di SERGIO PORTAS
Non è un caso che radio popolare abbia scelto di usare l’area dell’ex ospedale psichiatrico “Paolo Pini” per organizzare la sua tre giorni di festa, “All you need is is pop” anche quest’anno, rispecchiandosi in quel motto che ancora compare ad incorniciarne l’ingresso: “ Da vicino nessuno è normale”, non sono normali i “comunisti” uniti in cooperativa che “fanno la radio” giornalmente, usando a piene mani dell’indipendenza che viene loro garantita da coloro che hanno deciso valesse la pena di sostenerla costantemente, un abbonamento che costa 90 euro all’anno, spalmato mi pare sui dodici mesi canonici, e poi varie altre iniziative di raccolta fondi, lotterie , vendita di magliette , birre artigianali, libri ovviamente, e buona ultima la festa. Non sono normali gli ascoltatori di “radiopop” che decidono di abbonarsi, quando potrebbero benissimo ascoltare gratuitamente i programmi sulle frequenze pericolosamente vicine a quelle di “radio Maria”, e non è infrequente che nel bel mezzo di un dibattito sull’eterna crisi in cui versa la sinistra italiana, irrompa prepotentemente “L’avemariapienadigrazia” del rosario, a sottolineare forse che di crisi irrisolvibile si tratta e che tocchi ormai passare ai riti funerari del caso. Sinistra nostalgica forse, di quei gloriosi anni settanta in cui riuscì a imporre al paese un’agenda politica che portò a conquiste fondamentali di diritti che rivoltarono la sonnacchiosa società a matrice clericale ancora imperante: divorzio, diritto d’aborto, statuto dei lavoratori, sistema sanitario nazionale e legge 180, la cosiddetta “Basaglia”: chiusura dei manicomi. Rubo da un articolo di Luca Cereda su “LifeGate”: “…il Paolo Pini di Milano non è solo un’immensa dote di spazi da riutilizzare. Gli ex manicomi sono segni che si fanno simboli, sono documentazione vivente della storia clinica di un’Italia che è stata all’avanguardia nel 1978 nel dichiarare che siamo tutti uguali, anche se poi ci sta volendo molto tempo ad eliminare pregiudizi e a far percepire la malattia mentale come diversità nell’eguaglianza. Il matto resta l’altro per eccellenza”. Anche se, dico io, oggi l’altro per eccellenza sta diventando il migrante, meglio se nero. Non poteva quindi mancare, tra la decine di proposte che si sono avvicendate nei tre giorni di festa, una che si occupasse del tema, sabato 10 giugno alle 14, Massimo Bacchetta giornalista di radiopop, ha dialogato con Thomas Emmenegger, psichiatra, presidente e fondatore di Olinda, un progetto collettivo, una cooperativa che ha come scopo principale di aprire ai cittadini la realtà manicomiale, coi pazienti che si riappropriano della dignità gestendo spazi, bar e ristorante, un teatro, un ostello, la festa di radio popolare. Titolo dell’incontro: Psichiatria e democrazia, parliamone. Sui migranti che vi dicevo, il giorno prima alle 19,30 alla “pedana del faggio”, un posto incantato circondato da alberi ultracentenari, Luca Parena e Mattia Guastafierro ne hanno parlato con, tra gli altri, Cecilia Strada e Mimmo Lucano (in collegamento): titolo: Basta morti in mare, ritorno a Cutro. Gli è che codesta radio si occupa prioritariamente di politica nazionale e internazionale, con un taglio decisamente alternativo alla vulgata che va per la maggiore, il cosiddetto “mainstream”, da qui i temi che vengono dibattuti partono dal presupposto debbano essere sviscerati in maniera democratica, mediante discussioni aperte fra pari, esperti e non, cittadini qualunque, scrittori di grido. Spesso sono i “microfoni aperti”, telefonate e oramai anche mail e messaggi web, che irrompono nella quotidianità delle trasmissioni.
Coi rischi connessi quando non ci sono filtri di sorta, e praticamente ognuno può lasciarsi andare alle paranoie che più lo agitano. Certo ascoltare dalla viva voce di coloro che sono stati inviati nei paesi che hanno subito guerre, stravolgimenti politici radicali, ogni tipo di avversità, fa una bella differenza, che un bravo cronista quale portatore di una visione documentata agisce come testimone presente sui fatti, apre delle prospettive di verità, per quanto parziali possano essere. Io che oramai mi sono rassegnato nella certezza che se mai il mondo verrà scosso da una rivoluzione essa non potrà che essere eco-femminista (vedi: Marco Deriu: Rigenerazione, per una democrazia capace di futuro) venerdì pomeriggio sono andato a sentire Chiara Cruciati e Liliana Faccioli Pintozzi, ambedue giornaliste rispettivamente per il “Manifesto” e Sky TG24, che relazionavano sulla loro esperienza di inviate speciali, il tema: “Quando la libertà è rivoluzione”. Le lotte delle donne in Medioriente. Moderava Serena Tarabini, una delle star di radiopop. E a malincuore ho rinunciato a sentire Deaglio che in contemporanea conversava con Lorenza Ghedini, altra star della radio, sul trentennale delle stragi fasciste del ’93: Trent’anni di depistaggi. Sia la Cruciati che la Faccoli mi hanno rassicurato che le mie convinzioni “rivoluzionarie” non sono del tutto campate in aria, sono le donne iraniane, le azide del Rojava, ognuna di loro sotto la bandiera con scritto: Donna, vita, libertà, che stanno portando avanti, a costo della vita, un progetto rivoluzionario capace di scardinare quello mortifero che domina il mondo nostrano: mettendo in crisi ruoli cristallizzati e ormai fatiscenti, che olezzano di patriarcato e sopraffazione familiare, di certezze di genere sessuale, di confini tracciati troppo spesso con squadra e righello, ma intoccabili e invalicabili. Di bandiere per cui “è bello morire a vent’anni”. Di religioni che, guarda caso, il mio “libro sacro è più vero del tuo”. Mahsa Amini, uccisa in una centrale di polizia iraniana dove era finita perché la “polizia morale” aveva trovato che il suo velo fosse “messo male” (ne spuntava forse una ciocca di capelli?) incarnava tutte le discriminazioni del paese, perché era donna e curda. Curde sono le donne che hanno combattuto per noi i fascisti islamici dell’Isis. E ora sono bombardate dall’esercito turco di Erdogan. Delle ragazze afgane che per imposizione talebana non possono frequentare scuole medie e università avrei sentito poco dopo Giuliano Battiston, che abitualmente ne scrive sul “Manifesto”, con lui anche Martina Stefanoni che sento ogni sera su “Esteri” prima del radiopopolare delle 19,30. Buon segno che, piano piano, anche l’uditorio maschile sia andato aumentando, sino a che le sedie non bastavano più. Niente comunque a confronto di quello che sarebbe successo il giorno dopo: ore venti, al “Barlume”, una sorta di palcoscenico improvvisato, un’ora prima gestito da Enzo Gentile, giornalista, scrittore e critico musicale, assieme a Adalberto Zappalà, musicista, musicoterapeuta che ha suonato magistralmente la sua chitarra, avevano radunato un bel pubblico, posti a sedere tutti occupati, a sentire di: Jimi Hendrix e lo yoga del suono. Prime di finire la loro “performance”, a chiedere cosa avesse significato per lui la musica di Hendrix, sale sul palco la vera “star” della serata a seguire, e non lo dico io perché Paolo Fresu da Berchidda sia sardo come me, lo ha certificato l’enorme aumento del pubblico, non sarebbero bastate il doppio delle sedie, né il triplo, gente in piedi rigorosamente stipata per più di un’ora, in rigoroso silenzio. A bearsi di Paolo Fresu e il suo Devil Quartet. Doveroso dire che Bebo Ferra alla chitarra, sardo di Cagliari, Paolino Dalla Porta al contrabbasso e Stefano Bagnoli alla batteria, sono tutti artisti di grido nel loro campo, compositori e docenti musicali, insieme a Fresu suonano dal 2004, e insieme hanno inciso una valanga di dischi. Suonano tutti per altre formazioni di jazz e godono di prestigio internazionalmente riconosciuto. Ma Paolo è l’energia che fa muovere il gruppo, quello che sa organizzare, che sceglie le sedi in cui esibirsi, da Sidney a New York, da Tokyo a Johannesburg, da Milano al festival annuale agostano di Berchidda. E’ stato qui solo un’altra volta, mi dice Paolo, con cui scambio due parole prima del concerto. La prima volta che abbiamo avuto a che fare era appena nato suo figlio Andrea che, dice lui, non è più un bambino, ha oramai quindici anni, e in questo periodo in una sorta di campeggio con amici. Stasera la “Devil” suonerà anche una ninna nanna composta dal babbo apposta per lui: la “ninna nanna per Andrea” e sarà un suono di tromba che non squilla, ma inizia dolcemente con scale sopite…la chitarra si accoda con accordi di do e il contrabbasso a ronfare come fusa di gatti, la batteria che accarezza i piatti a tintinno. La tromba di babbo che tesse la tela di un percorso musicale che si tinge del sogno di un bimbo. Il resto del programma prevede musica, non “jazz”, che è una parola troppo piccola per comprendere il fenomeno musicale che parte dagli anni 20 del secolo scorso, il quartetto suona una musica in cui alternativamente i vari strumenti la fanno da padrone, continuando a dialogare l’un l’altro, e sicuramente a improvvisare, finanche a duellare, specie la chitarra di Bebo e il flicorno di Fresu. Nei miei appunti leggo che, quando la luce va scemando, il suono sembra volerla seguire con toni più dolci ancorché sincopati, la tromba di Paolo non vuol prevaricare ma seguire il borbottare del contrabbasso di Dalla Porta, l’altro Paolino, poi il ritmo sale e il flicorno torna a dettare il tempo, con toni precisi e variazioni che sembrano circolare all’infinito, con una nota che pare non voglia finire mai, che ti entra dritta tra il cuore e lo sterno: duetta con la chitarra che rimanda al mittente la provocazione, sono duellanti in un “O.K. Corral” musicale che anche le luci stroboscopiche contribuiscono a configurare, colorando a tratti i visi dei due con tinte di rosso e di blu, con Fresu che va a ricercare i suoni piegato sul palco, e ne trova di nuovi…”. Insomma questa musica parla e suscita emozioni all’infinito, che sia sgorgata primariamente dalla sofferenza dei neri americani per una storia pregressa di schiavitù mai veramente finita e sia stata capace di perdere queste stigmate per farsi universale, ne decreta la capacità di farsi alfabeto dell’umano, del sapiens che siamo. Delle speranze che che genera, attraverso la rivisitazione delle vicissitudini, divisioni, massacri, schiavitù, che la tribù umana si riconosca per quella che è: una tribù fatta di uguali. Anche se alcuni sanno suonare meglio degli altri, altri raccontare, altri costruire grattacieli. “Sensazione pazzesca a veder questo pubblico”, dice Paolo accomiatandosi e cedendo alla richiesta di un “bis”, una canzone molto semplice, silenziosa. Dal titolo emblematico: un altro pensiero sulle cose in questo momento storico che stiamo passando: “E se domani”, Mina. E se domani anche per voi…”.