Katia Corda
di ILARIA MUGGIANU SCANO
La Sardegna è terra di contraddizioni. L’isola è sorprendentemente capace di garantire pari ospitalità a un popolo che celebra i trent’anni di Sa die de Sa Sardigna – istituita dal Consiglio Regionale della Sardegna con la legge regionale 14 settembre 1993, n. 44, chiamata anche Giornata del popolo sardo in quanto memoriale della sommossa del popolo sardo che sancì la cacciata del vicerè Vincenzo Balbiano e i funzionari sabaudi, esattamente il 28 aprile 1794 – tenere al contempo chiuse le Scuole di ogni ordine e grado, dove avrebbe senso perpetuare, attraverso la didattica, il ricordo e lo studio di uno dei momenti più salienti della storia patria, nel rischio tangibile che gli studenti non ricordino neppure il motivo del giorno di vacanza. Ma l’ironia che rasenta il sarcasmo della sorte è la quintessenza della militarizzazione dell’isola, che nell’ambito Noble Jump 2023 della NATO occupa, in queste ore, con esercitazioni e operazioni logistiche varie, i poligoni di Capo Teulada e di Quirra, la base aerea di Decimomannu e il sito di Alghero. Territori di ineffabile valore paesaggistico che saranno terreno di simulazioni belliche fino a metà maggio. Ma non tutti sono capaci di sopire per tutta l’esistenza il pesante vulnus di identità e storia patria, lo svilimento della Sardegna storica, mai studiata sui libri scolastici, e a quella che si vorrebbe. È il mondo dell’arte, spesso, a difendere le radici, ed è importante che oggi a farlo sia una donna. Katia Corda, come una moderna Paska Zau, l’iconica rivoluzionaria barbaricina, protagonista dei moti de Su Connottu, urla dal retro della cinepresa. Attrice e neo regista è una delle voci che non accetta più l’immagine di una Sardegna afona, vittima di stereotipi duri a morire. Lo fa attraverso la sua opera prima Fragheterra.
Per Katia Corda un posto di diritto nella mitologia metropolitana è più che dovuto. La fascinosa sorrese che in tanti definiscono la “Ferilli di terra sarda” è un prezioso distillato di resilienza e fine ironia. Superstite dalla tragica notte di sangue e morte nelle acque dell’Isola del Giglio, in seguito allo schianto della Costa Concordia, Katia non ha lesinato forza di carattere anche nell’esilarante memoire, racconto tragicomico dell’evento. Katia oggi è un’attrice affermata di cinema e teatro ed è nota per aver superato ogni provino in cui si sia misurata. Dalle pubblicità su Sky alle serie televisive. Katia non si è negata altri primati, come quello di aver interpretato la prima fiction sarda, in lingua italiana Orlando e Carlotta, replicata per due volte su Sardegna Uno, ideata da Alberto Cocco per la regia di Amerigo Neri, nella buona compagnia di Maurizio Pulina, Alessia Simoncelli, Emilio Puggioni, Isabel Sardu. È poi la volta di Side Effect – Effetto Collaterale, diretto da Antonio Meloni e sceneggiato da Angelica La Sala, film presentato in anteprima al teatro Nanni Loy di Cagliari. In autunno sarà sul grande schermo con un piccolo ruolo nel film di Antonio Rojch Il Criminologo, opera ispirata alla vera storia dell’avvocato antifascista di Nuoro, Gonario Pinna, amico di Grazia Deledda, interpretata nel film da un’intensa Barbara De Rossi. Tra un set e l’altro si divide tra l’isola e lo stivale per non trascurare lo studio indefesso con i maestri di riferimento, da Carlo Verdone a Pupi Avati, da Giovanni Veronesi a Edoardo Leo, Andrea Roncato. Ma oggi i tempi sono maturi per approfondire il rapporto con il grande schermo. Da interprete a regista con il film Fragheterra – Profumo di terra, un’opera impegnata a decostruire ogni stereotipo ispirato all’isola, con il principio dell’omeopatia: passare da stereotipo ad archetipo universale sfruttando lo stereotipo stesso. Per la regista un patto di lealtà con la Sardegna. Il mediometraggio nasce dall’idea di Franco Mascia, l’artista autore dei murales di Tortolì, sceneggiata e diretta da Katia. Nel film spiccano le interpretazioni di attori di razza quali Valentina Sulas e Carmelo Bacchetta. Il termine delle riprese è coinciso con l’inizio della pandemia, la distribuzione si è arenata fino a pochi mesi fa, ma l’attesa è stata assolutamente ricompensata. L’opera, infatti, ha fatto già incetta di ragguardevoli riconoscimenti, al Festival Internazionale di Napoli, come Miglior Film e Miglior Regia Femminile.
Ma riavvolgiamo il nastro e cerchiamo di capire chi è la vera Katia Corda, Katiapillar, come viene chiamata in ambiente cinematografico, la donna dai mille successi.
Come la ha segnata umanamente la tragedia del naufragio?
Dopo un’esperienza in cui guardi in faccia la morte impari presto a ricalibrare le tue priorità. La pubblicazione del libro “E chi se li sCorda?” mi ha aiutato a prendere le distanze attraverso un tratto distintivo del mio carattere: l’ironia.
Da Marzullo ha stregato i maggiori critici cinematografici ma anche il pubblico concorda nel definire “Bandidos e balentes. Il codice non scritto” come un piccolo capolavoro della settima arte. Lei è stata la pluripremiata protagonista femminile, tra gli altri riconoscimenti il prestigioso premio come Miglior Attrice Protagonista al Naples Gulf Flm Festival. Chi era il suo personaggio?
Interpreto la vicenda umana di Angheledda, che schermata dal suo fazzoletto come da un’armatura riesce a tessere silenziosamente relazioni in una Barbagia che si trasforma. Tratteggia l’universo femminile nei suoi simbolismi materni e sororali nelle sue dannazioni e contraddizioni.
In questo lungo valtzer di “cambi di maschera” cosa cerca Katia Corda?
Innanzitutto cercherò di non diventare schizofrenica cambiando pelle a questo ritmo! Scherzi a parte, per me la recitazione è una dimensione umana necessaria ad esprimere me stessa, a comunicare con gli altri, portargli a ridere, piangere, riflettere, senza risparmiarmi. Credo veramente sia una vocazione di vita. Ho desiderato fortemente immergermi in ogni forma di quest’arte, anche attraverso il teatro. Oggi recito nella compagnia Nuova Scena, di Giuseppe Curreli, sto preparando uno spettacolo al quale sono profondamente legata, su Grazia Deledda Grazia del vento, ma non posso anticipare altro! Debutteremo a novembre al teatro Maria Carta di Elmas, la città in cui vivo, e al Teatro del segno.
Oggi dall’altra parte del ciak. Qual è stato il movente principale?
Durante la collaborazione con Pupi Avati, con il quale ho girato un cortometraggio, mi è scattata una scintilla, un interesse profondo per il “dietro le quinte”, il dietro la camera, più esattamente. Lui è stato come un papà, un regista profondamente paziente anche se molto esigente. La parola d’ordine era “rispetto”, tra noi attori, tra noi e la troupe, rispetto per la puntualità e ogni minimo dettaglio. Quest’universo mi ha innamorato, ho deciso quindi di studiarlo e cercarne un’applicazione con quest’ultimo lavoro. Ci sono davvero poche registe in Sardegna, soprattutto cinematografiche, e amo l’idea di far capire che a una donna non è precluso un mestiere tanto complesso quando la storia da narrare è potente, nonostante l’ambiente sia prettamente maschile, con le sue logiche e grammatiche. Ciò che ho trovato più complesso è stato, piuttosto, il doppio ruolo di regista e interprete. Certi percorsi poi sono incoraggiati dal destino: per Fragheterra si è reso necessario decidere presto chi avrebbe dovuto condurre i lavori. L’ho preso come un segno.
Oltre i riconoscimenti, cosa ti porti dietro da questa esperienza?
Sicuramente la prosecuzione del sodalizio artistico con Franco Mascia, un ideatore di incanti, di mondi commoventi, suggestivi, esilaranti. L’ho conosciuto su alcuni set pubblicitari per Sky, successivamente abbiamo collaborato per Neanche per finta, lo spot della Regione Sardegna per la lotta alla violenza sulla donna, arrivata sugli schermi di milioni e milioni di spettatori. L’opera, reperibile sulla piattaforma YouTube, è stata ideata da Franco e diretta da Massimo Sulis, regista di Videolina e Tele Costa Smeralda. Quando Franco sente una storia come necessità, come urgente da raccontare, è lì che emergono le esperienze più toccanti, le storie più significative.
Ci sono stati degli ostacoli che ti hanno fatto tentennare davanti a questo epocale viraggio artistico in direzione della regia?
Il più concreto è stato certamente confrontarsi con la concretezza del budget. La mia premura è stata quella di non partire con le riprese finché non avessi avuto la totale certezza di poter far fronte all’onorario per la troupe e gli interpreti. Dopo appena due giorni avevamo gran parte del budget, ma non solo, numerose aziende ogliastrine ci sono venute incontro, non solo economicamente, ma anche in termini di servizi, come l’Ovile Bertarelli. Lo stesso è accaduto ad Arzana, Elini, Arbatax. Abbiamo avuto a disposizione il Trenino Verde, grazie all’ARST. Impagabile il Cigno bianco di Tortolì che ci ha permesso di pernottare nel camping per tutto il periodo delle riprese. Un segnale meraviglioso del rispetto dell’Ogliastra per il nostro lavoro artistico. Ostacoli concreti sono emersi anche a causa della pandemia: ho dovuto realizzare tutto il montaggio a mano, perché con il lockdown totale non potevo muovermi da un’abitazione all’altra. Durante quelle notti interminabili ho scelto le scene, le musiche realizzate da Alessandro Sperandio a titolo gratuito, la sigla finale, scritta, musicata e interpretata da Simona Mascia. Ho poi consegnato tutto il materiale al montatore Massimo Sulis. Ecco senza il periodo surreale della pandemia ogni cosa sarebbe stata più semplice.
Quale aspetto del lavoro ti ha fatto sentire veramente tuo il ruolo di regista? Uno sopra gli altri è stato il desiderio di proporre un’immagine contemporanea della Sardegna. Mi sono imposta e ho preteso in fase di sceneggiatura di espungere ogni elemento che richiamasse un’aura caricaturale e grottesca dell’isola. Noi non facciamo vedere né pecore né gambali, bandita ogni narrazione trionfalistica di fucili e sequestri o abigeato. Eliminata ogni operazione di archeologica nostalgia: la Sardegna non è solo quella del “come eravamo”, è quella in cui chi sceglie di essere un allevatore non è chiuso alla sensibilità culturale più profonda. La sfida più interessante è il desiderio di alfabetizzare lo spettatore non sardo a una nuova percezione della nostra terra. Il filo conduttore narrativo è stata la lotta al pregiudizio, che chiaramente non riguarda esclusivamente il popolo sardo. Il film è stato capito, fino adesso sta dando ottime risposte di pubblico, se si pensa che dopo ogni ripresa ci tratteniamo per quasi due ore a dialogare con gli spettatori, per rispondere a curiosità e goderci il contatto con le persone.
Sii generosa, svelaci qualcosa del tuo personaggio al limite dello spoiler?
Ciò che mi piace che passasse è l’enorme bagaglio culturale che passa attraverso un’attenta trattazione della tematica tradizionale. Siamo stati attenti a trasmettere il messaggio della genuinità della vita sull’isola, dell’elevata qualità della vita curando la scelta dei riferimenti sia paesaggistici che enogastronomici e una cura particolare all’uso della lingua, naturalmente. Per quel che riguarda il mio personaggio, be’ non potevo che interpretare una donna sarda verace, Assunta, fiera e orgogliosa ma al contempo materna e sempre sorridente. È sposata con Bobore con il quale comunica soprattutto attraverso sguardi di complicità che vanno oltre le parole. Ma l’ironia e le mille sfumature di Assunta emergeranno a contatto con Marco, un giovane a cui la donna darà ospitalità.