di FRANCESCA BIANCHI
Il prof. Giovanni Antonio Farris, già docente di Microbiologia Agroalimentare e Presidente del Corso di Laurea di Tecnologie Alimentari all´Università degli Studi di Sassari, nonché attuale Presidente dell’Accademia Sarda del Lievito Madre, per l’editore Carlo Delfino ha curato i libri La Madre del Pane. Il lievito madre nella produzione dei pani tradizionali della Sardegna (insieme a Manuela Sanna, nel 2017) e Pani tipici della tradizione algherese (2021). Quest’ultimo lavoro accoglie i contributi dello storico Antonio Budruni, dell’agronomo Laore Antonio Demelas, del giornalista Giovanni Fancello, dell’agronomo ed esperto di analisi sensoriale Giuseppe Izza, dell’artista dei pani cerimoniali Anna Maria Lauro, del Direttore del Parco Regionale di Porto Conte Mariano Mariani, del panificatore Antonio Masia, della biologa nutrizionista Domenica Anna Obinu e della microbiologa alimentare Manuela Sanna. Nel corso della nostra bella e coinvolgente conversazione il prof. Farris ha ripercorso la storia del pane, soffermandosi sull’importanza da sempre attribuita al pane in Sardegna, terra che possiede il più alto numero di pani tipici, sia quotidiani che cerimoniali. In Sardegna la panificazione era quasi un rituale sacro, scandito da formule e preghiere, da sempre condotto e custodito dalle donne più anziane e sagge. Lo studioso ha spiegato la procedura della fermentazione del pane con l’impiego del lievito madre, facendo luce sui benefici nutrizionali e salutistici di questo tipo di fermentazione. Ha affermato che riproporre oggi l’uso di quello che in sardo viene chiamato su frammentarzu o frammentu è la missione scientifica e sociale dell’Accademia Sarda del Lievito Madre, una realtà composta da diverse figure professionali (panificatori, produttori di dolci, ricercatori, tecnici, giornalisti, editori e altri), che a diverso titolo si occupano dello studio e della diffusione della cultura della panificazione tradizionale con il lievito madre. Per diffondere questa tradizione nel mondo della ristorazione l’Accademia ha ideato laCarta dei Pani, nata sulla falsariga della Carta dei Vini, uno strumento di consapevolezza. Nelle parole di questo instancabile ambasciatore della panificazione tradizionale c’è la ferma convinzione che il crescente interesse, in Sardegna, per il recupero e il consumo dei pani tipici della tradizione, fatti di grano duro, costituisce un importante segnale di ripresa del comparto cerealicolo regionale. Tutto ciò potrebbe contribuire a rilanciare l’economia sarda.
Prof. Farris, lei oggi presiede l’Accademia Sarda del Lievito Madre. Quando ha iniziato ad interessarsi al pane e alla fermentazione con lievito madre? Come si spiegano le differenze tra lievito madre e lievito di birra? Prima del 1996 non mi ero mai occupato del pane; nessuno fino ad allora si era mai occupato della fermentazione, visto che ormai il lievito di birra era entrato nell’uso comune. Ho iniziato a collaborare con medici nutrizionisti, fisiologi, biologi. Ci siamo accorti che le differenze tra lievito madre e lievito di birra erano enormi sia a livello nutrizionale che salutistico. Abbiamo fatto prove sulla celiachia, sull’indice glicemico, sulla digeribilità. Con il lievito di birra (che è costituito da una solo specie microbica: il Saccharomyces cerevisiae) le grosse molecole presenti nella farina rimangono praticamente tali e quali, mentre con il lievito madre tutto diventa più facilmente assimilabile. Per esempio, l’amido è una grossa molecola che difficilmente riusciamo a digerire. Con il lievito madre esso, dopo 12-24 ore, diventa quasi una fibra nobile. Parlare dei risultati che abbiamo ottenuto nel corso di questi anni per me è diventato un impegno scientifico e sociale.
Per anni lei ha custodito in casa una “collezione” di lieviti madre, che oggi è conservata presso l’Università di Sassari. Dove li ha recuperati? Per anni ho custodito nel frigorifero di casa i lieviti madre che riuscivo a reperire (insieme ad altri amici e colleghi) in giro per la Sardegna. Erano davvero tanti, così un giorno ho deciso di metterli a disposizione della Collezione Microbica dell’Università di Sassari, sotto la responsabilità della prof.ssa Marilena Budroni. Noi dell’Accademia andiamo alla ricerca degli impasti più antichi, alcuni dei quali hanno un percorso ultracentenario. L’anno scorso, nella sezione di Microbiologia del Dipartimento dell’Università di Sassari, abbiamo istituito una collezione di lieviti madre della Sardegna, all’interno della quale vengono conservati campioni provenienti da tutta l’isola e tramandati di madre in figlia. Di ogni lievito conosciamo la storia. In diverse zone della Sardegna molte famiglie stanno riprendendo con fatica a panificare secondo la tradizione, ognuna con il suo lievito madre.
Cosa significa raccontare la storia del pane? Di ogni lievito recuperato noi conosciamo la storia. Penso che il pane debba essere raccontato e per raccontarlo dobbiamo conoscere chi coltiva il grano, chi lo macina, chi vende lo sfarinato e chi lo trasforma in pane. Se sappiamo tutte queste cose, allora abbiamo a che fare con un pane che si può raccontare. Dobbiamo poter ricostruire il percorso che dal grano approda al pane, ripercorrendo i vari anelli della filiera. Per poter fare ciò è importante panificare con i grani nostri, innanzitutto con il grano duro.
Che differenza c’è tra i termini ‘farina’, ‘sfarinato’, ‘semola rimacinata’? Il prodotto della macinazione del grano tenero si chiama farina che, in relazione alla granulometria, ovvero alle dimensioni dei granuli, può essere di tipo 0, 00, 1 e 2. Nel grano duro il prodotto della macinazione si chiama semola: è certamente la parte più nobile della macinazione, i granuli sono a spigolo vivo e omogenei, non arrotondati come nella farina. Il semolato è uno sfarinato, che a livello di granuli, è molto più eterogeneo rispetto alla semola. Semola rimacinata, invece, quando alla semola si aggiunge una certa percentuale di farina sempre di grano duro.
Perché il pane di semola è più pregiato? In generale, si può dire che il pane ottenuto dalla semola è molto più sapido rispetto al pane ottenuto dalla farina di grano tenero. Inoltre il pane di grano duro ha una maggiore capacità di trattenere l’umidità, di conseguenza nel tempo rimane più serbevole. Se a questi fattori aggiungiamo il fatto che ai grani duri locali non viene eliminato il germe, la qualità del pane ottenuto dai nostri grani è certamente superiore. Il germe è la parte dell’embrione che normalmente, nei grani provenienti da oltreoceano, viene tolto perché contiene dei lipidi che, con la conservazione lunga, vanno incontro a irrancidimento, creando dei sapori non graditi. Con il germe, invece, la farina ha tutto un altro sapore, quindi il pane è molto più gustoso.
Qual è il vantaggio del grano locale rispetto ai grani provenienti dall’estero? Le farine estere, normalmente, non provengono da grani d’annata. Capita spesso che i grani vengano ammassati in attesa di prezzi migliori, quindi qui arrivano farine di grani che sono stati mietuti anche 3-4 anni prima. Trasportati nelle stive delle navi, i grani vanno incontro a surriscaldamento con conseguente sviluppo di muffe, per cui, per far fronte a ciò, si utilizzano degli anticrittogamici. Questi residui, poi, li ritroviamo nelle farine. Inoltre è facile la presenza di insetti, con l’inevitabile ulteriore utilizzo di insetticidi. La soluzione ideale è utilizzare sfarinati locali, non inquinati da pesticidi. Nel 2000 in Sardegna esistevano 90-100 mila ettari coltivati a grano duro, ora sono poco più di 20 mila. Come Accademia del Lievito Madre ci proponiamo anche di promuovere la coltivazione del grano duro.
Come è nato il libro Pani tipici della tradizione algherese, pubblicato lo scorso anno dall’editore Carlo Delfino? Tutto è nato dal desiderio di recuperare i pani tipici della Sardegna e riproporli. La Sardegna è la regione con il più alto numero di pani tipici, non solo da tavola, ma anche rituali: almeno l’80% dei pani rituali presenti in Italia si trova in Sardegna. Volevamo recuperare i pani tradizionali di ogni territorio, quindi ci siamo rivolti allo storico Antonio Budruni, che nel corso delle sue rigorose ricerche negli archivi ha trovato diversi riferimenti ai pani tradizionali di Alghero. Ho pensato di chiamare a raccolta i miei ex studenti e tanti amici panettieri. All’inizio avevamo pensato di circoscrivere il libro alla trattazione del pa punyat, letteralmente ‘pane fatto con i pugni’, recuperato dal panificatore Antonio Masia del Panificio Cherchi di Olmedo. Il pa punyat, che oggi è inserito nell’elenco dei PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali), è il più noto tra i pani tradizionali algheresi. Quando Antonio Masia mi disse che stava iniziando a fare anche gli altri pani della tradizione algherese, abbiamo pensato di estendere il libro alla trattazione di tutti i pani tradizionali di Alghero. Siamo riusciti a recuperare almeno otto pani da tavola che erano scomparsi del tutto. Siamo intenzionati a ripetere questa esperienza per altri territori.
Come avviene la fermentazione del lievito madre? Perché il lievito madre ha rappresentato e rappresenta la qualità di un pane, soprattutto di quelli tipici e tradizionali? Io sono nato a Ittiri, un paese tra Sassari e Alghero. Fino all’età di 18 anni ho mangiato il pane fatto in casa da mia madre, che panificava una volta alla settimana, il sabato. Il venerdì sera prendeva il lievito madre e lo scioglieva, ossia preparava la madre. In sardo esistono due momenti, il primo è quello della creazione, dal lievito madre (frammentarzu, frammentu in sardo, Llevat in algherese), della madre (in Sardegna assume diversi nomi in relazione all’area geografica: madrighe, matrica, madriga). Quando si deve panificare, si prende il lievito madre, lo si scioglie in un po’ d’acqua tiepida e si lascia riposare, in modo che i microrganismi assorbano l’acqua, poi aggiungiamo nuovo sfarinato in relazione alla quantità di pane che vogliamo ottenere. Questo che noi andiamo a costituire si chiama madre, madrighe in sardo, che viene utilizzata in percentuale dal 10 al 20% (in relazione, soprattutto, alla temperatura ambiente e alla velocità di fermentazione), rispetto alla massa che si desidera panificare. Nel lievito madre ci sono fondamentalmente due gruppi microbici: lieviti e fermenti lattici. I lieviti sono importanti per la fermentazione dell’impasto: utilizzano gli zuccheri semplici per trasformarli soprattutto in anidride carbonica (un gas che fa aumentare di volume l’impasto). Questo tipo di fermentazione deve avere necessariamente dei tempi lunghi, non meno di 5-7 ore. Mentre i lieviti fanno un lavoro “molto facile”, i batteri fanno un lavoro più complesso, in quanto devono degradare le proteine, attaccare l’amido e, se c’è il germe, anche i grassi. Ecco perché con il lievito madre la fermentazione non può essere di un’ora: se vogliamo avere effetti buoni dal punto di vista salutistico, deve fermentare almeno 7 ore. Il pane così ottenuto ha un impatto minore sui livelli di glicemia, anche nelle persone con ridotta tolleranza ai carboidrati. Secondo diversi studi, l’attività proteolitica dei batteri lattici può contribuire a ridurre l’intolleranza al glutine. Il lievito madre è fermentato senza l’aggiunta di microrganismi esterni, quindi la maturazione del lievito madre avviene attraverso diversi rinfreschi che contribuiscono a selezionare batteri lattici e lieviti che nessun altro agente lievitante possiede, conferendo al pane il caratteristico sapore acidulo e una maggiore serbevolezza e digeribilità, oltre a proprietà sensoriali, nutrizionali e salutistiche che non sono riscontrabili in altri prodotti ottenuti con agenti lievitanti diversi. Il pane fatto con lievito di birra, quando è caldo, è profumato (a causa della cottura), ma una volta che si raffredda perde il profumo; nel pane fatto con lievito madre, invece, i profumi derivano dalla demolizione delle molecole proteiche, lipidiche e anche dell’amido, in seguito all’azione metabolica, soprattutto, dei fermenti lattici.
Cosa significa riproporre oggi il lievito madre? La Sardegna deve ritornare a panificare come un tempo, usando il grano locale e il lievito madre: è un dovere etico, storico e culturale. Riproporre oggi l’uso del lievito madre è la nostra missione, è il motivo per cui è nata l’Accademia del Lievito Madre. In qualità di presidente dell’Accademia, non mi stancherò mai di divulgare l’uso del lievito madre, portando all’attenzione dell’opinione pubblica e dei consumatori tutti i benefici della fermentazione con lievito madre. Noi dell’Accademia siamo dei volontari: facciamo tutto gratuitamente, con convinzione e determinazione, e crediamo fortemente nel percorso che abbiamo intrapreso. Tornare a panificare con il lievito madre significa contribuire anche alla lotta allo spreco alimentare: un pane preparato nella maniera sopra descritta si può conservare senza problemi per una settimana. Vorrei, poi, lanciare una proposta di tipo sociale che rivoluzionerebbe tutto il comparto: se il pane fatto con il lievito madre è più buono a partire dal giorno dopo, che senso ha obbligare i panificatori a lavorare di notte? Una rivoluzione in tal senso ci aiuterebbe a trovare gli addetti ai lavori. Con il lievito di birra, invece, si è costretti a lavorare durante la notte.
Tornando al libro Pani tipici della tradizione algherese, nel suo contributo lo storico Antonio Budruni ha ripercorso la storia antichissima del pane. Quando è nato il primo pane di cereali di cui si abbia conoscenza? In Sardegna quando e come è arrivata la panificazione? È possibile che sia stata introdotta da popoli provenienti dal Medio Oriente? Il primo pane è nato circa 30 mila anni prima di Cristo, ma era fatto con sfarinato di radici di piante diverse dalle graminacee. Il primo pane di cereali di cui abbiamo conoscenza risale a 14 mila anni fa ed è stato trovato in Giordania, pane realizzato con i semi di cereali selvatici. In quel periodo l’agricoltura ancora non esisteva: è nata circa 10 mila anni fa e soltanto a quel punto è arrivato il pane fatto con i cereali coltivati. Gli egiziani hanno sperimentato la fermentazione del pane 4000 anni fa. La fermentazione dall’Egitto è passata in Grecia. Roma ha conquistato la Grecia, ma non conosceva la fermentazione del pane. Tra i Greci resi prigionieri dai Romani c’erano anche dei panificatori. Questi furono indotti dai Romani a panificare. A quel punto la panificazione è arrivata a Roma, che l’ha poi diffusa in tutto il mondo. Possiamo ipotizzare che la fermentazione sia arrivata in Sardegna direttamente dall’Egitto, oppure che sia stata introdotta nell’isola dai Romani, che l’avevano appresa dai Greci. I nuragici erano anche guerrieri e navigatori; potrebbero essere stati loro, nei numerosi viaggi nei paesi del Medio Oriente (e quindi anche in Egitto), a portare in Sardegna l’arte panaria e quindi anche l’uso del lievito madre, molti secoli prima della conquista della Sardegna da parte dei Romani.
Si è detto che la Sardegna ha un ricchissimo patrimonio di pani quotidiani e cerimoniali. A cosa è dovuta questa grande varietà? In che modo la comunità isolana ha interpretato la cultura del pane? Se andiamo a vedere tutte le varianti, dalla lavorazione all’abbellimento attraverso le decorazioni, ci rendiamo conto che le varianti sono migliaia. L’isolamento è stato fondamentale, ma bisogna considerare anche altri aspetti. Ci sono tanti lieviti madre, ognuno dei quali trasmette un gusto diverso, e di conseguenza conferisce al pane un sapore diverso. Quando si panificava a livello domestico, una determinata tipologia di pane era legata a quel paese e a volte addirittura a una specifica famiglia. Il pane rappresentava la cultura e l’identità di una comunità, raccontava la storia di quella comunità e del suo territorio. Bisogna tenere presente l’aspetto sociale: i pastori avevano i loro pani, così come i contadini e i pescatori, quindi si comprende bene come queste diverse varianti si siano, poi, moltiplicate. Il legame tra i pani e le varie tradizioni, in particolare quelle inerenti alla sfera religiosa, ha influito molto: la simbologia del pane va dal sacrificio, alla gioia, agli aspetti erotici e sessuali. In alcune realtà sarde c’era il pane dei morti: il giorno in cui un congiunto veniva a mancare, i parenti preparavano il pane e lo distribuivano alle persone che andavano a trovare il caro estinto. Mettendo insieme tutti questi aspetti, si comprende bene il motivo della presenza di così tante varietà di pani. Sono convinto ci siano anche in altre regioni, ma si sono perdute, mentre in Sardegna si sono conservate grazie all’isolamento e all’attaccamento alle tradizioni.
La panificazione in Sardegna era ed è attività tipicamente femminile. In molti paesi ancora oggi le donne, soprattutto quelle più anziane, preparano il pane in casa. La panificazione era una attività soltanto femminile, l’uomo si fermava alla produzione del grano: la pulitura del grano, la macinazione e, soprattutto, la panificazione erano compiti delle donne. Tutte le donne sapevano panificare e preparavano il pane a livello domestico, infatti, fino ad alcuni anni fa, in certi paesi andare a comprare il pane con lievito birra era quasi una vergogna. Ognuno aveva il suo lievito madre, ma quando ci si riuniva tra famiglie, spesso il lievito era lo stesso perché se lo passavano tra di loro: è tradizione che il lievito madre si regali, non si deve comprare.
Qual legame esisteva tra il pane e la sfera religiosa? Un legame fortissimo. Durante la preparazione del pane le persone ritenute impure non potevano partecipare. Come non parlare del rituale delle preghiere? Una decina d’anni fa decisi di approfondire il discorso del pane d’orzo, un pane nero, duro, povero, la cui tradizione si era quasi persa. Mi dissero che a Fonni c’era una signora novantenne che sapeva prepararlo bene, così decisi di andare da lei per assistere alla preparazione di questo pane. Prima di mettersi all’opera, questa donna mi chiese di recitare alcune preghiere: ad ogni passaggio c’era una preghiera diversa da recitare. Questo fa capire quanto fosse forte il legame con l’aspetto religioso: il pane era connesso ad antichi e consolidati momenti religiosi, come dicevo sopra; era considerato sacro, infatti non si buttava mai. Prova ne è il fatto che in Sardegna abbiamo tante ricette col pane raffermo. La preparazione del pane era quasi un rituale religioso che prevedeva la recita di preghiere e canti.
Perché i pani tipici vengono ancora snobbati nella ristorazione pubblica? L’educazione alimentare ha esaltato uno o due sensi: la vista e il tatto. I pani che propongono nei ristoranti sono molto piccoli, bianchi, morbidissimi: sono considerati più facili da proporre perché non hanno particolari profumi o gusti, quindi non vanno ad incidere sul piatto. I ristoratori non hanno tempo per spiegare il pane e non vogliono neppure farlo, perché per presentare un pane devi avere le stesse competenze che occorrono per presentare una bottiglia di vino. Quando ordiniamo una bottiglia di vino, questa viene stappata davanti ai nostri occhi. Perché il pane, invece, viene portato già tagliato? Attraverso la Carta dei Pani, nata sulla falsariga della Carta dei Vini, vogliamo allargare l’uso del lievito madre anche ai ristoranti. I ristoratori devono imparare a considerare il pane uno dei principali componenti di tutto il pasto, quindi devono saper presentare i diversi tipi di pane e raccontare la loro storia. La Carta dei Pani rappresenta uno strumento di consapevolezza. Abbiamo iniziato l’attività della Carta dei Pani con il ristorante “Movida” di Daniele Sardu, ad Alghero. Prima di Natale incontreremo altri panificatori e ristoratori desiderosi di intraprendere con noi questo percorso.
Professore, come nasce una filiera corta? Cosa sappiamo della Filiera cerealicola del Parco di Porto Conte? Questo è il meccanismo che porta alla nascita di una filiera: il molitore invita il contadino a coltivare una determinata varietà di grano per poter acquistare tutto il prodotto, macinarlo e distribuire lo sfarinato ai panificatori del territorio (o pastificatori). Spesso gli agricoltori non coltivano più determinati grani perché nessuno li acquista; il contadino che semina e vede che il suo prodotto non viene acquistato da nessuno è demotivato. Da qualche anno il Parco Regionale di Porto Conte-Alghero ha attivato una filiera corta, coinvolgendo alcuni cerealicoltori della Nurra algherese e chiedendo loro di coltivare un particolare tipo di grano, che viene acquistato interamente dal Parco. Il Parco, poi, porta il grano a macinare presso il Molino Riu, un molino algherese. Lo sfarinato ottenuto in parte va al Parco, che lo vende col proprio marchio, in parte al molitore, la gran parte ad Antonio Masia del Panificio Cherchi di Olmedo. Quest’anno, oltre al grano Karalis, è stata coltivata e prodotta anche la varietà Marco Aurelio.
Quali sono i prossimi appuntamenti che vedranno impegnata l’Accademia del Lievito Madre? Abbiamo siglato un protocollo d’intesa con il Parco di Porto Conte per “lo studio, la valorizzazione, la promozione e la divulgazione della pratica della panificazione con l’uso del lievito madre nell’area del Parco di Porto Conte e nelle aree contermini”. Stiamo facendo tutto questo per la valorizzazione della filiera corta e dei prodotti che ne derivano. La ripresa del comparto cerealicolo regionale potrebbe contribuire alla ripresa economica della Sardegna. L’Accademia ha in programma anche un corso di panificazione, in diverse zone della Sardegna, con l’impiego di sfarinati locali e del lievito madre. Sarà un corso per persone desiderose di recuperare quest’arte. Stiamo, inoltre, collaborando sia col Comitato Promotore Pane Coccoi Dop che con l’Associazione Panificatori della Sardegna. Noi stiamo cercando di valorizzare una tradizione che, se venisse regolarmente utilizzata dai panificatori, si ripercuoterebbe su tutta la filiera. Il pane tradizionale è fatto di grano duro, quindi si incrementerebbe la coltivazione del grano (pagato naturalmente ad un prezzo dignitoso e remunerativo). Ciò significa che i giovani sardi potranno tornare a fare gli agricoltori e i cerealicoltori nella loro terra con dignità, senza essere costretti a cercare altrove un futuro dignitoso.