Francesco Ciusa
di LUCIA BECCHERE
“Non ho conosciuto mio nonno perché sono nato qualche anno dopo la sua morte avvenuta nel 1949, però ho sempre avvertito questa importante presenza in casa perché casa mia era una sorta di museo che custodiva le grandi sculture oggi esposte al museo di Nuoro. Sono cresciuto col mito di questo nonno dai discorsi di mio padre Nino (Giovanni), lo raccontava come un padre tenero dal sorriso bellissimo che insegnava ai figli ad ammirare un fiore, ad apprezzarne il profumo, la bellezza e ad emozionarsi di fronte ad un tramonto. Era un artista a tutto tondo. Pochi sanno che mio nonno era amante della musica, in viaggio di nozze era andato a trovare Puccini a Torre del Lago. Aveva una bellissima voce da tenore e quando era di buon umore, nel suo studio lo si sentiva cantare la bohème, ma quando creava si chiudeva dentro e gli portavano i pasti come i carcerati”. Così Pietro nipote dello scultore nuorese, durante il convegno alla Satta sulla figura del grande artista nuorese, che ha avuto luogo il 20 giugno scorso.
Pietro, che è anche presidente della Fondazione Francesco Ciusa (1883-1949), ha raccontato che suo padre aveva due sogni da realizzare: creare un museo e dare vita a una fondazione. Il museo è chiuso da diverso tempo, si spera in una imminente riapertura e la fondazione è stata costituita da qualche anno con lo scopo principale di valorizzare l’opera dell’artista in Italia e all’estero, ma anche di istituire una borsa di studio per giovani meritevoli e realizzare tanti altri progetti.
Nel 1907 dopo il successo alla biennale di Venezia, il giovane Francesco non aveva ancora compiuti 24 anni, era un bellissimo ragazzo dall’aspetto bohémien quando un grande mecenate americano che aveva una industria di marmi a New York, gli propose di lavorare per lui in qualità di direttore dello stabilimento, offrendogli 25 mila dollari al mese di compenso. Ciusa è stato sempre legato a Nuoro, un cordone ombelicale che gli ha un po’ tarpato le ali e dopo aver chiesto il parere all’amico Salvatore Satta che era solito affermare “chi è debole scappa, chi è forte resta”, aveva rifiutato. Aveva deciso di sposarsi e dal matrimonio nacquero 7 figli, il piccolo Giangiacomo morì di favismo lasciando il padre nella disperazione più assoluta.
“Nel 1900 il Comune di Nuoro – ha ricordato il giornalista e direttore della Fondazione Antonio Rojch coordinatore della serata -, sindaco don Pietro Satta, membri del consiglio Antonio Ballero, Giacinto Satta, Giuseppe Pinna padre di Gonario, con l’elargizione di una borsa di studi di 300 lire aveva finanziato i suoi studi all’Accademia di Firenze dove ebbe come maestri De Carolis, Trentacoste e Fattori. Oggi, la fondazione intende ricostruire la sua opera e la sua vicenda umana”.
“Il primato di Ciusa – ha sostenuto Giorgio Pellegrini storico dell’arte dell’Università di Cagliari – consiste nell’essere stato l’unico artista capace di sintonizzarsi con quel magnetismo che ha caratterizzato l’avvento del nuovo nel novecento e di averlo fatto da sardo”. Lo studioso ha focalizzato il suo intervento sulla prima e ultima opera di Ciusa, La madre dell’ucciso e Il falconiere, alfa e omega della sua produzione. Come tutti i giovani artisti del tempo ha sentito la pressione del nuovo che veniva dall’area tecnologica che sfidava l’arte, ma tuttavia è riuscito ad entrare in sintonia grazie al suo contributo di italiano, ma soprattutto di sardo nell’individuare, così come tanti giovani europei del primo novecento, il primitivo come strumento di difesa e di offesa contro la prepotenza tecnologica. “Bisognava agire non solo sul colore come gli impressionisti – ha proseguito Pellegrini – ma anche sulla forma preclassica troppo pesante e i giovani artisti hanno scelto ambiti primitivi come l’arte africana, l’arte egizia, la forma cubica primitiva, forme che forse Ciusa aveva avuto modo di vedere nel museo egizio di Firenze, subendone una certa e quale suggestione. Ma il nostro giovane artista – ha proseguito Pellegrino – in quanto sardo non ha avuto bisogno di certe suggestioni primitiviste perché in quel primitivismo riconosceva forme familiari per avere intorno a lui un universo primitivo che lo circondava. Ecco perché è stato il primo italiano che è riuscito a sintonizzarsi e ad allinearsi in maniera così perfetta in un contesto internazionale in quel 1907 così importante e soprattutto perché sardo oltre che italiano venne premiato alla biennale di Venezia.
Ma Ciusa che è un giovane leone dell’avanguardia come Picasso, nella biennale di Venezia, con La Madre dell’ucciso in modo speciale, è un pioniere e tutti i barbaricini illustri seguiranno quella strada. E questa è l’alfa”. Poi Pellegrini ha continuato a spiegare come dopo la fine degli orrori tecnologici della grande guerra che aveva macinato milioni di vite umane e spaventato tutti, per gli artisti dell’avanguardia ci sia stato il ritorno all’ordine, Ciusa compreso. Per questo motivo si può parlare di un Ciusa classicheggiante molto lontano dal primitivismo. E per Pellegrini l’omega è Il falconiere (1948), l’ultima opera di Ciusa. La piccola scultura in legno custodita nei caveaux dei musei civici di Cagliari è un altro momento aurorale, opera totalmente proiettata al futuro, dove l’artista rievoca esperienze adolescenziali di quando andava al monte a cacciare falchetti con gli amici. Non sempre riusciva nell’impresa, tuttavia restava il sogno di poter spiccare il volo col falchetto, oltre il monte, oltre quei graniti. Quel volo lui lo aveva realizzato grazie al Comune di Nuoro, altri no.
“Questo è il messaggio che lascia prima di morire – ha concluso Pellegrini – questa è la grandezza di un artista che nell’alfa e nell’omega della sua arte riesce a calarsi completamente nello spirito primitivo, ma anche nel sogno del futuro di questa isola”.
La storica dell’arte Pamela Ladogana, intervenuta in videoconferenza, ha parlato delle opere realizzate da Ciusa negli anni 20, opere che riescono a farci cogliere “esiti di significativa modernità e che sono la testimonianza di interesse, da un lato verso la tradizione rinascimentale italiana e quindi verso il classicismo e dall’altra verso formule che recuperano un certo sintetismo d’avanguardia”, mettendo in evidenza come in lui si combinano molto bene queste due componenti.
Del bassorilievo intitolato “Il fuoco”, ha discusso Carlo Maccioni dottorando in ricerca di storia dell’arte all’università di Cagliari. Opera dispersa e pressoché sconosciuta, ma molto importante per l’evoluzione umana di Ciusa. Trattasi di un bassorilievo la cui immagine è riportata in una rivista del 1924, murato nel caminetto della casa di Sebastiano Satta ritratto accanto all’opera dello scultore e quindi può essere datata presumibilmente intorno 1907. Maccioni, partendo dall’analisi dell’opera, ha messo in evidenza un certo simbolismo di Ciusa, il fuoco e il focolare della casa, ma anche il verismo dell’artista nel rappresentare due uomini che si riscaldano, negli abiti che indossano e nella simmetria dell’immagine. Per il giovane studioso, il significato della scena che è all’interno del simbolismo tipico di Ciusa è la rappresentazione visiva del rapporto fra i due grandi dell’Atene Sarda. Ad avvalorare l’ipotesi che questa scultura rappresenti il sostegno e il nutrimento reciproco, le tantissime opere di Ciusa ispirate da Satta e i versi che il vate ha dedicato all’artista. La figura a sinistra quasi si protende sul fuoco per potersi riscaldare, l’altra lo alimenta con tutto il suo spirito e la sua forza.