di STEFANIA CUCCU
Sai qual è l’errore che si fa sempre? Quello di credere che la vita sia immutabile, che una volta preso un binario lo si debba percorrere sino in fondo. Il destino invece, ha molta più fantasia di noi…
Andrea Ferrero nasce a Cagliari il 12 Gennaio del 1971.
Secondo di tre figli. Una vita serena; studia, consegue la laurea in Economia e Commercio nel 1996 e si dedica al tirocinio per diventare Dottore Commercialista.
Trascorre le sue giornate diviso tra il lavoro, la famiglia e la fidanzata, la prima che, attorno al 1998 nota che qualche cosa non va; Andrea inizia ad avere difficoltà soprattutto nella visione notturna e nel riconoscimento di alcune sfumature di colore. A seguito di numerose visite scopre di essere affetto da ‘retinite pigmentosa’, una patologia incurabile degenerativa e progressiva.
“In famiglia non ci sono stati casi di retinite pigmentosa. Tra l’altro, la retinite pigmentosa è una malattia che nasce quando padre e madre presentano una mutazione sullo stesso gene. Nel mio caso, i miei genitori presentavano mutazioni differenti che tuttavia hanno dato origine alla malattia. Un caso quasi unico e raro”.
La patologia sarà causa di grandi difficoltà nel lavoro tanto che nel 2004 si trova impiegato al CRS4 come categoria protetta, e nel 2010, arriverà alla cecità totale.
“È lì che si tocca il fondo, è lì che ci si sente morire…”
Ma Andrea non si è chiuso a riccio, non si è fatto prendere dalla rabbia e ha riadattato la sua vita: sapeva che avrebbe dovuto vivere con questa coinquilina scomoda, ma questo non gli ha impedito di sposare la bellissima Annalisa, di uscire con gli amici, di lavorare, divertirsi e reinventarsi nel suo mondo solo in apparenza buio.
“Ho iniziato a lavorare utilizzando il pc con la sintesi vocale e a occuparmi di tante attività alle quali prima non avevo mai pensato. L’obiettivo è quello di voler superare i miei limiti, sia oggettivi sia quelli che tutti noi ci mettiamo.”
Inizia così il suo percorso come facilitatore museale, pittore e speaker radiofonico per dare voce alle tante persone con disabilità.
Ecco che nel 2015 l’azienda avvia il progetto di digitalizzazione dei “Giganti di Monte Prama” all’interno del progetto più ampio definito “Museo Liquido” finalizzato a rendere l’arte accessibile a tutte le persone che presentano difficoltà. Andrea viene chiamato a collaborare come tester all’interno del Museo Archeologico di Cagliari.
Il Museo Liquido si inserisce in un processo di trasformazione che avvicina il museo alla sua comunità, al suo territorio e ai suoi visitatori reali e virtuali. Un’opera corale che coinvolge professionalità e competenze differenti.
“Il problema è che spesso vengono a chiamati a organizzare i nostri lavori le persone che con la disabilità non hanno mai avuto a che fare. E questo è un limite. Io ho avuto questa occasione, così ho potuto mettere a disposizione il mio essere cieco e la mia professionalità. Nei musei esistono problemi di accessibilità a due livelli:
-accessibilità dei luoghi a causa delle barriere architettoniche;
– accessibilità dei contenuti: possibilità per chi non può vedere di poter toccare gli oggetti, di poter ascoltare le spiegazioni relative al materiale contenuto in un museo.
L’accelerazione tecnologica rappresenta una delle sfide più importanti per i musei.
Il Museo, per sua natura ama le stabilità, le profondità, i tempi lunghi, e non i ritmi rapidi, mutevoli e superficiali dell’oggi. Conciliare questa dimensione con la dimensione tecnologica, è però una sfida imprescindibile, e non solo per fini promozionali, ma anche e soprattutto come obiettivo culturale. Se il museo abbandona la dimensione digitale, o la vede come una dimensione esclusivamente pubblicitaria e di marketing, di fatto si condanna all’irrilevanza in una sfera sempre più importante della vita contemporanea.
Esistono alcuni esempi virtuosi in questo senso. Il Cooper-Hewitt Museum di New York, ad esempio, ha abbracciato la necessità del visitatore di essere protagonista progettando per lui una vera e propria “penna elettronica” con la quale può interagire con tutte le installazioni multimediali del museo e indicare le opere che lo interessano, per salvarle e poterle rivedere su web successivamente alla visita.
In un caso oramai divenuto celebre, il Metropolitan Museum di New York è andato a cercare in rete le foto più belle scattate dagli utenti all’interno del museo e ne ha fatto il cuore della propria campagna promozionale “It’s Time We MET”.
Un museo oggi deve innanzitutto sforzarsi di comprendere bene le mutazioni del presente, studiando i comportamenti del proprio pubblico di riferimento dentro e fuori il museo, e aggiornandosi sulle tecnologie più diffuse, anche per evitare errori che possono rivelarsi molto pesanti in termini sia economici che di immagine. Molto utile in questo senso è il confronto costante, sia in rete che dal vivo, con le esperienze internazionali, oggi molto più facilmente a disposizione di un tempo.
Un altro punto chiave è l’apertura al pubblico, intesa non soltanto in senso fisico, ma soprattutto in senso concettuale e attitudinale. I Social Media sono un dialogo, e funzionano benese da parte dello staff museale c’è una vera volontà di apertura e di condivisione delle sfide e degli obiettivi quotidiani col proprio pubblico. Molto apprezzati ad esempio sono i “dietro le quinte”, tutto ciò che racconta la vita quotidiana della macchina museale. Questo cambio di atteggiamento costa sicuramente tempo e fatica, ma è in grado di stimolare un rapporto molto più stretto e fidelizzato col proprio pubblico di riferimento, con vantaggi sostanziali sul medio-lungo periodo. In questo contesto in continuo cambiamento, contribuire nella realizzazione di un lavoro indirizzato alle persone con difficoltà è una parte importante e sicuramente un bel traguardo per una persona con difficoltà visive.
“Non mi definisco ‘non vedente’ ma cieco. Questa non è una pignoleria, ma una differenza sostanziale. Non vedente sembra dare troppa attenzione a ciò che una persona non ha. Io invece cerco di vivere mettendo a frutto le mie capacità, per avere una vita più piena, ricca e bella possibile. È vero che mi manca un senso, ma me ne rimangono altri quattro. Ecco perché dopo alcuni anni passati ad occuparmi di arte nei musei, dal 2017 ho avuto il desiderio di dedicarmi alla pittura.”
Un percorso al buio, per scoprire come, sviluppando gli altri sensi, la cecità possa trasformarsi in una risorsa.
“La pittura è un mezzo straordinario per esprimermi. Attraverso le mie opere desidero instaurare un dialogo con gli altri. Quando dipingo metto nel mio lavoro tutto me stesso: desideri, limiti, sogni, dolore, sofferenza, ambizioni e delusioni. Spesso mi viene detto che le mie opere ‘hanno un’anima’. Con questa espressione colorita capisco che le persone hanno percepito che ho realizzato il mio lavoro con ispirazione, passione e non in modo asettico. Io dipingo con le mani. Ho un assistente che mi passa i colori e io dipingo. Dipingo quadri sulla mia patologia definiti IPOVISIONE, ma anche paesaggi. Come faccio? Se per alcuni anni hai avuto il dono della vista, ogni volta che senti parlare di cielo azzurro, di tramonti, di mare o di fiori di vari colori anche se cieco riesci ancora a “vederli” e a portarne memoria. Ho realizzato anche un’opera con Manu Invisible nel periodo in cui era stato coinvolto dall’ANFAS per fare un murales dal titolo ‘OLTRE’. È stata una bella scoperta, perché mentre molti artisti mi hanno snobbato, Manu è riuscito appunto ad andare OLTRE e a apprezzare la possibilità che anche un non vedente possa dipingere. Perché la pittura è una professione da cieco. Come diceva Picasso: uno non dipinge ciò che vede, ma ciò che sente, ciò che dice a sé stesso riguardo a ciò che ha visto”
Andrea ha superato anche altri limiti. Partecipa a delle conferenze dove mette a disposizione degli altri la sua storia a disposizione degli altri la sua storia, la sua vita, le sue esperienze e collabora con diverse emittenti radiofoniche in qualità di speaker.
“Insieme al mio collega di lavoro, nel 2013 ho cominciato a parlare a ‘Radio X’ di storie di vita e di rinascita , perché quello che manca, spesso, è il racconto della normalità nella disabilità. Ecco perché il programma si intitola ‘Oltre le barriere’. Si parla di persone che nonostante i problemi sono riuscite a vivere una vita ‘col sorriso’. Ho avuto anche collaborazioni con le Università di Cagliari dove ho parlato della mia vita agli studenti; esperienza che porto anche ai bambini delle scuole dell’obbligo, alle scuole superiori, nei centri anziani, perché la mia esperienza di ‘morte’ e di rinascita, possa essere di aiuto anche a chi si trova ad affrontare momenti di difficoltà.”
La disabilità è un’opportunità con un prezzo di cui si farebbe volentieri a meno, ma una volta capito che l’unica cosa che ci è concesso fare è coglierla, offre una completezza di informazioni sul senso della vita, che difficilmente si trovano altrove. Si possono reperire anche altrove, se si vuole, ma è difficile con tutte le distrazioni che ci offre la vita. Solo così si possono realizzare opere che daranno ossigeno anche chi si troverà a trascorrere lo stesso cammino.
(Tratto da “Figli di Sardegna, racconti di vita” di Stefania Cuccu)