasei monaci compreso vicepriore et altre ventitré persone complici”. Graziani, Viceré d’Etiopia, al ministro dell’Africa Italiana del 21 maggio 1937, n°25876. E il 27 maggio del 1937, nel n°27136: “Risultando anche complicità diaconi, ho ordinato che essi in numero di centoventinove fossero passati per le armi at Debra Breham. In tal modo del convento di Debrà Libanòs non rimane più traccia”. C’era stato un attentato, una bomba: sette morti e cinquanta feriti tra cui Graziani. Fà dire Marrocu a una sua protagonista, bella e abissina:” Ma voi cosa cercate? Cercate la verità? Ve la dico io la verità. La verità è che il giorno dopo l’attentato al viceré, bande d’italiani hanno cominciato a mettere a ferro e fuoco Addis Abeba, spaccando teste, incendiando, uccidendo, sparando nel mucchio. Sono morti migliaia di abissini. A nessuno importava che gran parte di loro non avesse nulla a che fare con la resistenza agli italiani. A Debrà Libanòs, il vostro glorioso esercito coloniale in ventiquattro ore ha fucilato più di mille monaci” (pag.142). Monaci cristiani seppur copti. Graziani, nel dopoguerra scontò quattro mesi di carcere (fu condannato a 19 anni) per la sua azione di ministro nella repubblica di Salò. Divenne poi presidente onorario del Movimento Sociale Italiano. Ad Affile, vicino Roma, anche coi soldi della Regione, fu eretto un mausoleo a cotanto personaggio, era il 2012. In attesa che anche i loro paesi di nascita si decidano a far il monumento a Himmler o a Goebbles e si possa fare un bel gemellaggio, e perché no, in attesa che sparisca quella fiamma missina dal simbolo del partito che governa l’Italia, visto che persino il presidente del Senato Ignazio Benito Maria la Russa ha ammesso che la bomba alla stazione di Bologna è di matrice neofascista, leggere i “gialli” di Luciano Marrocu fa bene all’anima, è come bere birra ghiacciata mentre, seduti, si osservano i deserti di Libia e d’Abissinia.
Bravo Sergio Portas, amico mio!