LE ISCRIZIONI SEPOLCRALI IN LOGUDORESE VOLUTE DA GIOVANNI SPANO PER LE LAPIDI DEL CIMITERO “VECCHIO” DI PLOAGHE MONUMENTALE ESEMPIO DI DIFESA DELL’IDENTITÀ LINGUISTICA DEI SARDI

di PAOLO PULINA

Con questo quarto contributo, che fa seguito al terzo (se ci si collega al link https://www.tottusinpari.it/2023/03/04/il-canonico-giovanni-spano-1803-1878-spirito-libero-non-antisemita-e-stato-pioniere-degli-studi-sulla-storia-degli-ebrei-in-sardegna/ si trova il link anche ai due precedenti “pezzi” usciti in questo sito),  Paolo Pulina completa il suo omaggio alla memoria del canonico Giovanni Spano (Ploaghe, 3 marzo 1803-Cagliari, 3 aprile 1878), nella ricorrenza del 220° anniversario  della nascita dell’illustre compaesano, “gigantesco” valorizzatore delle ricchezze culturali della Sardegna (lingua, archeologia, architettura, arte, tradizioni popolari, proverbi).

Ha scritto il ploaghese monsignor Gavino Spanedda in uno dei capitoli del suo li­bro “Chiese e Istituzioni di Ploaghe, secoli XVII-XIX” (Edes-Superstar, 1989): «Il ca­nonico Giovanni Spano nel 1859 pubblicò una monogra­fia, nella quale descrisse breve­mente l’architettura e la storia del camposanto vecchio di Ploaghe, ricopiando inoltre gli epitaffi scolpiti nelle lapidi mortuarie di marmo bianco, dettati quasi tutti dal rettore di Ploaghe Salvatore Cossu, a incominciare dal 1844». Come ricorda Manlio Brigaglia nella prefazione ai versi religiosi di Bainzu Cossiga, “Su Poeta Christianu” (Sassari, Gallizzi, 1984), in realtà il rettore Cos­su, originario di Chiaramonti, «scrisse in sardo tutta la sua corrispondenza (non soltanto quindi gli epitaffi), nella va­rietà di un logudorese ricco di movenze latine».

Precisa monsignor Spaned­da: «Nel 1859 gli epitaffi era­no 18, poi sono andati man mano crescendo di numero si­no alla fine del XIX secolo. Oggi, dopo i restauri del 1982, se ne contano 39, dei quali sol­tanto tre in lingua italiana […]. Otto delle lapidi in sardo ricordano i congiunti del cano­nico Spano, compresi il padre e la madre, scomparsi all’età di 93 anni».

Come esemplificazione sim­bolica dell’amichevole, fitta corrispondenza intercorsa tra il rettore Cossu e il canonico Spano, improntata da parte di entrambi ad «amorosi sensi» nel confronti della lingua ma­terna, diamo qui di seguito – in una specie di montaggio cronologicamente ordinato – i testi in logudorese di alcune epigrafi sepolcrali.

Ecco cosa scrive Cossu per immortalare la ploaghese Maddalena Lei, una delle benemerite maestre che collaborarono con lui per diffondere la conoscenza della dottrina cristiana:

«Ad semper viva me­moria de MADALENA LEI ispirituale mamma et mastra de su populu ploaghesu qui in sa piedade et christiana doctri­na XLIV annos gratis instruesit et de nova ecclesia et devotione profunda ad MARIA SS.MA de PALU-VIRDE  ardentissima promotora de men­te intendimentu et coro gran­de su XXII de martu MDCCCXLVII isperanzosa et placida moriat in sos LXXII de alma vida laboriosa voluntariamente virginale su rectore Cossu custu ad exemplu marmaru cunsacrat quie practichendela insinzat sa doctrina sancta det risplender quasi istella in s’eternidade».

Giovanni Spano è sicuramente l’autore dell’epitaffio in onore della madre:

«AD JOHANNA LUGHIA FIGONE LIZOS muzere de Iohanmaria Ispanu Lizos exemplu de virtudes christianas morta sa die VIII de abrile in brazzos de su Segnore in s’annu MDCCCLXIV in edade de XCIII annos VIII meses et V dies massaja cuidadosa et attenta mama de VIII fizos et de duas fizas connoschesit sa quarta generatione sos battoro superstites fizos Johanne et Johanne Luisi Salvadore et Antoni Johanne ponent custu monumentu. O MAMA!/Ammentadebos in su chelu de pregare pro nois».

Con queste parole lo Spano eterna la memoria dell’amico Cossu:

«Ad su theologu SALVADORE COSSU naschidu in Zaramonte su XXIV bennarzu MDCCXCIX mortu in Piaghe su XXI de cabidanni MDCCCLXVIII ue pro XL annos fit rectore homine doctu sabiu laboriosu caru a totu sos qui lu connoschiant lu pianghesint sos parentes sos amigos cum tota sa bidda qui nd’admiraiant sas raras virtudes det viver eterna sa memoria cum sas operas qui istampesit sos sette nebodes Salvadore Giammaria e Pedru Migaleddu Cossu Caterinanzela cum su maridu Salvadore Lai Nuvoli Giuliana cun su maridu Sebastianu Congiatu ponent custu M.».

Queste sono le parole scolpite sulla lapide commemorativa di Giovanni Spano, le cui spoglie riposano a Cagliari:

«A SU THEOLOGU IUANNE ISPANU sextu de sos X fizos de Iommaria e de Iuanna Lughia Figone sacerdote virtuosu beneficu professore de S. Iscritura e de limbas orientales in sa R. Universidade de Karalis can. prot. ap. de cussa primaziale prebend. de Villa Speciosa insigne archeologu membru de sas pius rinomadas Academias d’Europa grande uffiziale de s’Ordine Maurizianu comm. de sa Corona de Italia cav. de su meritu civile senadore de su regnu abbatidu dae su tantu travagliu in edade de LXXV annos mortu de guta in Kalaris su die III de abrile annu MDCCCLXXVIII inie sepultadu in su monumentu da ipse vivente preparadu sos tres frades viventes can. Juseppe Luysi Iuanne Luysi Antoni Iuanne dolentes a perpetua memoria li ponent custu marmaru. Oh sos chi legides una requiem!».

Anche se è suggestivo il riferimento all’ “Antologia di Spoon River” del poeta americano Edgar Lee Masters, nel caso di queste lapidi che non problematizzano i dati delle diverse esistenze ma esaltano esclusivamente i pregi familiari e le pubbliche virtù di alcune personalità ploaghesi (qui ci siamo limitati a quelle più illustri), forse è più congruo, e non solo per ragioni cronologiche, un collegamento con un’opera letteraria classica di un classico della nostra letteratura: “Dei Sepolcri” di Ugo Foscolo. Quali versi sono più adatti di questi per dar conto del legame che le iscrizioni sulle pietre tombali riescono a mantenere tra la persona defunta e la posterità?

«Celeste è questa / corrispondenza d’amorosi sensi, / celeste dote è negli umani; e spesso / per lei si vive con l’amico estinto / e l’estinto con noi, se pia la terra / che lo raccolse infante e lo nutriva / nel suo grembo materno ultimo asilo / porgendo, sacre le reliquie renda / dall’insultar de’ nembi e dal profano / piede del vulgo, e serbi un sasso il nome, / e di fiori odorata arbore amica / le ceneri di molli ombre consoli».

Il riferimento al grembo materno operato dal Foscolo consente di istituire un collegamento (che al rettore Cossu e al canonico Spano stava molto a cuore) con la lingua materna: a tal punto che quest’ultimo, come scrive monsignor Spanedda, non vedeva di buon occhio una iscrizione in latino (presente nella cappella del Crocifisso) dettata dal monsignor Varesini in memoria delle vittime del colera del 1855.

A proposito del “cordone ombelicale” tra la nostra struttura profonda e la lingua materna, ha affermato l’antropologo Bachisio Bandinu: «Gli studi di psicolinguistica mettono in evidenza come il nucleo profondo della persona sia strutturato nella lingua materna. Il linguaggio nasce dalla fusione con la madre, legato al piacere dell’ascolto, del tatto e della visione» (si veda il volume con gli Atti del convegno “Autonomia, cultura, lingua sarda nell’Italia del federalismo e nell’Europa delle Regioni”, organizzato il 10 dicembre 1994 a Milano dalla FASI-Federazione delle Associazioni Sarde in Italia).

A partire dal rettore Cossu che fu testimone del fatto e che lo raccontò in una lettera a Giovanni Spano nel 1847, sia Enrico Costa nel suo ampio articolo su Ploaghe scritto nel gennaio del 1900, sia Manlio Brigaglia sia monsignor Gavino Spanedda nelle rispettive opere citate ricordano che il padre Bresciani, quando vide le lapidi con le iscrizioni in logudorese del camposanto vecchio di Ploaghe, esclamò: «Oh, finalmente, ho trovato una terra veramente sarda!». Al che il rettore Cossu rispose: «La terra veramente sarda non trovasi oramai se non nei sepolcri!».

Da questo punto di vista aveva ragione Manlio Brigaglia quando sosteneva che le lapidi del camposanto vecchio di Ploaghe sono un vero e proprio «bene culturale» che, in quanto tale, va conservato, tutelato, valorizzato. Oggi la riproduzione delle iscrizioni nella lingua sarda è reperibile in Internet ma non mancano i visitatori (sardi, italiani e stranieri) che non intendono rinunciare al piacere di ammirare de visu questi documenti unici che testimoniano l’attenzione ai valori dell’identità linguistica del popolo sardo che caratterizzò personalità come il canonico ploaghese Giovanni Spano e il rettore chiaramontese Salvatore Cossu.

«Non lasciavamo altre tracce che i nuraghe, le navi di bronzo di Urel di Mu e i piccoli uomini cornuti, guardiani dell’isola, che molti fecero imitando Mir. Nessuno sapeva leggere e scrivere. Passavamo sulla terra leggeri come acqua»: è un passo dell’ultimo romanzo, intitolato appunto “Passavamo sulla terra leggeri” uscito postumo (Mondadori, 1996, recentemente riproposto da Sellerio con una nota di Marcello Fois) dello scrittore cagliaritano Sergio Atzeni scomparso a soli 43 anni, nel settembre 1995, per una disgrazia nell’acqua del mare attorno all’isola di San Pietro.

La scrittura, in particolare quella più resistente «all’insultar de’ nembi e al profano pie­de del vulgo» (così scriveva Fo­scolo) come quella scolpita sul­le pietre del camposanto vec­chio di Ploaghe, consente agli uomini e alle donne pensanti di non passare sulla terra leg­geri leggeri.

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3 commenti

  1. Sacrosanta esposizione che rende giustizia al Canonico anche come linguista “ante litteram”…….
    Meritoria l’opera di Paolo Pulina che prosegue nella valorizzazione della figura del Canonico, sempre poco conosciuto ed apprezzato.

  2. Renata Asquer

    L’articolo di Paolo Pulina è, come sempre, completo di tutto ciò che rende uno scritto – di qualsiasi genere si tratti- chiarissimo, vivace e profondo nell’esposizione, ricco di riferimenti(linguistici,storici e anche poetici),illuminante per le riflessioni personali.Complimenti affettuosi Paolo!

  3. Ciusa maria elvira

    Grazie e complimenti a Paolo Pulina che ci restituisce, con profonda chiarezza e competenza, le nostre memorie storiche e linguistiche in lavori sempre improntati a rigore scientifico

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