di SERGIO PORTAS
I bambini prima di tutto, Annamaria Moschetti che è pediatra a Taranto da più di 30 anni e che ha toccato con mano quali patologie abbia causato la maledetta acciaieria che sapete, si è spinta a dire che: “La vita di un solo bambino vale quanto l’acciaio di tutto il mondo” (L’extraTerrestre del “Manifesto” dell’8 dicembre), una bestemmia bella e buona per il periodo di turbocapitalismo che stiamo vivendo, il grido di una folle che urla nel deserto. Sennonché mille e mille sono gli echi che le rimbalzano da ogni dove, e migliaia le iniziative di persone che si associano per portare avanti iniziative che parimenti l’abbiano a parola d’ordine: i bambini prima di tutto. Siamo in periodo di avvento, e secondo la narrazione di una storia che è assurta a fondamento di una civiltà che si regge da un duemila anni a questa parte, è della nascita di un bimbo che stiamo attendendo si riproponga la magia. Bimbo alquanto particolare che, a sentire profeti finiti in libri sapienziali, avrebbe con la sua venuta fatto in modo che: “…il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto…” ( Isaia,cap.11). E anche quei giudei che sino allora avevano a legge l’”occhio per occhio, dente per dente”, il dovere della vendetta, furono affascinati da una predicazione che a schiaffo subito sosteneva fosse meglio offrire l’altra guancia. A sentire Luca: “ In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra…Anche Giuseppe che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta…diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo”. In altri testi (vedi Matteo) è tutto un susseguirsi di Angeli e pastori, di comete che indicano a Magi orientali la strada da seguire per portare all’infante oro e mirra e profumi d’incenso, di re Erodi timorosi di perdere il trono che fanno scannare tutti bimbi di Betlemme di meno due anni d’età, di fughe in Egitto a dorso di asini pazienti. Una storia che a raccontarla sulla soglia di un caminetto acceso, i tronchi che mandano faville consumandosi ruggendo, ha sempre fatto spalancare la bocca di sorpresa ai bimbi di mezzo mondo, specie in tempi in cui era la Luna a illuminare i vicoli dei paesi, e a tetto un cielo di stelle. E sono ancora oggi luna e stelle la luce rischiarante le notti di di mille campi profughi riscaldati a legna e sparsi un po’ dappertutto in questo nostro mondo, i dati dell’Unicef (Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia) sono lì a testimoniarlo, i numeri di bimbi coinvolti sono dell’ordine di milioni. I numeri della mortalità infantile altrettanto scandalosi. Quelli del centro sociale sardo di Milano il 29 di novembre mandano inviti per la mostra: “La nostra Eritrea”, promossa dall’associazione “Annulliamo la distanza” ( “I bambini prima di tutto” è il motto dell’associazione), in un posto di prestigio, una ex fornace riattata a biblioteca, Alzaia del Naviglio Pavese. Ci sono foto alle pareti, la presentazione di un libro che ne sceglie 140 delle mille e mille che in 23 anni di attività hanno scattato i volontari. Che, da pazzi illuminati quali sono, gestiscono un asilo in Cambogia, un orfanotrofio in Kenia, progetti che riguardano i bimbi anche in Albania, Nepal e Congo (www.annulliamoladistanza.org). In Eritrea loro è l’unico ospedale pediatrico di tutto il paese. Non è ancora completamente operativo ma ogni anno ne accoglie oltre 30.000, di piccoli pazienti. Vorrebbero aggiungere due piani all’edificio principale, potabilizzare l’acqua dell’intero complesso, attrezzare l’area esterna a parco giochi ( ne gestiscono anche un altro ortopedico). Ogni donazione di qualunque entità sia è naturalmente benvenuta. Di parco giochi e di quanto faccia bene ai bimbi malati giocare in ospedale sono esperto. Mi sono fatto le ossa in oramai vent’anni di volontariato al neuropsichiatrico infantile del”Besta” di Milano, arruolato e formato in ABIO (Associazione per il bambino in ospedale) ogni giovedì mattina che dio ci manda sono in reparto ( con altri volontari, quasi tutte donne, quindi con altre volontarie) ad aiutare i bimbi nel giocare, cosa che loro sanno fare benissimo anche da soli, ma se c’è qualcuno che dà loro una mano con carte, pennarelli, dama, scacchi ( per ora sono imbattuto, vero che i miei avversari sfiorano i dieci anni di età), tombola degli animali, puzzle di ogni dimensione, palla e pallone ( le infermiere me ne hanno sequestrati almeno sette, che il reparto a parer loro non è un campo da calcio) sono così gentili da farti entrare nelle loro fantasticherie. E le mamme possono andarsene a prendere un caffè. Se c’è un piccolo paziente che rientra nello “spettro autistico” occorre che un volontario lo segua come fosse la sua ombra, che il più delle volte non hanno il senso del pericolo e sanno arrampicarsi per ogni dove più dei gatti selvatici. Il “Besta” è un’eccellenza, arrivano bimbi da tutta Italia, Sardegna compresa. Inutile sottolineare che quando in famiglia ti capita un caso del genere è tutta l’istituzione che si ammala, tutti i rapporti intrafamiliari vengono terremotati, ne risentono anche fratelli e padri. Che debbono cavarsela da soli quando il bimbo ammalato è all’ospedale con mamma. Non parliamo dei disagi di chi viene da fuori Milano, di chi viene da altre regioni, di chi viene dalla Sardegna, e deve tornare in aereo quando vieni dimesso e non può certo prenotare per tempo. In tempo di covid l’ospedale si è arroccato, il servizio è stato sospeso per quasi due anni. Sia ben chiaro che in “tanta generosità”, chi ci guadagna veramente in termini di autostima, di socialità, di bene che se ne ricava, è il volontario/ia di turno. Che i bimbi, lo sapete bene, sono generosissimi di sé e a una carezza rispondono con cento, un sorriso rispondono con trilli di risate che li sentono anche in infermeria. Persino un gol segnato a una porta formata da due sedie fa urlare di gioia, ed è qui purtroppo che arrivano le infermiere requisitrici di palloni, hai voglia a dire alle improvvisate squadre in pigiama che bisogna esultare sottovoce, è una contraddizione in termini, ogni gol segnato è senza sapore se non è anche urlato: goool!! Tocca essere prudenti nell’esagerare, suscita riso anche cadere dalla sedia all’indietro quando si perde a carte, maledicendo ad alta voce la cattiva fortuna della giornata. Insomma sono dell’avviso che far ridere (i bimbi) aiuta nel processo di guarigione, del resto ci sono degli studi serissimi in proposito. E non è un caso che Abio sia presente in molti ospedali italiani, ora anche in Sardegna. In periodo di covid conclamato e costretto a non più andare all’ospedale, come un alcolista in cerca dell’ultima bottiglia di vermentino, con le botteghe tutte chiuse, mi sono imbattuto, in internet, su di una associazione di promozione sociale milanese, operante nel quartiere di san Siro: leggo dal loro sito: La cura e il sostegno dei contesti di fragilità sociale ( bambini, donne italiane e straniere, persone con disabilità, richiedenti asilo, famiglie) rappresentano le nostre priorità…Ispiratrice della nostra filosofia è l’artista sarda Maria Lai, con il concetto universale della vita, dei luoghi e delle relazioni che vengono intessuti e intrecciati, come i fili di un telaio che si incontrano e si intrecciano creando una trama colorata. Si chiamano “Il telaio delle arti” , basta cliccare per trovarli in rete. Per farla breve, dopo essermi spacciato per il “più grande conoscitore di bimbi sulla piazza milanese”, mi hanno accettato per un loro doposcuola, due pomeriggi alla settimana, per bimbi delle elementari e medie, residenti nel quartiere, quasi tutti italiani di seconda generazione con famiglie che provengono per lo più dall’Egitto, ma anche dalla Tunisia e dal Marocco. Sono (quasi) tutti perfettamente bilingui, parlano in arabo come i pescivendoli di Forcella il napoletano, lo imparano studiando a memoria il sacro Corano. Confesso che mi si è aperto dinanzi un altro mondo: quello del “nuovo islam italiano”, bambini nati a Milano che tifano Inter e Milan ma anche Liverpool, perché ci gioca Salah che, per chi non fosse del giro, è uno che l’anno scorso è stato capocannoniere della Premier League, egiziano capitano della nazionale del suo paese. Alcune delle bimbe delle medie arrivano con il velo, una di esse mi confida che il padre era assolutamente contrario a questa sua decisione ma, pare che nell’islam-italiano, le donne possano scegliere autonomamente come agire (consiglio a tal proposito: Renata Pepicelli: “Il velo nell’islam”, Carocci editore). A un’altra che per ora è a capo scoperto a cui chiedo se la incontrerò un domani velata in piazza Duomo, mi risponde che solo Allah sa cosa avverrà di noi in futuro. Molti di loro l’anno scorso hanno “fatto il Ramadan” con la serietà che i bimbi usano in queste circostanze: “Se è scritto che non si può bere niente durante il giorno, non si beve neanche un bicchiere d’acqua”! Non parliamo poi di peccare con qualche fetta di salame o prosciutto, è haram: vietato. Ho provato a ribattere che gli italiani hanno una concezione del “vietato” alquanto lasca. Ma loro, mi dicono, non sono italiani, sono…un po’ come i sardi (Cagliari, nel mappamondo è molto più vicina alla costa africana che a Milano), che a sentire il sondaggio che l’università di Cagliari e di Edimburgo fecero qualche anno fa, per quasi il 40% si sentono più sardi che italiani (il 31% tanto l’uno che l’altro, il 27% solo sardo). Anche qui, come in Abio, quasi tutte sono le volontarie a reggere ogni iniziativa, i maschi non pervenuti, io, more solito, penso che i compiti da fare siano solo un mezzo che serve a comunicare con gli altri, e che importante sia stare bene, divertirsi insieme, scherzare e giocare, ridere delle cose e delle disgrazie della vita ( il Cagliari in serie B). Parafrasando il Salvatore Cambosu di “Miele amaro”: “Appo intesu sono ‘e telarzu, e sa bidda no pariat più morta” ( Ho sentito un batter di telaio, e il paese non sembrava più morto), che l’associazione ha posto in esergo della sua storia in internet, mi piace si possa dire: “Ho sentito un ridere di bimbi, al “Telaio delle arti” ci deve essere doposcuola”.