di ROBERTA CARBONI
La costa di Nebida si estende per circa 20 km interessando i comuni di Buggerru, Iglesias, Gonnesa e Portoscuso. Classificata come Sito di interesse comunitario (SIC) e Zona speciale di conservazione (ZSC), essa vede la concentrazione degli elementi significativi delle morfologie costiere sarde: falesie calcaree a picco sul mare, spiagge sabbiose e ciottolose, isolotti più o meno grandi e suggestive vecchie miniere dislocate su tutto il territorio.
Unica nel suo genere anche la vegetazione, che deve la sua importanza alla presenza di formazioni vegetali riconducibili a numerosi habitat di interesse comunitario. I settori di maggiore interesse dal punto di vista floristico sono quelli calcarei, i quali ospitano una flora specializzata caratterizzata dalla ricchezza di specie endemiche influenzate dalla composizione delle rocce.
L’Iglesiente è legato inevitabilmente alla storia mineraria europea del Settecento e dell’Ottocento che ha lasciato segni indelebili dello sfruttamento del territorio dando luogo ad esiti spesso tragici – basti pensare alle consistenti deforestazioni – per garantire lo sviluppo del tessuto economico-sociale l’ambiente. I risultati di questo lungo processo, tuttavia, non sempre sono stati scriteriati e irrispettosi dell’ambiente e della natura, facendo di questo territorio un vero e proprio unicum in termini paesaggistici, nonchè una risorsa di grande impatto sul piano turistico. Paesaggi minerari come Nebida, Porto Flavia e tanti altri rappresentano infatti un vero e proprio fiore all’occhiello per lo sviluppo in chiave turistica di territori che ancora faticano a risollevarsi dall’impatto che l’economia mineraria ha generato.
I primi rilevanti lavori di ingegneria mineraria in questo tratto di costa risalgono alla seconda metà dell’Ottocento, contemporaneamente alle miniere del Salto Gessa tra Fluminimaggiore e Buggerru. Il villaggio minerario di Nebida iniziò allora a svilupparsi attorno ad una piccola piazza che ospitava anche il circolo dei lavoratori, all’infermeria, agli edifici amministrativi e alla chiesa. Tra il 1910 e il 1930 circa, il villaggio contava circa 3.000 persone, dei quali un terzo impiegate nelle attività estrattive della zona: Lamarmora, Fortuna e Nicolay.
Dopo l’ammodernamento del sistema idrogravimetrico degli anni Cinquanta e la grande crisi estrattiva degli anni Ottanta, il settore risentì di un notevole indebolimento, fino alla definitiva chiusura a ridosso dell’ultimo secolo. Oggi Nebida conta appena un centinaio di persone e i principali siti di estrazione e lavorazione mineraria dell’Iglesiente, compresi quelli di Nebida, sono chiusi e in parte destinati al turismo.
Il villaggio minerario di Nebida sorse sul finire dell’Ottocento per dare alloggio ai funzionari della miniera, ai dipendenti e alle loro famiglie. Oggi i resti di questo complesso sono visibili tra le varie porzioni della montagna e del declivio roccioso a picco sul mare. La società che la realizzò era la “Societè Anonyme de la Mine de Nebida”, diretta allora dall’ingegnere belga Alfonso Werzée con la consulenza dell’ingegnere Giorgio Asproni.
Come molti altri siti minerari ed industriali del tardo Ottocento-primi anni Venti del Novecento, gli edifici si caratterizzano per un gusto eclettico, frutto dei nuovi linguaggi Neoromanico, Neogotico e Liberty. Colpiscono le cornici dentellate a coronamento delle palazzine destinate agli uffici, simili a piccoli castelletti medievali, le torrette merlate delle fornaci e delle ciminiere, gli archi a sesto acuto o a tutto sesto delle finestre e l’accostamento del mattone alla pietra locale.
Costruita nel 1897, la Laveria Lamarmora è oggi il vero gioiello della miniera di Nebida. Il suo scheletro si inserisce in un contesto storico e ambientale unico: servita dalla galleria Cuccuru Aspu, l’impianto è ubicato a picco sul mare, al fondo di un declivio roccioso che si affaccia sul mare, puntellato dalla presenza degli isolotti de S’Agusteri, de Il morto e della più nota Pan di Zucchero.
Ma qual era la funzione di una laveria nelle miniere? La sua importanza, in effetti, era notevole: si trattava di un opificio specializzato nella lavorazione del minerale grezzo che veniva estratto nella miniera, prima che questo fosse destinato ai vari utilizzi. Il processo di lavorazione del minerale, detto “arricchimento”, era assai complesso e prevedeva varie fasi, a seconda del minerale estratto. Il susseguirsi degli anni ha portato ad una continua trasformazione delle tecnologie utilizzate in queste grandi fabbriche passando ad esempio da un’alimentazione data dai mulini ad acqua all’utilizzo di macchine a vapore.
La laveria rappresentava in tal senso un impianto importante nel processo industriale dell’estrazione dei minerali: in essa il materiale “grezzo” estratto, attraverso un procedimento idrogravimetrico, viene ridotto in “concentrato”, cioè riportato al minerale “mercantile” da inviare alle fonderie per essere trasformato in metallo. Questa di Nebida esprime appieno l’alta qualità tecnica raggiunta nell’isola dagli impianti minerallurgici, grazie all’import di know-how e di macchinari belgi.
Si estendeva su una superfice di 2000 mq e in passato trattava i minerali che arrivavano tramite i convogli ferroviari, sia dalla teleferica Carroccia che dalla galleria Lamarmora.
La Laveria La Marmora rimase una delle più potenti per quantità di minerale trattato e certamente la più moderna per il ciclo operativo installato. Oggi è possibile visitarla partendo dal villaggio e seguendo una stradina molto panoramica tracciata lungo il percorso un tempo usato per il trasporto dei minerali.
La struttura era realizzata in mattoni pieni e pietra locale, il pavimento era in cotto e le coperture in legno. Il suo compito era quello di trattare i cristalli o gli aggregati di galena, il minerale semiconduttore che nell’Iglesiente era stato scoperto già nel 1614 in piccole sacche d’argento. I materiali venivano frantumati, ripuliti dai detriti e classificati, prima di essere imbarcati.
La Laveria Lamarmora era un impianto assai moderno per l’epoca, con un’organizzazione degli spazi funzionale a quell’industria estrattiva così fiorente in quest’angolo della Sardegna.
La struttura è costituita da quattro volumi sovrapposti e degradanti verso la costa, percorsi da archi. Ai lati due forni e due ciminiere. All’interno stavano impianti di separazione e classificazione dei minerali, ambienti per il loro stoccaggio, macchina a vapore e sala forni. Nella parte più bassa, un deposito e un porticciolo per le barche da trasporto.
Nella parte più bassa vi era pure il porticciolo per l’attracco delle imbarcazioni che provvedevano poi a portare i minerali nei più importanti porti dell’Europa mediterranea: Spagna, Francia, penisola italiana.
Visitare la laveria è oggi un’esperienza da fare assolutamente se si visita la Sardegna. E nonostante i 300 gradini per raggiungerla, la vista vale il viaggio!
I miei quindici anni, i primi grandi amori, erano li’.