di PATRIZIA BOI
La nostra Regista sarda Alessandra Peralta prosegue il suo impegno sociale con gli Speciali di Rai Scuola. Particolarmente interessante il documentario sul Genocidio dei rom e sinti, tratto da un’idea di Pietro De Gennaro, Autore Alessandro Greco, Produttore esecutivo Luigi Bertolo, messo in onda su Rai Scuola lo scorso 16 dicembre 2022.
Tra i protagonisti del video il rom italiano Santino Spinelli, in arte Alexian, musicista, compositore, poeta, saggista e docente universitario, che ha dedicato 37 anni della sua vita a studiare e a denunciare con tutte le armi possibili della cultura e dell’arte – e ultimamente con il suo saggio Le verità negate (Meltemi Editore, Collana Linee, 2021) -, il Samudaripen, ossia il genocidio della popolazione romanì ad opera della dittatura nazista nel corso della Seconda Guerra Mondiale.
Un argomento scottante, ancora poco conosciuto dalla maggior parte delle persone, perché nel 1945, al Tribunale Militare di Norimberga «costituito da giudici americani, inglesi, francesi e sovietici» ai processi contro i funzionari nazisti responsabili dell’Olocausto, come afferma Santino Spinelli «nonostante le orripilanti violenze subite, nessun rom o sinto o manouche fu invitato al processo». Invece bisogna che assolutamente tutti sappiano che – e ce lo urla forte Santino nel suo libro – «I rom, sinti e manouches furono inclusi nella soluzione finale […] Subirono l’identica sorte degli ebrei, furono torturati, tormentati, umiliati e massacrati negli stessi lager e con gli stessi metodi della stessa mano assassina: passarono per le stesse camere a gas e per gli stessi camini».
Ma perché Santino si è dedicato così alacremente allo studio di questi fatti storici? Perché la sua famiglia, 29 persone in tutto, compreso suo padre, allora bambino, venne deportata in un campo di internamento in Italia. Solo che rispetto alle vittime del Samudaripen i suoi familiari si salvarono per lo sbarco degli alleati, sono quei sopravvissuti che tornarono in Abruzzo passando attraverso le campagne.
Come ci narra il documentario il 16 dicembre del 1942, Heinrich Himmler ordinava di deportare verso il campo di sterminio di Auschwitz ogni cittadino tedesco di razza rom e sinti della sua Germania nazista.
«I membri della popolazione romanì, come gli ebrei, furono depredati dei loro averi, usati nella macchina bellica come schiavi e sfruttati come cavie per gli esperimenti pseudo-scientifici…». Lo afferma Spinelli e la Peralta lo mostra attraverso le sue immagini attente e poetiche, che denunciano gli accadimenti ma che tendono sempre a stendere un velo di pudore su verità tanto difficili da digerire. Gli stessi testimoni hanno difficoltà a raccontare la brutalità dei carnefici, quasi si vergognassero per loro, un testimone racconta di una donna incinta e del livello di atrocità che questa donna subisce e resta egli stesso interdetto quando le parole parlano di grembo squarciato. Sembra un film dell’orrore perché senza dubbio come afferma sempre Spinelli nel suo saggio «I nazisti concepirono e organizzarono la più grande industria della morte. Il controllo mediatico e la propaganda ebbero un ruolo fondamentale per un massacro senza precedenti. Le informazioni erano ben manipolate per istillare l’odio razziale nell’opinione pubblica».
E fa bene Santino a denunciare questa manipolazione perché conoscendo il meccanismo propagandistico e manipolatorio possiamo evitare che capiti ancora.
La Peralta, invece, pone davanti alla tragedia la poesia di una finestra chiusa che riflette la desolazione del campo e oltrepassa la tragedia di un’umanità che non può soccombere all’orrore del male.
Sembra tutto così assurdo, così incredibile e così inverosimile, che l’odio possa produrre momenti storici come il Samudaripen – che nella lingua romanì significa letteralmente “tutti uccisi”- o il Porrajmos – tradotto invece come “grande divoramento”. Eppure come riporta lo storico Luca Bravi «quando parliamo di rom e sinti nel contesto del nazismo e del fascismo, parliamo di mezzo milione di persone che sono state sterminate e uccise».
Siamo sicuri che questo grande odio razziale sia una cosa isolata nella storia? Nemmeno per idea, ce lo conferma Alexian che studia da sempre la storia romanì ed è perfettamente consapevole che l’antiziganismo e l’odio razziale, fu solo un momento di apice di «secoli di accuse e odio viscerale, che gli Stati europei non hanno mai voluto realmente superare».
Questo odio è tale evidentemente che il Samudaripen, nonostante si tratti dell’equivalente della Shoah ebraica, risulta «non inserito nella legge del luglio 2000 che istituì la Giornata della Memoria e vissuto ancora oggi come semplice appendice alla Shoah ebraica».
Solo con una risoluzione del Parlamento Europeo del 15 aprile del 2015 venne istituita la Giornata internazionale dei Rom, antiziganismo in Europa e riconoscimento del genocidio dei Rom durante la Seconda Guerra Mondiale. Sappiamo che l’antiziganismo, infatti, è «una delle principali cause della discriminazione ed emarginazione di cui è storicamente vittima la popolazione Rom in numerosi Paesi Europei».
Il Regime nazista li aveva dichiarati “una razza inferiore”, favorendone la tortura e l’assassinio, ma nemmeno il Fascismo li risparmiò, Mussolini firmò dei documenti che mettevano in luce tutto il potenziale discriminatorio contro le comunità romanès.
E questa tendenza razzista contro i Rom in Italia raggiunge percentuali altissime rispetto al resto d’Europa, stiamo parlando dell’86% della popolazione italiana che odia i rom e i sinti, una vergogna per la nostra razza ‘non rom’.
Tuttora in Italia esistono i ‘Campi Rom’, così come nella Grande Germania esistevano i campi zingari, (Zigeunerlager) dove centinaia di rom morirono a causa delle terribili condizioni di vita. Non sono campi di sterminio fisico, ma luoghi di emarginazione e di discriminazione e soprattutto di distruzione della cultura e della vitalità di un popolo. Spesso costruiti vicino alle discariche come se i romanès fossero spazzatura da gettare lontano dai centri abitati. Questo ha allontanato le genti rom dalle scuole, dai luoghi dell’inclusione distruggendo moralmente generazioni di giovani e rendendoli inconsapevoli dei loro talenti e della bellezza della loro diversità, scacciati sempre lontano dalla società e dai centri di potere.
Per la maggior parte, le famiglie Rom furono deportate ad Auschwitz-Birkenau, dove furono confinate in un settore dedicato detto “il campo delle famiglie zingare”. Circa 23.000 tra rom, sinti e lalleri, intere famiglie, ad Auschwitz hanno vissuto ammucchiate nel settore destinato agli Zingari, come spazzatura vivente in attesa di essere bruciata dagli inceneritori.
La cosa più sconcertante fu che alcuni medici, come il Dottor Josef Mengele, furono autorizzati a compiere esperimenti su particolari categorie di bambini ebrei, come i gemelli e, tra i nani, alcuni provenienti anche dalle famiglie zingare del campo.
La Peralta ce ne mostra per qualche attimo le immagini di repertorio con i corpi martoriati, con arti tagliati e parti del corpo ricucite, con porzioni di carni appese, con le teste aperte e richiuse, con bambine trasformate in maschietti e bambini diventati femminucce per l’amputazione degli organi sessuali, storie di relitti umani che i sopravvissuti riescono a malapena a raccontare. Naturalmente tutte queste anime spesso sono inconsapevoli dei trattamenti che stanno ricevendo, magari sono convinte che sia per il loro bene, per la loro salute, lasciano profanare i loro corpi come malati che si fidano dei loro macellai. Un modo terribile per cancellare dai loro cuori ogni traccia di umanità, così come disumani e privi di empatia erano gli aguzzini che li sezionavano facendone dei cadaveri viventi.
Secondo me la Peralta potrebbe mostrare la pazzia di questi comportamenti attraverso il riflesso di quella finestra chiusa dai cui vetri di specchia la solitudine dei campi, oppure dal volto di un bambino rom con lo sguardo innocente costretto dietro un vetro, o magari nel riflesso del corpo di una donna tra le foglie autunnali di un bosco senza nome. Ma forse le finestre di Alessandra sono molto più metafisiche, stanno a dimostrare proprio un fatto dimensionale, nella terza dimensione c’è tanto odio, il male regna sovrano, ma c’è un altrove dove si possono guardare questi comportamenti con un altro punto di vista, dalla quarta dimensione la Peralta sembra osservare tutto con un profondo sentimento di pietas, andando poi verso l’elevazione della quinta dimensione sembra essere al di fuori della dualità del bene e del male…
Molti bambini morirono di tifo, vaiolo e dissenteria per le condizioni igieniche proibitive in cui versavano le baracche, donne, anziani, malati ebbero presto la loro stessa sorte, quei 2.898 circa che resistettero alla barbarie della prigionia, furono trucidati nel 1944, nelle camere a gas di Birkenau. Un testimone nel documentario ci narra quella vicenda: furono fatti uscire dai loro ricoveri puzzolenti dove erano trattati peggio delle bestie e furono incolonnati nella direzione delle camere a gas. Molti lo compresero e provarono disperatamente a fuggire, ma furono costretti a entrare nelle camere di morte come condannati per delitti che non avevano commesso, per subire da morti viventi quali erano diventati la peggior sorte che si potesse immaginare, mucchi di anime spente considerate indegne di una civile esistenza.
Pochi fortunati si salvarono riuscendo a nascondersi, almeno 19.000 dei 23.000 rom che furono inviati ad Auschwitz morirono nel campo. Quelli che si salvarono vennero condotti a Rapolla in Basilicata e lasciati come un pacco di panni da lavare nella più assoluta solitudine e povertà.
Sappiamo che furono proprio 23.000 le vittime perché è stato ritrovato il libromastro dello Zigeunerlager (campo degli zingari) di Birkenau, con le pagine vergate con i nomi degli uomini da una parte e i nomi delle donne dall’altra parte. Il documento è stato recuperato perché un prigioniero polacco addetto alla registrazione dei nomi, Tadeusz Ioachimowski, volle tornare nell’estate del 1944, prima che quell’area del campo di sterminio fosse totalmente liquidata, accanto alla baracca 31, dove avvolto di stracci dentro un vecchio secchio di latta aveva sotterrato il libromastro della memoria, lo dissotterrò con sicurezza insieme ai compagni di prigionia Irenuesz Pietrzyk (matricola 1761) ed Eryk Porebski (matricola 5805).
Da dove vennero gli ordini? Chi fu responsabile della persecuzione degli ebrei e dei rom e sinti?
Ricordiamo il castello di Wewelsburg, un luogo che ancora oggi affascina i neonazisti. Al centro della sala principale degli Obergruppenführer, c’è il cosiddetto Schwarze Sonne, il Sole nero con 12 raggi, perché l’esoterismo nazionalsocialista del Führer è legato alla Thule-Gesellschaft, «una società mistica che propugnava l’antisemitismo, la purezza del sangue e della razza, il ritorno ad un’ideale età dell’oro germanica peraltro non ben storicamente identificabile, in quanto era spalmata su un arco temporale di alcuni millenni». Nel 1934 Himmler, convinto che nel castello ci fosse un’enorme forza spirituale, firmò un contratto di affitto del castello per 100 anni per la cifra simbolica di 100 marchi. Si narra che «Gli adepti delle SS venivano qui preparati a pratiche iniziatiche…».
Sia quel che sia, Hitler e i nazisti, furono responsabili e condannabili al cento per cento! I membri delle SS si fecero trascinare in questa follia che veniva ammantata di missione sacra per estirpare il male dalla società, ma chi erano? Persone forti e consapevoli o persone comuni e senza carattere facilmente manipolabili? Responsabili nella loro ignoranza, superficialità, arroganza. E i Capi di Stato che glielo lasciarono fare? Non si resero conto del pericolo di quella “vera e propria missione” diabolica? Del resto anche la Chiesa di Roma si rese responsabile di guerre fratricide volte a riconquistare la Terra Santa dal dominio islamico o per sopprimere il paganesimo e i movimenti eretici, per conflitti tra gruppi cristiani rivali o semplicemente per vantaggi politici e territoriali. Cosa fece la Chiesa per ostacolare nazisti e fascisti? Assolutamente nulla: se ne lavò le mani, o forse ne fu in qualche modo partecipe?
Chi lasciò fare, che fosse Stato, Chiesa o semplici cittadini, comunque fu responsabile, chiuse gli occhi di fronte all’evidenza e non volle vedere, gli fu più comodo restare nell’ignoranza e nel “tanto non sta capitando a noi” o forse “è giusto che le razze inferiori siano estirpate”. Non si doveva arrivare all’Olocausto, ci si doveva fermare prima, i cittadini si dovevano sollevare alle prime leggi razziali, non lo fecero, sono dunque responsabili!
La propaganda lavorò sodo nella programmazione e manipolazione, verissimo, però «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza», si potrebbe obiettare. Il Potere si è sempre servito dell’ignoranza per manipolare le menti, capita ancora oggi, dove tra l’inconsapevolezza della gente, si creano in vari modi cittadini di serie A e cittadini di serie B. Non è paragonabile? È vero, ma è sempre bene intercettare prima il pericolo, come animali sociali capaci di sentire l’avvicinarsi di un pensiero folle e selettivo.
Certamente, però, furono assolutamente responsabili i collaborazionisti, coloro che con la propaganda creano realtà distorte, come i giornalisti di oggi che non ricercano la verità, ma ricopiano le veline che il Potere porge loro senza fatica.
Tutti noi cittadini siamo stati e continuiamo ad essere, quando non vogliano guardare e vedere le ingiustizie e le persecuzioni di uomini e popoli, assolutamente responsabili, perché senza la nostra cecità certi massacri, fisici e morali, non sarebbero accaduti.
Eppure Fabrizio De André cantava:
«Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior».
Infatti, nonostante il dolore fisico e morale di questi uomini discriminati e annientati dalla storia, il genio non può essere arrestato, fermenta anche nella melma, fiorisce anche dallo sterco, recalcitra nell’anima soffocata, si contorce, si lamenta e improvvisamente e inaspettatamente fuoriesce come un urlo di bellezza. Quando l’essere umano è chiuso da ogni direzione, deve riuscire a comporre col suo estro proprio dal limite che lo soverchia.
Come recita nel monologo finale nel film La leggenda del pianista sull’oceano l’attore Tim Roth/Danny Boodman:
«Tutta quella città… non si riusciva a vederne la fine… La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine? […] Tu pensa a un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu lo sai che sono 88 e su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu sei infinito, e dentro quegli 88 tasti la musica che puoi fare è infinita».
E da quel limite scaturiscono le note che si possono comporre senza limiti. E così è stato, il genio annichilito e limitato da ogni direzione, ha trovato anche in quei luoghi di morte il modo per urlare ai posteri il suo profondo lamento lasciando in eredità l’arte, la poesia e soprattutto la musica.
La musica è sempre stata uno strumento fondamentale nella cultura romanì, un modo per comunicare e raccontare la memoria di quei giorni infernali come afferma sempre Luca Bravi. Per tanti anni il dolore per il Samudaripen rimase celato nelle anime dei superstiti, dei familiari e dei discendenti delle vittime del genocidio, poi Santino Spinelli si è fatto portavoce del dolore del suo popolo, raccogliendo le testimonianze dei sopravvissuti tra i quali suo padre Gennaro che è uno dei testimoni anche nel documentario. Santino ha raccolto e studiato quelle che sono note come musiche concentrazionarie – ovvero quelle nate nei campi di concentramento -, creando il vasto repertorio musicale appartenente alla cultura romanì.
E questo è il campo che la Peralta preferisce trattare, perché come la musica geniale concentrazionaria illumina il buio del Samudaripen, la sua telecamera si accende e sorride quando entrano in campo note e spartiti, fisarmoniche e violini, pianoforti e contrabassi fino alla delicatezza dell’arpa della deliziosa Evedise. Le mani veloci di Santino sul piano e sui tasti della fisarmonica diventano la magia su cui concentrare l’attenzione, un bisogno d’aria, un respiro pieno di ritmo per riaccendere il cuore e lasciarsi alle spalle il delirio della mente. La telecamera spazia dal violino di Gennaro Spinelli, al violoncello della magnifica Giulia Spinelli, alle mani che pizzicano le corde della dolce Evedise, i tre figli di Santino, che hanno visto e sentito musica a pranzo e cena, al risveglio e prima di dormire, in ogni giorno della loro vita fin dai primi attimi della loro esistenza. Questa è un’arte che la popolazione romanì possiede nel proprio DNA, un cibo che li ha nutriti e consolati nei momenti peggiori, quando dovevano spostarsi da un paese all’altro perché scacciati da ogni luogo – ricordiamo che i rom/roma, sinti, calé/kale, manouches e romanichals provengono dall’India e sono passati attraverso una vita nomade che non hanno scelto – un ritmo che ha portato allegria nelle loro feste e matrimoni, una melodia che ha accompagnato le anime dei loro estinti nei popolati cortei dei loro funerali.
La musica parla col cuore ancora prima che si manifesti la parola, è il segno con cui scolpiscono nell’anima ogni loro emozione, si tratti di piacere, dolore, gioia, nostalgia, ricordo, fantasia.
Anche il Maestro Francesco Lotoro – musicista, pianista, direttore d’orchestra, esperto di musiche concentrazionarie sia ebraiche che rom -, afferma che nei Zigeunerlager è nata una letteratura musicale «di livello universale, non solo per l’alta ispirazione melodica, ma anche per la forza dei testi e per una potenza espressiva del terreno musicale» che attinse solo parzialmente da un precedente repertorio: era musica originale, nata nei campi, un fiore germogliato dallo sterco lasciato al suolo dalla follia nazifascista.
Nei campi di sterminio, in condizioni di vita disumane, la creatività delle famiglie romanì produsse frutti musicali originali e emotivamente coinvolgenti, che hanno visto l’interesse di musicisti ‘non-rom’ come Lotoro e rom come Santino Spinelli. Le famiglie, le donne, i bambini, gli uomini, annullati nella loro umanità, hanno lanciato il loro urlo, un lamento silenzioso che emerge dai loro spartiti interiori.
Nell’atrocità della prigionia, le immagini di repertorio selezionate dalla regista Alessandra Peralta, sono capaci di raccontare uno dei momenti più sconvolgenti del comportamento umano nei confronti dei propri simili, ricercando ogni istante positivo, di gioia, di tenerezza, di bellezza, sposando le immagini ai suoni e alle note lasciateci in eredità da uomini resi relitti umani. Il documentario racconta con le parole di studiosi e testimoni, ma la Peralta ce lo mostra, se lo sguardo è attento, con la sua telecamera che sorge spontaneamente dal terzo occhio. È la missione della regista riuscire a far vedere il bello, l’originale, il poetico, l’assurdo eppure il genio che cresce e si sviluppa nei campi di anime bruciate, dove non dovrebbe crescere nulla, dove un velo di pudore dovrebbe far breccia nel cuore dei carcerieri, che con i fucili in mano, che con la loro arroganza, spingono uomini, donne, bambini, anziani, verso il loro destino di dolore e morte.
I circa 35.000 rom che vivevano in Germania, nell’arco di poco tempo, furono considerati addirittura persone geneticamente pericolose.
Ogni anno, non solo gli ebrei, ma anche i rom, talvolta anche insieme, cercano di commemorare le vittime del genocidio rom attraverso l’inno Gelem, gelem, una canzone scritta da Žarko Jovanović nel 1949, usata come inno del popolo rom, adottato ufficialmente dai delegati del primo Congresso Mondiale Rom svoltosi a Londra nel 1971. Il titolo è scritto anche in altre grafie ed è conosciuto anche con altri nomi, fra cui Opré Roma e Romale Shavale.
A Lanciano c’è un Monumento al Samudaripen dei Rom e Sinti, una statua scolpita in pietra della Majella da Tonino Santeusanio che si trova presso il Parco delle Memorie.
La statua rappresenta «una donna con in braccio un bambino che fugge e si libera dal filo spinato che la imprigiona. La donna rappresenta la continuità, la possibilità di futuro dell’etnia Rom e Sinti, il bambino è il futuro. Il filo spinato rappresenta il genocidio etnico e la ruota del carro, collocata a lato, rappresenta l’etnia Rom e Sinti».
La ruota del carro si trova anche al centro della bandiera della popolazione Romanì, simbolo del viaggio della famiglia e soprattutto della libertà.
Mi piace concludere questo articolo ritornando alla foto iniziale dove la regista immortalata col Maestro sembra rappresentare anche il legame profondo che Santino Spinelli nutre nei confronti della Sardegna, un’Isola che più volte lo ha accolto e che da secoli accoglie le genti romanès, senza troppa paura e senza giudizio, amandone i colori, la creatività, la musica allegra che improvvisamente si fa melodia struggente, il canto ribelle, la danza improvvisata, movimentata e variopinta di mille arcobaleni…
Alexian Spinelli: grande musicista e abruzzese
Eccellenti nel trattare un tema così delicato.
Un documentario importante, tenendo conto non solo il lavoro e la sensibilità sull’argomento della regista, ma anche un relativo risvolto purtroppo “oscuro” nella storia isolana del ‘900. Consiglio a proposito la visita in Berlino, capitale della Germania, del Memoriale dedicato al genocidio di Rom e Sinti
https://www.stiftung-denkmal.de/…/denkmal-fuer-die-im…/
Per chi non lo sapesse, troverà in loco – tra le altre che riportano incisi i nomi dei campi di sterminio o di concentramento o di internamento sparsi per l’Europa Nazi-Fascista in quegli anni -, a memento, anche questa pietra